di Paolo Lago
Oggi, a causa della pandemia, sono stati chiusi cinema e teatri, biblioteche e musei. Tutti questi spazi sono accomunati dal fatto di costituire, all’interno della nostra società, delle eterotopie. Tale definizione è stata coniata da Michel Foucault, in un suo intervento del 1967 dal titolo Des espaces autres, per definire i luoghi “che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili”1. Le eterotopie sono degli “spazi altri” che costituiscono “una specie di contestazione, al tempo stesso mitica e reale, dello spazio in cui viviamo”2.
Secondo Foucault, teatri e cinema hanno la caratteristica di giustapporre, in un unico luogo reale, numerosi spazi tra loro incompatibili: nel teatro, sulla scena, vengono ricreati una serie di luoghi estranei gli uni agli altri; nella sala del cinema, invece, in uno spazio a due dimensioni ne viene proiettato uno a tre dimensioni. Cinema e teatri sono poi strettamente legati alla fantasia, alla libertà dell’immaginazione, al sogno. Quando entriamo in un teatro o in un cinema si entra veramente in uno “spazio altro”, uno spazio del sogno, in cui si materializzano davanti ai nostri occhi, come per magia, delle storie messe in scena da attori presenti lì in carne ed ossa oppure presenti in una sorta di altra dimensione, all’interno della pellicola proiettata. Il cinema si è sempre caratterizzato come una vera e propria macchina dei sogni: alle sue origini, infatti, altro non vi è che la “lanterna magica”, uno strumento che proiettava su una parete, in una stanza buia, delle immagini dipinte. Gli spazi del teatro e del cinema sono poi caratterizzati dall’essere al buio: in essi, durante lo spettacolo, è presente solo la luce sulla scena o quella emanata dalla proiezione. Lo spettatore del cinema, rilassato nel buio della sala, dà libero sfogo alla sua immaginazione di sognatore giungendo a identificarsi con i personaggi cinematografici. Il cinema e il teatro, perciò, possono essere definite come delle vere e proprie eterotopie del sogno.
Le biblioteche e i musei sono definite da Foucault come “eterotopie del tempo accumulato all’infinito”, in cui “il tempo non smette di accumularsi”3. Anche questi sono spazi della fantasia e dell’immaginazione: nelle biblioteche possiamo dare libero sfogo alla nostra immaginazione per mezzo della lettura; nei musei incontriamo la bellezza dell’arte che, spesso, si unisce a racconti e storie del tempo passato, vestigia e testimonianze che ci parlano e ci incantano. In tutti questi spazi, nei cinema, nei teatri, nei musei e nelle biblioteche cadiamo insomma preda di un vero e proprio incantesimo, entriamo in una dimensione magica, in un altro spazio e in un altro tempo liberati dalle dinamiche della quotidianità, grigia e banale, che ci aspetta fuori.
Fra i diversi tipi di eterotopie ce n’è una, secondo Foucault, che si configura come “l’eterotopia per eccellenza”, la nave. Essa è un “pezzo di spazio vagante”, “un luogo senza luogo che vive per se stesso” e che diventa un vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, uno spazio del sogno e della fantasia liberata. In una precedente versione radiofonica del suo intervento, per descrivere tali qualità della nave, lo studioso francese usava tonalità più poetiche rispetto alla successiva: “Le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”4. Da una parte abbiamo l’immaginazione, simbolicamente rappresentata dai pirati e dalle loro avventure; dall’altra la polizia, simbolo del controllo e dello “spionaggio”.
Al pari della nave, anche i teatri e i cinema, le biblioteche e i musei sono dei serbatoi di immaginazione. E quando sono chiusi, in un certo senso, ci viene negata la possibilità di immaginare, di sognare, di arricchire e curare una parte importante di noi stessi. Probabilmente, invece di una totale chiusura, nonostante la situazione di emergenza, si potevano mantenere gli accessi limitati e scaglionati, come nei negozi o nei centri commerciali. Ma le eterotopie del sogno non hanno certo un immediato ritorno economico. Non c’è quindi da stupirsi che siano state immediatamente chiuse (come anche un altro spazio eterotopico, la scuola) in una società dominata dal modello di sviluppo capitalistico, che insegue soltanto il profitto economico. Una società senza teatri, cinema, biblioteche e musei è – al pari di una “civiltà senza navi” – come un bambino “i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare” e, allora, “i sogni si inaridiscono”.
I sogni e l’immaginazione si annientano anche quando le navi, eterotopie per eccellenza, sono costrette a fermarsi nei porti, quando vengono bloccate, per motivi economici o per gli interessi degli armatori; quando la loro libera erranza sulla distesa del mare viene negata e annullata. Di navi ferme, nella narrativa e nel cinema contemporanei, ne incontriamo diverse: pensiamo al romanzo di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (Ilona llega con la lluvia, 1988), in cui una nave, la Hansa Stern, viene bloccata a Panama, sequestrata dalle banche. Il protagonista del racconto, Maqroll il Gabbiere, marinaio della Hansa Stern, è costretto a sbarcare e ad affrontare il grigiore e la noia della vita a terra. Mentre la nave sta entrando in porto, i funzionari della guardia di finanza di Panama vi si avvicinano per salire a bordo ed effettuare i controlli. Nell’ingresso in porto, lo stesso aspetto del mare cambia: l’immaginifico “imprevedibile disordine” del mare aperto lascia il posto a una “palude grigia” disseminata di spazzatura e di uccelli marini in putrefazione, segnali del progressivo avvicinamento dello spazio della terraferma, quasi esso stesso paludoso e putrefatto. La noia, il controllo e la “polizia” sembrano avere il sopravvento e il comandante della nave, Wito, si uccide con un colpo di pistola. Il suicidio, di fronte al blocco forzato dei sogni del mare, appare anche l’unica alternativa al capitano della London Valour (“che si sparava negli occhi”) dopo il naufragio, nel brano di Fabrizio De André, Parlando del naufragio della «London Valour», in Rimini (1978). Anche in Marinai perduti (Les marins perdu, 1997) di Jean-Claude Izzo, una nave, l’Aldébaran, è costretta al blocco nel porto di Marsiglia, sequestrata dalle banche a causa dei debiti contratti dall’armatore. Marsiglia, a differenza di Panama nel romanzo di Mutis, si presenta come uno spazio generatore di nuovi sogni per i tre personaggi principali del racconto: il capitano Abdul, il suo secondo Diamantis e il giovane marinaio turco Nedim. Ma la nave bloccata nel porto può trasformarsi anche in uno strumento di contestazione e resistenza, come nel documentario di Peter Marcias, La nostra quarantena (2015), che riflette una situazione reale mostrando la vicenda di una nave bloccata nel porto di Cagliari e occupata da quindici marinai marocchini, senza stipendio da mesi. La nave ferma (stavolta non in un porto) si trasforma poi in uno spazio di contestazione “fuori dai confini” e “fuori controllo” nel film di Richard Curtis, I love Radio Rock (The Boat That Rocked, 2009), in cui una nave ancorata nel Mare del Nord viene trasformata da alcuni simpatici e squinternati deejay in una stazione radio pirata che trasmette musica rock illegale nell’universo perbenista dell’Inghilterra del 1966.
Se sono chiuse le eterotopie del sogno e se le navi sono bloccate, la “polizia” comincia perciò ad offuscare l’assolata bellezza dei corsari e la sua fantasia. Ma, forse, possono nascere e svilupparsi anche inediti e creativi percorsi di resistenza e di liberazione.