di Mazzino Montinari
Sabrina Ragucci, Il medesimo mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp. 176, € 15,00.
C’era una volta la famiglia Virno. Una dinastia che possedeva terre e coltivava tabacco. Pietro fu l’ultimo a ereditare quella prosperità. Dopo di lui, la terra e il tabacco sparirono. Rimasero i figli, però. E tra questi, Giovanna che, contro la volontà paterna, sposò Mino, un falegname, “non uno con la terra”. Dalla coppia che aveva dimenticato il passato, quello dei Virno, arrivarono Carlo, Angelo, Caterina, Maria e, infine, Paolo. Così inizia Il medesimo mondo di Sabrina Ragucci, artista visiva e qui al suo romanzo d’esordio. Un’opera prima che già dal prologo potrebbe essere intesa come una saga famigliare, se non fosse che a non esistere è proprio la saga. E nemmeno quel senso dell’origine che, ad esempio, nell’Heimat di Edgar Reitz, trasforma l’immaginario villaggio di Schabbach in un autentico protagonista della narrazione.
Dal capostipite Pietro a Giovanna e Mino, per passare poi a uno dei loro figli, Angelo e a chi seguirà, si avverte un estraniamento progressivo. Persone senza memoria, avvolte dall’oblio e dal gelo, cristallizzate e incapaci di avvertire l’altro, gli altri. Non si può dire che siano egoiste, così lontane da loro stesse, dalle emozioni, dai sentimenti, dalle ambizioni.
La storia raccontata da Ragucci inizia nell’immediato dopoguerra, nel 1946, forse nel 1947. Un periodo che nell’immaginario è figurato come quello della ricostruzione e del riscatto, nel quale è stato possibile lasciarsi alle spalle il passato, gli orrori di un’umanità distruttiva e autodistruttiva. È tempo di ricostruire. Di tornare a essere umani. Il presente è qualcosa di passeggero in attesa che giunga un futuro radioso. Così, sempre in quell’immaginario si istituisce un’epica della sofferenza, della povertà, del lavoro, della migrazione, delle famiglie che anche se costrette alla diaspora, alla dispersione, restano idealmente unite, ostinatamente contrarie a ogni forza centrifuga. Insomma un’età dell’oro.
Nel romanzo, però, quest’epica si dissolve, lo spazio per i sogni si contrae, la tripartizione stessa del tempo confluisce in un eterno e indefinito presente. I protagonisti de Il medesimo mondo, viaggiano dall’Italia alla Germania, sono segnati da disgrazie potenzialmente devastanti, infliggono e subiscono violenze, sono parte passiva di una struttura complessa che pretende in serie corpi adatti a lavorare e consumare, procreare e morire. Eppure, quello che sembra un movimento continuo non è altro che un girare a vuoto nel medesimo mondo.
Un romanzo distopico con vista sul passato, verrebbe da suggerire, probabilmente, contro le intenzioni dell’autrice. Se Angelo, “l’uomo senza talento […] che non teme di essere incapace”, avesse incontrato il Rick Deckard creato da Philip K. Dick in Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, non avrebbe superato il test Voigt-Kampff, quello che serviva a individuare l’empatia e dunque, in caso se ne fosse rilevata l’assenza, a identificare gli androidi. Pur senza i baccelli ideati da Jack Finney, quella descritta da Ragucci potrebbe essere un’invasione degli ultracorpi, realizzata in modo invisibile dentro uomini e donne, essi stessi alieni predatori del proprio corpo. Nel mondo di Angelo, Teresa, Lia, Roberta, solo alcuni dei protagonisti del romanzo, non accorre un dottor Miles Bennell che disperatamente racconta la storia allucinante, che urla dell’irreversibile dis-umanizzazione dei suoi simili, che prova a contrastare il nemico silente. Nel medesimo mondo tutto continua a scorrere senza interruzioni anche quando i traumi, i tragici errori, gli incidenti potrebbero ridestare Angelo e le persone che gli stanno (in)volontariamente accanto. I Virno ora sono i Mogliano, ma la memoria non fa il suo lavoro, chi si è perso non sarà trovato perché non verrà cercato.
Il medesimo mondo è una storia di silenziose sopraffazioni, di dolori repressi, di violenze che il più forte esercita sul più debole. E che il più debole lascia che siano esercitate. Vicende nelle quali la parola “resilienza”, quella che oggi sembra obbligatorio utilizzare in ogni contesto, perde di significato, si svuota di quella stucchevole positività: “Teresa – la moglie di Angelo – accende la stufa a carbone, la casa è fredda in inverno. Lo schiaffo che Angelo le ha dato, l’inibizione successiva, la gelosia sempre pronta a manifestarsi le sono sembrate azioni necessarie per arrivare a indossare la divisa della moglie devota; la moglie devota che aspetta il proprio futuro, per gettarselo alle spalle e ricordarlo come un bene prezioso; la moglie devota che, prima di lavarsi, si specchia in camera da letto, nuda, incinta, nello specchio opaco, macchiato da trascurabili chiazze di nero”. Si subisce perché nel medesimo mondo è scomparso il mondo, sono assenti gli altri, c’è solo un’identità che si sposa, che lascia una casa per occuparne e pulirne un’altra, che da un lavoro passa a un altro lavoro per poi dormire e ricominciare a lavorare.
“Cosa si aspetta Angelo dalla figlia? Che riesca a trovare un fidanzato, un fidanzato che la sposi, un marito con cui avere figli, un nipote cui dare il nome del nonno. Angelo si aspetta che Roberta lo curi quando sarà vecchio, che pulisca la casa […]. Da un figlio maschio, Angelo avrebbe avuto l’eternità del cognome, l’illusione di vivere oltre la propria morte, ma Angelo è pragmatico: tra l’eternità e un paio di mutande pulite, iniziamo dalle mutande!”. E così, in questa distopia che trova nel passato, e non in una vaga predizione del futuro, il malessere dell’esistente, arriva Roberta che a diciotto anni “è ormai abbastanza saggia per sapere che ciò che desidera può derivare solo da un misto tra calcolo e indifferenza. Tutto il resto è un contorno, così come l’affetto di circostanza per i parenti e l’impazienza di un eventuale matrimonio che la liberi da loro”.