di Nico Maccentelli
Tra i war movie di ultima generazione, The Liberator, questa produzione di fresca realizzazione (2020) e disponibile su Netflix, è certamente una novità per l’utilizzo della Trioscope Enhanced Hybrid Animation, una tecnica di animazione che si basa sull’ibridazione tra ripree dal vivo e computer grafica. Il risultato può piacere, ma può lasciare anche interdetti, anche se abituati alla visione dopo i primi minuti sembrerà di vedere un live vero e proprio.
Ma al di là della tecnica, che certamente ha giovato al portafogli dei produttori per le economie di ripresa, location e ambientazione, questa miniserie in otto puntate riprende lo schema tipico di film sulla seconda guerra mondiale ben blasonati come Patton o Il Grande Uno Rosso: il battaglione che viene spedito nei vari scenari bellici e che si destreggia tra SS spietate e soldati della Wermacht con efficienti capacità belliche. Non certo i pivelli teutonici dei fumetti di Eroica letti da bambini, che cadevano tra un “teufel” e un “donnerwetter”. Qui c’è la guerra vera, con le sue vicende ed epiloghi individuali che non guardano in faccia a nessuno.
Un aspetto che rende interessante The Liberator è che siamo in presenza di un battaglione di reietti, composto da nativi pellerosse e da messicani, sostenuti a amorevoli scarpate in bocca dal solito ufficiale rigorosamente wasp, ma comprensivo e cameratesco. Una chiave che funziona visto che di pellerosse prestati alla guerra dello zio Sam contro Hitler o il Sol Levante ormai ne abbiamo un florilegio: dal navajo Charlie Whitehorse in Windtalkers di John Woo al pima Ira Hayes in Flags of our fathers di Clint Eastwood.
La storia, ovviamente romanzata ma tratta da una vicenda vera, ci parla del viaggio dell’inossidabile capitano Felix Sparks nei vari teatri di guerra europei, con un ricambio costante della sua truppa, per prematura dipartita a miglior vita di quasi tutti i suoi soldati.
Dalla Sicilia ad Anzio, dal sud della Francia ai gelidi monti tedeschi, fino a Dachau, il nucleo essenziale come ogni film di guerra che si rispetti è il cameratismo, l’amicizia oltre ogni limite, fino all’estremo sacrificio. Quindi anche in questo caso una buona dose di retorica non manca. Del resto ce la siamo ritrovata anche negli ultimi kolossal come Dunkirk e 1917.
Difficilmente si può vedere un film di guerra che non tocchi queste corde, le uniche che possano rendere vagamente (e aggiugerei vanamente) accettabile la signora carneficina per eccellenza in ogni epoca della storia. Forse Clint Eastwood con l’elegiaco Lettere da Iwo Jima ha potuto salvarsi con l’espediente riuscito di un’ottica completamente ribaltata: la guerra vista dal nemico, ossia dai giapponesi. Ma esce dal coro guerrafondaio anche Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria: una riuscitissima parodia del nazismo, letteralmente antifa e di totale fantasia che mette insieme guerra, Resistenza, giustizialismo e un teatro che va a fuoco con strage di alti papaveri del Reich, Hitler incluso, e che fa fare a Brad Pitt una figura migliore che in Fury. Del resto, a un carrista eroe è sempre preferibile un implacabile giustiziere di nazi.
Comunque, nonostante i limiti patriottardi e camerateschi, The Liberator per gli amanti del genere è assolutamente godibile e soddisfa anche i palati più antifascisti, ossia coloro che giustamente storcono il naso nel riscontrare forti vocazioni paranaziste nella gran parte dei war movie di attualità (ma dove sono finiti i Platoon di Olver Stone? E i Full Metal Jacket di Stanley Kubrick?), certamente più tecnologici, ma con la sfiga di descrivere le aggressioni macellaie d’oggi giorno compiute dall’esercito dello Zio Sam dall’Irak alla Siria nel nome di una vantata “superiorità democratica e di civiltà”.
Insomma: l’epopea della guerra al nazifascismo, vista con il filtro della storicizzazione, anche se fu guerra tra imperialismi e grande macelleria anch’essa di popoli, è diventata un rifugio delle coscienze critiche, ossia di coloro che non digeriscono le immonde tragedie delle guerre contemporanee e in questa trovano valori positivi, a partire dai legami con le Resistenze antifasciste.
Qualche riga su chi realizzato questa produzione. Jeb Stuart anzi tutto, regista e al tempo stesso creatore di questa mini serie e autore dello script: è una collaudata certezza. Infatti, tra sceneggiature e regie, da Linea di sangue al Fuggitivo a Trappola di cristallo, ha sempre sfornato prodotti di buona qualità. E sembra riprendersi dopo una periodo di ferma durato una decina d’anni.
Il cast vede Bradley James nei panni del capitano Sparks. Di questo attore britannico si è visto ancora poco ma di qualità: da Arthur Pendragon in Merlin a Giuliano de’ Medici ne I Medici. Il Trioscope non altera l’espressività e la cifra attoriale degli interpreti e certamente vanno mezionati anche Josè Miguel Vasquez, Martin Sensmeier, Finney Cassidy, poco conosciuti come del resto tutti gli altri attori, ma che in complesso ci regalano avvincenti cammei.