di Jessy Simonini
Giuseppe Culicchia, Il tempo di vivere con te, Strade Blu-Mondadori, Milano, 2021, pp. 168, 16.15 €
In molti hanno tentato di ricostruire nello spazio narrativo la temperie politica degli anni Settanta e di alcuni dei suoi protagonisti, nella violenza incontenibile di una stagione segnata dall’esperienza politico-militare della lotta armata e da quella del terrorismo di stampo fascista. Un’operazione complicata, quasi che la questione fosse per forza di cose ammantata da una coltre di indicibilità: dicibili le storie, in taluni casi utilizzate abilmente come espedienti narrativi per più ampie costruzioni di fiction; ma difficili da fornire, almeno per molti autori degli ultimi due decenni, le più elementari coordinate politiche della questione, ridottasi nel migliore dei casi a uno sterile esercizio memoriale o commemorativo. E negli esempi peggiori a un discorso impolitico, deprivato di ogni profondità, riferito all’esperienza di una o poche soggettività o al loro rapporto con un’eredità persecutoria: è senz’altro il caso del film di Anna Rita Zambrano, Dopo la guerra, uscito nel 2017.
Del resto, gli anni Settanta sono nel linguaggio comune identificati con un’espressione deformante, inserita in una retorica di per sé impolitica: “gli anni di piombo” che annullano le sostanziali differenze fra i piani eversivi della destra e l’esperienza della lotta armata dell’estrema sinistra. E così la narrazione mainstream ci ha spinto a pensare che, in fin dei conti, di differenze fra Vito Miceli e Moretti o fra Concutelli e Balzerani ve ne siano ben poche. Legittimo pensarlo sul piano della morale, meno legittimo pensarlo sul piano politico; inquietante, invece, crederlo dal punto di vista storico: un infingimento bello e buono, espressione diretta della retorica che è stata agita e performata negli ultimi anni, anche grazie ad alcune narrazioni conniventi.
Non parlo solamente delle più recenti miniserie Rai o Mediaset, da Gli anni spezzati ad Aldo Moro-il presidente, ma soprattutto del discorso pubblico e commemorativo e di come, in questo discorso, si tenti di azzerare ogni possibile ragionamento politico sull’esperienza della lotta armata: operazione impossibile o almeno non più percorribile perché parlare in questi termini degli anni Settanta è nefas. Vero è che alcuni grandi narratori degli ultimi anni hanno tentato di invertire la tendenza e di scavare più in profondità: per il romanzo si possono citare Silvia Ballestra (I Giorni della rotonda, Rizzoli, 2009), Luca Rastello (Piove all’insù, Bollati, 2006) e Giorgio Vasta (Il Tempo materiale, Minimum Fax, 2009); per la memorialistica si segnala invece lo splendido testo dell’ex militante di Prima Linea Marina Premoli (Questa è già la mia vita, Nottetempo, 2018). Esempi d’alto livello in un mondo, quello delle narrazioni sugli anni Settanta, fatto anche di libri di bassa qualità: talora reazionari, talora semplicemente impalpabili. In alcuni casi, del resto, gli anni Settanta diventano un espediente narrativo per raccontare d’altro, un conflitto interiore, la rottura di un legame familiare. È così nel romanzo di Crocefisso Dentello, La Vita sconosciuta (La Nave di Teseo, 2017) o in quello di Luca Doninelli, Tornavamo dal mare (Garzanti, 2004), ma pure il più recente Città sommersa di Marta Barone (Bompiani, 2020), acclamatissimo dalla critica.
Apparentemente abolita ogni lettura (o proposta di lettura) politica, messo in secondo piano il profilo ideologico di un decennio complicato, tutto pare rilocalizzarsi, ripensarsi in funzione della narrazione e di un’indagine che si definisce a partire dall’intimo, dalla propria soggettività nel rapporto con gli altri o con una “memoria difficile” che riemerge all’improvviso e con cui occorre fare i conti. Benché i tentativi non siano sempre riusciti, la messe di narrazioni sugli anni Settanta ci mostra l’interesse rivolto dagli scrittori (e pure dai registi) nei confronti di quel periodo, che si configura come il terreno più fertile per sviluppare una storia, uno sfondo quasi necessario per certi tipi di racconto. Lo scrive Gianluigi Simonetti, identificando la lotta armata come uno degli ultimi “momenti forti” della storia italiana, pur sottolineando come: “Di fronte alle azioni forti il romanzo spesso si ritrae; i momenti che isola e indaga sono altri, avvengono altrove, non sopportano schematismi (e spesso non sono nemmeno vere e proprie azioni, ma il sogno, il rimpianto o l’ombra di un’azione). Se la comunicazione si serve della lotta armata come di un serbatoio spettacolare ricco di gesti esteriori, immagini forti e nudi fatti, il romanzo tende piuttosto a mettersi a lato della Storia; a parlare di impotenza, a illuminare ciò che non si vede”.
