di Gioacchino Toni
A distanza di ormai tre lustri dalla sua prima uscita, torna in libreria il volume di Marco Senaldi, Van Gogh a Hollywood. La leggenda cinematografica dell’artista (Meltemi, 2020), dedicato alla fiction audiovisiva incentrata sulla “vita d’artista” che ormai costituisce un vero e proprio filone cinematografico capace di ottenere un buon successo di pubblico.
Dalla stesura originaria del volume ad oggi, all’aumentare della produzione di opere audiovisive di fiction dedicate alla vita degli artisti di età contemporanea non è corrisposta l’uscita di studi di un certo rilievo a proposito del genere “biopic”; è per tale motivo che Senaldi ha mantenuto in questa nuova edizione sostanzialmente la sua impostazione iniziale preoccupandosi però di definire in maniera più esplicita la metodologia a cui ha fatto ricorso.
«I personaggi ammirevoli in cui il sistema si personifica sono ben noti per non essere ciò che sono: sono divenuti grandi uomini scendendo al di sotto della realtà della minima vita individuale, e tutti lo sanno», scriveva Guy Debord ne La società dello spettacolo. Evidentemente qualcosa di analogo accade anche per le personalità del mondo dell’arte trattate dal cinema. Non esiste, pertanto, un Van Gogh trasposto sullo schermo; esistono piuttosto diversi Van Gogh, ognuno dei quali inevitabilmente piegato a ciò che l’autore dell’opera filmica ha voluto mettere in scena e al contesto culturale in cui tutto ciò viene fruito.
Se confrontare le trasposizioni cinematografiche della vita dell’artista da un lato permette di cogliere aspetti diversi del personaggio, dall’altro, ed è forse l’aspetto più interessante, sostiene Senaldi, permette di comprendere meglio «cosa significhi “Van Gogh” per noi, il modo in cui il suo mito ci serve per colmare le nostre incoerenze, gli “enigmi che noi siamo a noi stessi”» (p. 11).
Ad importare non è tanto l’aderenza o meno delle ricostruzioni filmiche alla realtà storica circa l’autore ed il contesto in cui questo ha vissuto; che si tratti di Van Gogh, a cui viene dedicato maggiore spazio, o di altri artisti indagati nel libro – come Pablo Picasso, Frida Kahlo, Jackson Pollock ed Andy Warhol –, ciò che interessa allo studioso sono piuttosto il permanere nelle nostre società di una “mitologia mediale” e la sopravvivenza della “leggenda dell’artista”.
Proprio perché le analisi delle interpretazione cinematografiche degli artisti e quelle relativa alle caratteristiche linguistiche delle opere non risultano sufficienti a spiegare i motivi della fascinazione che tali figure esercitano sulla cultura contemporanea, Senaldi, intrecciando prospettive sociologiche, mediali e psicologiche, si concentra sulle modalità con cui si è creata la mitologia specifica riferita a tali grandi artisti all’interno dell’immaginario.
Riprendendo quei visual studies anglosassoni che all’epoca della prima stesura in Italia ancora stentavano a prendere piede, il volume delinea una “genealogia dell’immaginario”, cioè «quell’insieme di snodi storici e concettuali tramite i quali la vita e l’opera di determinati artisti vengono elevate al rango di icona mediale popolare» (p. 13). L’approccio scelto permette all’oggetto visivo analizzato di essere calato all’interno di un contesto complessivo e di prestare, finalmente, particolare attenzione alle modalità percettive, conferendo così allo spettatore un ruolo di primo piano, cosa che, alcuni lustri fa, perlomeno in Italia, non era affatto d’uso.
Parlando di immaginario, lo studioso si preoccupa di darne una definizione e lo fa iniziando col dire quello che esso non è. Non può innanzitutto essere confuso con una generica idea di “immaginazione” o “fantasia”. «Nel momento in cui l’immaginario viene ridotto a un elemento “irrazionale”, o, seguendo una esegesi storico-concettuale, alla facoltà intermedia della “immaginazione”, la sua specificità è già compromessa» (p. 20). Tale tipo di riduzione risulta funzionale soltanto alla definizione del suo opposto sia che lo si voglia chiamare “razionalità”, “ordine del giorno” o riflessione. Inoltre, «l’Immaginario non è riducibile a una forma di “fantasia”, nemmeno in senso psicoanalitico; la stessa accezione di immaginario come “fantasia soggiacente di una società” ha il difetto radicale di non riuscire a spiegare […] se questa fantasia abbia una radice soggettiva o collettiva, e in che misura queste dimensioni, inconscia e politica, si influenzino a vicenda» (pp. 20 e 22).
