di Sandro Moiso
Jeremy D. Popkin, Haiti. Storia di una rivoluzione, Einaudi, Torino 2020, pp. 244, 28 euro
C’è stato almeno un periodo della Storia in cui gli schiavi africani deportati sul continente americano hanno fatto davvero paura: ai loro padroni bianchi e al mondo occidentale che si andava organizzando intorno al modo di produzione capitalistico.
Il periodo è quello che va dal 1791 al 1804 e l’episodio è quello, prolungato, violento e vincente della rivoluzione haitiana. Rivoluzione che, oltre tutto, si inserì nel più vasto contesto della Rivoluzione francese e degli inizi dell’esperienza napoleonica.
Per la prima volta, infatti, non soltanto gli schiavi si erano ribellati in maniera vittoriosa, ma anche avevano saputo darsi un’organizzazione, prima clandestina e poi militare e politica, destinata a dare vita alla prima nazione indipendente non governata da bianchi della Storia moderna.
Oltre a ciò i rivoluzionari haitiani misero in crisi, con la loro azione spesso irruente e selvaggia, l’immagine che la Grande rivoluzione e gli ideali illuministici che in qualche modo l’avevano sottesa volevano dare di sé. In nome di quel fasullo egualitarismo borghese che mai ha realmente tenuto in conto i popoli altri, le donne e, in fin dei conti, anche i proletari “liberati” dalle catene dell’Ancien Régime.
Sull’argomento già in passato sono stati pubblicati notevoli lavori, come ad esempio I giacobini neri di Cyril Lionel Robert James, ripubblicato nel 2015 da DeriveApprodi, ma uscito originariamente in lingua inglese nel 1938 e per la prima volta in Italia nel 1968 per le edizioni Feltrinelli. Originario della colonia britannica di Trinidad e Tobago nelle Antille, l’autore, più noto come C. L. R. James, fu uno dei primi militanti anticolonialisti neri, marxista e nazionalista. E di questa impostazione ideale il saggio, pur magnifico, risente oggi dei limiti compresi nella stessa.
Più attuale, e sicuramente più moderna e coinvolgente, risulta essere oggi la straordinaria trilogia di romanzi storici dedicata a quegli eventi da Madison Smartt Bell: All Souls’ Rising (1995) pubblicato in Italia da Instar libri col titolo Quando le anime si sollevano nel 1999; Master of the Crossroads (2000) in Italia Il signore dei crocevia (Alet 2000) e The Stone That the Builder Refused (2004), in italiano Il Napoleone nero (Alet 2008). Trilogia che lo stesso Popkin dichiara essere alla base del suo interesse per quegli avvenimenti e della sua ricerca.
L’autore, che insegna Storia all’Università del Kentucky, da tempo si occupa della storia dell’insurrezione e della rivoluzione haitiana oltre che della Rivoluzione francese e dei suoi giornali, ma affronta, in questa pur sintetica esposizione, le questioni poste dagli avvenimenti che posero fine al dominio francese sull’isola in maniera più ampia, accompagnandola e allo stesso tempo liberandola dall’unicità della figura gigantesca (seppur contraddittoria) di Toussaint Loverture, il Napoleone nero che ancora anima le pagine della trilogia di Smartt Bell. Per fare questo deve spingere lo sguardo oltre, ovvero al di là dei documenti amministrativi e delle testimonianze scritte, quasi esclusivamente da coloni francesi, per cogliere ciò che dal basso si espresse in quegli avvenimenti.
Un “basso” che si espresse con l’azione e non con i testi scritti e che, proprio per questo, è ancora leggibile e interpretabile dal lavoro dello storico. Che oggi non può più accontentarsi di una Storia scritta e, già solo per questo, profondamente segnata dai privilegi di classe e/o di razza e genere.