È con queste premesse che si può leggere l’ultimo libro di Giuseppe Culicchia, Il tempo di vivere con te (Mondadori, 2021). Rispetto al discorso già condotto, questo romanzo non si situa assolutamente su un terreno diverso, ma al contrario pare innestarsi in una tendenza ampiamente percorsa: quella di un racconto impolitico, tutto ripiegato sull’intimo e sulla complicata elaborazione della memoria. Ma a differenza dei libri che esprimono il punto di vista delle vittime, in particolare dei figli o dei parenti di chi è stato ucciso dai militanti del partito armato (Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore, Einaudi, 2011 o Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, Mondadori, 2009), quello di Giuseppe Culicchia è lo sguardo di un parente di un militante delle Brigate Rosse. La storia è infatti quella di Walter Alasia, giovane militante brigatista di Sesto San Giovanni ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia nel 1975. È dunque al cugino Walter che il tu dell’autore si rivolge lungo tutto lo sviluppo del racconto, che rappresenta insieme uno scandaglio negli abissi della memoria e un lungo monologo carico di domande rimaste inevase.
Si tratta, già di per sé, di una novità significativa: sono molto rari i libri che danno voce ai familiari dei militanti del partito armato, in molti casi condannati all’oblio oppure all’onta. Culicchia invece sceglie di non nascondersi e di fornire al lettore le coordinate del suo particolare rapporto con Walter Alasia, il cugino più grande, rappresentato sin dalle prime pagine “ad altezza di bambino” (giacché il narratore è poco più di un bambino quando Alasia viene ucciso):
A te invece non voglio bene. Io di te Walter sono innamorato. Innamorato pazzo. E i nove anni e i centocinquanta chilometri che ci dividono non hanno alcuna importanza. Con te Walter ci si vede quasi solo d’estate, quando per le vacanze vieni coi tuoi a Nole Canavese nella casa dei nonni e però finisci sempre per stare da noi a Grosso. Perché non sono il solo ad amarti, Walter. Anche mia sorella ti ama. Anche mia madre ti ama. Anche mio padre ti ama. Non amarti è impossibile, Walter. Perché tu Walter sei sempre di buonumore. E tanto affettuoso. E così generoso.
Il racconto prende così le mosse da una memoria familiare sommersa, la storia di un cugino, della sua famiglia, in particolare della madre Ada cui egli era legatissimo. E in questa memoria familiare, pare quasi che la Storia faccia fatica a entrare, che tutto si limiti a una narrazione intima, personale della questione. Se è vero, come scrive Annie Ernaux, che “tutte le immagini scompariranno”, in questo libro le immagini vengono invece conservate, descritte, anche riprodotte. L’album di famiglia cui faceva riferimento Rossanda in un suo celeberrimo e discusso articolo apparso sul manifesto si mostra allora scevro di ogni significato politico: è effettivamente un album di fotografie che ritraggono momenti familiari e conviviali, immagini non ancora disperse che ci consentono di conoscere gli aspetti umani, più intimi, di un militante della lotta armata. Su Walter Alasia, già nel 1978, era a dire il vero stata pubblicata un’inchiesta (G. Manzini, Indagine su un brigatista rosso: la storia di Walter Alasia, Einaudi, 1978) che raccoglieva alcune testimonianze significative di amici e familiari, al fine di ricostruire il profilo politico e personale del giovanissimo brigatista.
Ed è proprio nella seconda parte del libro, quando questo documento imprescindibile viene inserito nella “conversazione infinita” di Culicchia con il cugino, che le testimonianze e i ricordi assumono un significato più profondo, diventano più solide e reali, parte di un’indagine memoriale non più ridotta a una lamentosa “canzone per un cugino” cui Culicchia sembra talvolta sconfinare. Il libro si incardina allora in una direzione più convincente, soprattutto quando viene presentato il personaggio della madre Ada, così luminosa e brecthiana, quasi una Mutter Küsters fassbinderiana che discretamente accompagna il figlio nella sua lotta:
Zia Ada, cara zia Ada. All’epoca non aveva potuto dire a quel giornalista che la intervistava per il libro che in realtà quella mattina doveva aver capito tutto: sapeva che tu Walter le avevi fatto conoscere Renato Curcio, aveva perfino partecipato a un’azione con voi in cui avevate recuperato da un appartamento a rischio armi e documenti. […] Eravate così legati che le avevi detto delle br. Eravate così legati che si era spinta fino a fare la Rivoluzione con te.
Si potrà notare come manchi l’ambizione o forse la capacità di interpretare la storia del cugino con categorie storicamente e politicamente solide: e non è sempre buona cosa, visto che questo aspetto resta debolissimo e la storia degli anni settanta ci viene presentata, sullo sfondo, come una mera cronologia di avvenimenti e di fatti affastellati senza un significato preciso, con finalità didascaliche di dubbia utilità, come di dubbia utilità sono le due liste finali, “Elenco vittime delle Brigate Rosse” e “Elenco brigatisti uccisi dalle forze dell’ordine” che “su Wikipedia non c’è” e resta una pagina bianca.