Anche le letture del presente in chiave mitica inaugurate da Roland Barthes, nella loro applicazione ai fenomeni legati alla cultura di massa, secondo Senaldi non risultano in grado di stabilire la differenza specifica fra la dimensione mitica e la struttura immaginaria; in sostanza, secondo l’autore, tali analisi che hanno inteso demistificare i miti contemporanei ne fanno in realtà a loro volta parte.
Riprendendo la tripartizione lacanina fra le categorie di Reale/Simbolico/Immaginario, attribuendo loro un valore storico-sociale, oltre che metapsicologico, Senaldi spiega come il Reale non debba essere confuso con la nozione di “realtà”; questa infatti non coincide con il Reale in quanto «essa è, già-dasempre, simbolica, ossia da sempre sottoposta a un lavoro di traduzione-leggibilità-espressione linguistico e culturale. Quando questo non accade, o non accade più, ciò che ci si para di fronte è l’incomprensibile, il vuoto di senso, il Reale, appunto, che è uno dei nomi del trauma» (p. 23).
Negli anni Novanta si è a lungo discusso di un cinema e di un’arte “del Reale” in grado di andare oltre il semplice realismo al fine di di esibire l’aspetto traumatico in termini di esperienza estetica. Non di rado, sostiene lo studioso, tali rappresentazioni si sono rivelate a loro volta espressioni simboliche o sono divenute dimensioni immaginarie. «Il Simbolico è dunque ciò che struttura le società nel loro senso, e che, per converso, offre ai soggetti la loro collocazione e il loro ordine simbolico. Il mito dunque, non è una sovrastruttura che si aggiunge da fuori alla struttura portante della realtà, ma è invece parte integrante dell’ordinamento simbolico. Una realtà coesa emerge dal grado di coesione della sua organizzazione simbolica (di cui il mito è parte integrante)» (p. 24).
È qui che secondo Senaldi si inserisce il tema dell’identità dei soggetti, da intendersi come «una chiara marca simbolica fornita ai soggetti dal loro ritagliarsi di contro alla figura del Simbolico, che resta per essi una dimensione definitivamente preclusa, sempre Altra. Il Simbolico si determina come alterità, è sempre l’Altro, è il “fuori” del soggetto che – per opposizione o per affinità – istituisce i soggetti nel loro senso, li rifornisce della loro specifica identità» (p. 24).
I miti, al pari delle ideologie, contribuiscono a strutturare la realtà; non sono qualcosa di diverso da essa e con la loro caduta si determina la “perdita di senso della realtà”.
L’Immaginario appare allora come quella formazione che sorge storicamente quando il Simbolico mostra la sua intima crisi, e quando di conseguenza i soggetti, nella loro singolarità e nel loro insieme, non si accontentano più delle risposte che il Simbolico offre loro, e si sentono esposti al non-senso del Reale. Il tipo di risposta che i singoli individui o intere società richiedono dall’Immaginario non è riducibile a una scorciatoia nei mondi della fantasia o del sogno; si tratta invece di un’autentica deriva socio-culturale in grado di rimodellare i fondamenti anche istituzionali di un corpo sociale (p. 25).
Quando le grandi strutturazioni simboliche non sono più in grado di dare risposte, «l’Immaginario forgia gli strumenti della propria esistenza a sua immagine e somiglianza» (p. 26) sia che si tratti di mezzi si riproduzione delle immagini, come la fotografia o il cinema, che di strumenti di riproduzione di eventi, come la radio e la televisione, o di tecniche di duplicazione della vita (clonazione) e di diffusione capillare di immagini, come nel caso dei social media, o di esperienze locative, immersive e mediali. «Non sono dunque i media a creare l’Immaginario, ma, viceversa, è solo l’irresistibile avvento di quello che permette il sorgere di questi» (p. 26).
La definizione concettuale di Immaginario deve pertanto essere colta nella sua differenza rispetto al Simbolico e al Reale. Se il Simbolico, per rispondere al “vuoto di senso” del Reale, tende a definire/strutturare le identità e se stesso per opposizione/somiglianza (identità/alterità…), l’Immaginario tende invece a cancellare le definizioni e le opposizioni strette: in esso ogni soggetto/collettivo si articola nella riflessione-contraddizione con se medesimo. Affermare che l’Immaginario è una configurazione riflessiva significa dire che il soggetto include in sé il suo altro. «La dimensione riflessiva-obversiva dell’Immaginario è ciò che ha spinto alla creazione di sistemi di riproduzione mediale: i media nascono come mediazioni immaginarie» (p. 27).
La tv non è uno strumento di simbolizzazione, o lo diventa solo in subordine alla sua funzione immaginaria ossia riflessiva, cioè di restituzione di immagini identitarie a beneficio delle società e dei soggetti che ne sono rimasti privi. Così, accade oggi che l’autentica controprova soggettiva dell’esistenza oggettiva della Realtà non passa più attraverso il vaglio dell’altro (il mio prossimo) o dell’Altro simbolico (magari incarnato dalla Ragione), ma attraverso il seducente abbraccio dell’Immaginario mediale (pp. 27-28).