La ricostruzione di quella rivoluzione, inserita nel contesto delle cosiddette rivoluzioni atlantiche e di quella francese si presenta perciò come una lettura appassionante e utile ancora, e forse soprattutto, oggi. Motivo per cui diamo qui di seguito un esempio tratto dalle pagine introduttive del testo pubblicato da Einaudi nella collana La Biblioteca.
Con l’espressione «Rivoluzione haitiana», che è relativamente recente, si suole indicare i drammatici eventi che ebbero luogo sull’isola tra il 1791 e il 1804. Gli storici che si servono di questa formula sostengono che tali eventi devono essere messi sullo stesso piano delle rivoluzioni francese e americana nello studio della genesi dei moderni ideali di libertà e uguaglianza. La «Rivoluzione haitiana» implica altresì l’idea che alla base delle vicende di quegli anni ci fosse una certa unità, e che il loro esito finale debba essere inteso come il frutto della realizzazione di un programma portato avanti volontariamente, fin dall’inizio. E invece, come vedremo, non sempre queste proposte si rivelano fondate. Per esempio l’insurrezione di schiavi scoppiata nel 1791 riguardò solo una delle tre province della colonia e si sviluppò parallelamente a un altro movimento rivoluzionario, la rivolta dei liberi di colore di Santo Domingo, che perseguiva degli obiettivi profondamente differenti. Questi due movimenti rivoluzionari si ritrovarono spesso in contrapposizione, un conflitto che perdurò anche dopo la Dichiarazione d’indipendenza haitiana del 1804. All’inizio lottarono tutti e due contro il governo coloniale francese. Tra il 1794 e il 1801, però, dichiararono entrambi il loro sostegno ai francesi, prima che l’intervento di Napoleone nel 1802 spingesse gran parte della popolazione a schierarsi contro la madrepatria. La rivolta haitiana contro la schiavitù fu perlopiù portata avanti da una popolazione di illetterati e non produsse mai un manifesto in cui fossero chiaramente definiti gli obiettivi, ragion per cui lo storico deve fare il suo lavoro basandosi quasi interamente su fonti esterne, in buona parte ostili alla rivoluzione. Quella haitiana fu senza alcun dubbio una rivoluzione a tutti gli effetti, ma sarebbe comunque fuorviante cercare di inquadrarla a tutti i costi in un modello dedotto dalle esperienze americana e francese. Se vogliamo davvero considerare quella haitiana come una delle più importanti rivoluzioni del mondo moderno, dobbiamo dunque ripensare la natura stessa di tale fenomeno e, per esempio, riconoscere che una rivoluzione si può sviluppare anche senza un partito e un movimento (dichiaratamente – ndR) rivoluzionario.
Così come è fuorviante descrivere la Rivoluzione haitiana alla stregua di un movimento unitario dotato di obiettivi coerenti e chiaramente definiti, è altrettanto difficile intravedere nel principale leader Toussaint Loverture un capo rivoluzionario nello stile di Robespierre o Fidel Castro. Oggi non siamo neanche sicuri che egli abbia rivestito un qualche ruolo nell’avvio dell’insurrezione degli schiavi nel 1791. All’inizio, quando Toussaint si unì al movimento, non sostenne la completa abolizione della schiavitù e addirittura si oppose al primo decreto di emancipazione francese del 1793. Nel 1794 lasciò il fronte di lotta contro i francesi e si schierò dalla parte di questi ultimi, ribadendo con fermezza la sua fedeltà al governo della madrepatria anche quando il suo operato sembrava remare contro i francesi. Le leggi che Toussaint impose in questi anni alla popolazione di Saint-Domingue avevano un taglio piuttosto conservatore e spinsero molti neri a rivoltarsi contro di lui. Toussaint Loverture dimostrò senza alcun dubbio che un nero poteva governare un territorio chiave del mondo atlantico, cosa che peraltro ebbe una serie di importanti implicazioni sul piano rivoluzionario1
J.D.Popkin, Definire la rivoluzione haitiana in Haiti. Storia di una rivoluzione, pp. 8-10 ↩