Altrettanto discutibile, almeno da un punto di vista politico, il passaggio su Renato Curcio, cui viene ingenuamente (e in maniera del tutto impolitica) assegnata una responsabilità quasi “personale” nelle tragiche circostanze della morte di Walter, senza inserire il ragionamento nel suo contesto, senza ricostruire il processo storico che ha portato alla nascita e allo sviluppo del partito armato. La colpa è una colpa personale, individuale:
Da parte mia, non ho mai voluto incontrare Renato Curcio. Ne avrei avuto la possibilità, bastava che lo avvicinassi al Salone del Libro di Torino. A volte penso che se tu non lo avessi incontrato quel giorno in Ticinese saresti ancora vivo. I tuoi figli giocherebbero coi miei. Quelli di Padovani e Bazzegna [poliziotti uccisi nello scontro a fuoco con Alasia] non sarebbero cresciuti orfani. Le loro mogli non sarebbero state vedove. Tua madre non sarebbe morta di crepacuore.
E pure alcuni altri passaggi che cedono a una retorica debordante, con un utilizzo smodato e iperbolico dell’enumerazione; immagini in successione per caricare il discorso di uno spessore lirico che finisce per neutralizzare ogni slancio politicamente rilevante e per assuefarci a una narrazione armonica, che abolisce la conflittualità fra brigatisti e poliziotti:
Gli uomini in divisa e quelli in borghese circondano la casa popolare dove sei cresciuto. In tutto sono una quarantina. Pensano al collega ucciso a Roma la mattina del giorno prima. Pensano alle loro mogli. Pensano ai loro figli. Pensano alla sfortuna che li ha voluti di turno per quell’operazione proprio quel giorno. Pensano che vorrebbero essere altrove e non lì, nel buio e nel gelo di quell’alba di dicembre. Pensano che vorrebbero essere a casa, nel caldo dei loro letti. Pensano all’ultima volta che sono stati in ferie. Pensano al fatto che tra dieci giorni è Natale e devono ancora comprare i regali ai figli. Pensano che con lo stipendio che prendono non possono accontentare tutti i desideri dei figli. Pensano che rischiare la vita in quel modo per quei quattro soldi a fine mese non è giusto. Pensano che per loro non è mai Natale.
Malgrado questi cedimenti, malgrado l’ingenuità di fondo di alcuni aspetti del romanzo (un’ingenuità che forse è frutto di una scelta precisa da parte dell’autore, ma questo resta ancora da comprendere), c’è come una luminosità di cui questa storia, in particolare nella seconda parte, è circonfusa; quasi una vivacità che si esprime attraverso gli stessi profili di Walter e Ada: Culicchia riesce a restituirci una immagine non cupa, non condannata al grigiore di cui spesso sono ammantate le rappresentazioni della lotta armata degli ultimi anni. Questo è un aspetto che in fin dei conti salva il romanzo dagli eccessi retorici e dalla sua dimensione forse non impolitica, quanto piuttosto, molto ingenuamente, pre-politica. Lo si nota nell’efficace rappresentazione della storia operaia di Ada, la zia dell’autore:
Eh, ci sto arrivando. Alla fine è venuto fuori che il mio reparto non era nemmeno quello, perché mi avevano messa in quella che loro chiamavano la gabbia dei matti. Era un repartino dove dovevo misurare le cinghiette che le altre donne smussavano con la lama per togliergli le bave. Tremila cinghiette al giorno, capite? Una catasta di roba. Dovevo applicarle a due volani e controllarne la lunghezza, che era segnata su un quadrante conficcato nel muro, con una freccina che saliva e scendeva. Vi dico che i primi giorni mi sembrava di impazzire. Tornavo a casa a Sesto e piangevo.
Forse per interesse genealogico e politico, oltre che storico, sarà proprio verso le tante Ada della storia (non solo di quella della lotta armata) che bisognerebbe rivolgere lo sguardo in futuro. Sia per scandagliare la zona grigia di fiancheggiatori e fiancheggiatrici che hanno reso possibile il verificarsi di quella stagione, sia per conoscere lo spazio familiare, culturale e politico nel quale i protagonisti della lotta armata negli anni settanta sono nati e cresciuti.
A volte si può pensare che l’obiettivo sia quello di neutralizzare la portata politica di un decennio:
è ciò che in molti hanno cercato di fare negli ultimi anni, in linea con la neutralizzazione compiuta dal discorso ufficiale e dal lavoro condotto, fra tanti, da Flamigni e illustri continuatori. Per contrastare questa tendenza, per restituire spessore e profondità politica al discorso, si cerchi almeno di dare corpo a queste storie e di farle rientrare nello spazio letterario. Come, almeno in nuce, con i limiti della sua indagine memoriale eccessivamente retorica, tenta di fare Giuseppe Culicchia nel suo ultimo libro.