Secondo Barthes nella società borghese moderna il mito è uno strumento del passaggio dal reale all’ideologico; la sua funzione diviene quella di “svuotare il reale”. Il mito, secondo il francese, non sarebbe soltanto una forma di “dominio ideologico” borghese, ma costituirebbe piuttosto «un potere a parte che detiene sotto di sé anche la struttura di classe e che va identificato come un’autentica formazione storico-culturale, un “momento”, a cui il nome stesso di “mito” risulta inadeguato» (p. 30). In questo modo, però, Barthes finisce per «riportare ancora una volta i sintomi del presente entro un quadro diagnostico appartenente a culture del passato […] mostrandone sì il modo in cui il mondo è stato ridotto a immagine di se stesso, ma non il fatto che quest’immagine sia appunto “rovesciata”» (p. 30).
Il discorso cinematografico è uno dei media entro e tramite cui si rendere il mondo immagine di se stesso e insieme rovesciarne il senso. «La funzione dei media, infatti, benché inizialmente fosse appunto quella di “significare”, non si è certo esaurita in quest’azione: essi hanno progressivamente riprodotto il mondo che significavano, e lo hanno raddoppiato e sovrapposto all’antico mondo reale» (p. 31).
Secondo Senaldi l’Immaginario e la sua capacità di inversione delle immagini simboliche (obversione)
rientrano nella critica che già Marx rivolgeva all’ideologia, la quale rende gli uomini schiavi del “parto dei loro stessi cervelli”, e coincide con l’“assassinio della realtà” a opera della società mediale, anticipato da Debord (1967) e descritto minuziosamente da Baudrillard (1996). Lungi dallo sconfinare in un deserto di apparenze, questa “vittoria” dell’immaginario va intesa in senso dialettico (e abbisogna di un approccio altrettanto dialettico): è proprio e solo calandosi interamente nell’arena dove gli immaginari si pluralizzano, negoziano e confliggono fra loro (“entrando dentro” per così dire lo spazio dell’immaginario o meglio dei vari immaginari, sia cinematografici che virtuali in genere) che si può pensare di esercitare una forma di critica intellettuale che non presuma di parlare da una posizione supposta essere “esteriore” a questa arena (p. 33).
I motivi del successo di molti film incentrati sulla vita dell’artista, sostiene Senaldi, vanno cercati al di là delle caratteristiche delle singole opere; in tutte queste si rintracciano elementi che contribuiscono a fare degli artisti di cui si occupano degli autentici “miti” che, a loro volta, si inscrivono in un pantheon abitato da divinità diversissime ove protagonisti e interpreti si confondono, i piani temporali si sovrappongono e le distinzioni di carattere estetico e storico perdono incisività.
Opere che a distanza di tempo trattano lo stesso artista propongono inevitabilmente miti differenti. Il cinema biografico ricorre alla “spinta identificativa” del pubblico a cui offre un modello positivo o negativo, da imitare o rifiutare. A differenza della figura antica del mito, i modelli proposti da questi film risultano autoreferenziali e difformi e restituiscono l’immagine del desiderio del pubblico. Se nelle “società pre-spettacolari” il soggetto cerca di imitare il modello in quanto sa di essergli inferiore, nel processo di identificazione messo in atto dal cinema «il soggetto è a priori già in crisi di identità e ne pretende una dalla macchina spettacolare, che gli propone esattamente un’identità (o anche molte!) fittizia e irreale» (p. 36).
Nella società contemporanea lo spettacolo è al contempo «il proseguimento “con altri mezzi” della religione, ma ne costituisce anche l’inverso: nella religione la differenza tra uomo e dio è assoluta ma costituisce anche un legame che stabilisce il ruolo di entrambi; nello spettacolo, invece, nessuno è, per definizione, identico a se stesso, né gli dei, che sono immaginari (divi), né gli uomini, che sono altrettanto immaginari (spettatori)» (p. 36).
La figura dell’artista e il “sistema arte” hanno subito nel corso dei secoli notevoli trasformazioni. In Occidente il suo riconoscimento sociale è cambiato drasticamente passando, ad esempio, dal suo status di semplice ed anonimo artigiano nel corso del periodo medievale, alla sua trasformazione rinascimentale in individualità che si distacca via via dall’universo delle arti meccaniche generando una mitologia specifica come testimonia il volume che nel corso del Cinquecento Giorgio Vasari dedica alle vite degli artisti. Inizia così a prendere piede l’idea dell’arte come forma culturale e dell’artista come individuo eccezionale che presto finirà paradossalmente per sottrarsi da quell’inclusione sociale appena ottenuta optando per la via dell’opposizione e del ribellismo.
