di Shi Heng Wu
(Mezzaluna nera è la versione ampliata di Sta crescendo, pubblicato nell’antologia 365 racconti horror per un anno, Delos 2011.)
Quando torno dal lavoro, alle 22, ho una sensazione strana. Qualcosa non va. Il cancello forse, è solo accostato. No, nulla di anomalo. Altre volte l’ho chiuso senza far scattare la serratura. Le finestre: a posto. Le tapparelle: a metà. Come sempre. E allora?
Entro, giro intorno alla casa, mi porto sul retro. E qui ho un tuffo al cuore. La piccola porta, che mia nonna chiamava “la bussola”, è socchiusa. Non mi sono mai deciso a sostituirla con un portoncino corazzato, forse per conservare la memoria di Mezzaluna come un paese nel quale il furto era un concetto sconosciuto. A casa mia le porte erano sempre spalancate, e le auto parcheggiate con la chiave nel cruscotto, così mio padre non l’avrebbe dimenticata su qualche tavolo. E le biciclette, nessuno le chiudeva con una catena.
Oppure è per… l’occupante di questa casa di Via Verdi 64, una villetta anni Sessanta con giardino trascurato? Quale ladro oserebbe? Quale scassinatore ne uscirebbe… vivo?
Reprimo un brivido e mi decido a entrare. Mi affaccio sulla stanzona disadorna che un tempo fu il monolocale di mia nonna, e che mi pare conservi ancora i suoi odori di vecchia: gli stracci da cucina messi ad asciugare sulla stufa, i “pan cotti” che si cucinava continuamente.
Apro la seconda porta e passo nel piccolo corridoio del piano terra. E qui la sensazione sgradevole muta in un mancamento. La robusta porta di quercia che immette nella sua camera è divelta. Un cardine è saltato, il battente è sbilenco. Dunque è arrivata a questo punto? Ha abbattuto una porta massiccia, coi cardini rinforzati. Cosa può fermarla ormai?
La stanza è vuota. Il letto di metallo, fissato alla parete con piantoni murati, ha il materasso sventrato. Dunque è sopraggiunta una nuova crisi, la più violenta di sempre. Ha sfondato la porta ed è uscita. Devo trovarla al più presto. Per fortuna è pieno inverno, il paese è deserto. Poche auto in giro, quasi nessun pedone. Spero che nessuno l’abbia notata.
Preparo la sedia a rotelle, la apro. Inserisco la camicia di forza nello zaino e lo appendo alla sedia. Nella tasca del giaccone metto il taser e la siringa.
Poi apro il programma sul cellulare per individuare il segnalatore gps inserito nell’anello di rame che porta intorno alla caviglia. Eccolo. E’ nel solito posto. Questa è la terza fuga, va sempre a nascondersi nella villa. Devo andare a piedi, con la sedia. Non sono più in grado di trascinarla di peso, caricarla sull’auto e poi scaricarla e di nuovo trascinarla nella sua stanza. La mia lesione alle vertebre rischierebbe di fare di me un invalido permanente.
Esco a sinistra, proseguo per Via Verdi, supero la piazza 10 Aprile e arrivo in Via Mameli, lungo il fiume. Non incontro nessuno, per fortuna c’è anche la nebbia. Il paese giace silenzioso, immoto.
La vecchia villa ottocentesca appare con la sua massa buia, lugubre, pericolosa. Il cortile è invaso dalle erbacce, le persiane sono sbrindellate. Un perfetto set da cinema horror. Ma non c’è bisogno di un set. Qui tutto è vero. Maledettamente vero.
Sposto alcuni rampicanti aggrappati alla recinzione, scopro il varco che io stesso ho creato un anno fa, quando l’ho recuperata dalla prima crisi. Spingo dentro la sedia, entro. La trascino sull’erba alta, mi porto sul fianco della casa. La porta è spalancata. Lei stessa ha spezzato il catenaccio, nessuno l’ha mai sostituito. E’ una villa disabitata da sempre, da quando ero bambino, sessant’anni fa.
Accendo la potente torcia a bauletto, resto in ascolto. Sento i suoi rumori, gemiti, sospiri, piccoli ringhi. Li seguo attraverso l’atrio, col pavimento un tempo di ricca ceramica, ora cosparso di guano secco di piccioni. Entro nella sala col soffitto affrescato, deturpato dalle muffe. Lei è là, nello stesso punto, appoggiata con la schiena al muro accanto alla finestra.
“Lucy, sono io, papà!” esclamo, mentre la illumino con la torcia. Mi guarda. Gli occhi sono rossi, ma come vitrei. Alla crisi è seguito lo stato di semi incoscienza. E’ come un fuoco esaurito, spento. La bocca gronda di sangue e interiora. Peli e frammenti d’osso sono attaccati alle guance e ai capelli. Ha catturato un cane, un lupo meticcio. La carcassa è ai suoi piedi, smembrata, e la testa è spiaccicata sulla parete adiacente. Il cane si è difeso, probabilmente l’ha morsa al braccio sinistro. Ma la ferita guarirà in pochi giorni. L’uomo di Sidney ha detto che, più prosegue la mutazione, più le cellule guariscono in fretta. Lucy ha da poco compiuto quattordici anni, la mutazione ha superato lo stato intermedio.
“Sono papà! Va tutto bene!”
Non si muove. Sembra priva di forze. Non ci sarà bisogno di usare il taser. Non reagirà. Non mi attaccherà.
Mi avvicino. Prendo la siringa. Con l’altra mano le sollevo il braccio ferito. La camicia è lacerata, si vedono i segni dei denti.
“Ti fa male Lucy? Non è niente. Sono papà, sono io!”
In risposta mi lancia un ringhio, scopre i denti, ma la testa ricade in avanti, ciondola sul petto. E’ esausta.
Si lascia iniettare il sedativo in vena, non piega né ritira il braccio. L’uomo di Sidney ha detto di usare un sedativo veterinario, è più potente della versione per umani. E loro lo tollerano bene.
Tra un paio di minuti sarà addormentata. Allora la isserò sulla poltrona, dopo averle infilato la camicia di forza, come misura di sicurezza, e la porterò a casa. Dovrò sedarla anche i prossimi giorni, per risolvere il problema della porta. Cercherò di far montare un cancello blindato in fretta. Intanto dovrò tenerla in un’altra stanza, e valutare l’opportunità di legarla a una catena con un collare.
Ma non so per quanto tempo potrò ancora averla con me. L’uomo di Sidney è stato chiaro: quando la mutazione sarà completata non avrà più nulla di umano, sarà come una licantropa 24 ore su 24. Sarà ingestibile, pericolosa a livelli insostenibili. Verranno a prenderla, e non potrò oppormi. La porteranno in un laboratorio segreto, dove stanno studiando i suoi simili. Mi ha assicurato che non li fanno soffrire, lo studio consiste in osservazione, prelievi di sangue, ecografie e radiografie. Devono capire qual è l’origine della mutazione, come fermarla, se sarà possibile fermarla. E soprattutto scoprire il segreto della loro prodigiosa ricostruzione cellulare.
E lo farò. E’ perduta ormai, ne sono consapevole.
Lucy, la mia bambina.
Tutto ciò che mi resta.
Non la vedrò mai più.