L’artista come refusé rappresenta uno dei cliché più inossidabili a livello di percezione popolare ed è proprio a partire da tale visione, sostiene Senaldi, che viene a darsi la trasformazione dello stereotipo simbolico in idealizzazione immaginaria.
Il cinema tende a estrapolare alcuni elementi chiave, come possono essere il genio e l’autodistruttività, per creare il mito ma, se ci si accontentata di tale constatazione la narrazione cinematografica sarebbe ricondotta a un prolungamento delle biografie artistiche con altri mezzi.
«Ciò che resta da spiegare è il fatto più rilevante, e cioè che film come questi innescano un processo di “mitologizzazione” non potenziando ma rovesciando la figura simbolica di partenza» (p. 38). Il cinema sembra rovesciare l’originaria significazione da cui prende spunto – la vita e l’opera di un artista –, «per poi disidentificare la “coscienza spettatrice” da se stessa» (p. 38). Si vorrebbe essere come l’artista a cui è dedicato il film, solo che l’immagine con cui ci si identifica è quella cinematografica e non quella del “vero” artista. A riprova di questo ribaltamento immaginario basti pensare che in un murale dedicato Van Gogh al caffè di Auvers-sur-Oise il pittore è stato raffigurato con i lineamenti di Kirk Douglas, l’attore che lo ha interpretato al cinema in un celebre film, e non secondo l’iconografia dei suoi autoritratti.
Se l’identificazione immaginaria è con l’immagine a cui si vorrebbe somigliare, quella simbolica è invece con il punto da cui si viene osservati, da cui si guarda a se stessi in modo da apparire piacevoli se stessi.
Nell’identificazione simbolica, dunque, noi ci identifichiamo con lo sguardo dell’Altro […] ed è questo Altro che ci identifica; nell’identificazione immaginaria, invece, noi vogliamo raggiungere un’immagine narcisistica di noi stessi che però, strutturalmente, non ci appartiene. Quella immaginaria è dunque piuttosto una disidentificazione, perché l’Altro simbolico vi è definitivamente escluso. Il cinema biopic, e quello delle biografie degli artisti, gioca apertamente con la dialettica tra queste due modalità di identificazione; ma, al contrario di quanto accade(va) nel soggetto normale – il quale progredisce da un livello immaginario, fantasmatico, di riconoscimento di sé, a una matura struttura simbolica – qui si regredisce da un livello simbolico a un piano immaginario (p. 40).
Nel suo strutturare l’Immaginario, il cinema non si è limitato a sovrapporre un’immagine idealizzata di un soggetto alla semplice realtà di vita, quanto piuttosto ha fatto sì che questa immagine «ristrutturi da dentro quella stessa realtà, la “svuoti” e la ribalti restituendo così – per riprendere i termini di Marx – un’immagine rovesciata “come in una camera oscura”» (p. 40).
L’artista messo in scena dal cinema incarna l’immaginario dell’epoca in cui viene prodotto il film.
La leggenda classica dell’artista tendeva a fornire una biografia idealizzata, costruendo un “tipo” ideale, e questo ideale corrispondeva allo sguardo dell’Altro – «identificarsi con l’artista significa “entrare nella grande impresa dell’Arte”, rendersi piacevoli al grande Altro simbolico (l’Arte come struttura che dota di identità i suoi adepti» (p. 41) – la ricostruzione immaginaria desidera invece strutturare l’immaginario stesso: «ecco perché i cosiddetti film biopic tendono molto volentieri a concentrarsi su un unico tòpos ricorrente: quello dell’artista eterodosso in lotta contro i pregiudizi della società del suo tempo, ossia quello dell’individuo contro il gruppo o meglio del singolare contro l’universale» (p. 41).
Delle figure storiche dell’artista, l’Immaginario offre il ritratto simbolico.
L’intera strategia dell’Immaginario consiste principalmente nel nascondere il proprio carattere di duplicazione disidentificante sotto le mentite spoglie di simboli che in realtà non esistono più, o appartengono a strutture psicosociali in aperta crisi; la sua abilità suprema consiste nel portare il pubblico a prestare fede in eroi-simbolo che lottano per l’esistenza, i quali lottano ed esistono solo all’interno di ricostruzioni spettacolari e il cui culto può essere officiato solo tramite la diffusione mediale (p. 42).
È a partire da tali premesse che Senaldi passa in rassegna nel suo libro le produzioni cinematografiche incentrate su Van Gogh, Picasso, Pollock, Kahlo e Warhol. Indagando i motivi del successo di tali opere, il tipo di identificazione che si cerca in esse, è possibile comprendere qualcosa in più di noi stessi e dei tempi in cui viviamo.