di Gianfranco Marelli
Donatella Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalista, Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp. 61, 9,00 euro; Slavoj Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, Ponte alle Grazie, Milano 2020, pp. 143, 7,99 euro; Giorgio Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 57, 5,99 euro
“Non siamo né liberi né veri
se vero è ciò che esiste
libero ciò che si esprime”.
Giorgio Cesarano
1 – Sulla stessa barca
«Per la prima volta un essere invisibile e ignoto, quasi immateriale, ha paralizzato l’intera civiltà umana della tecnica. Non era mai avvenuto – e su scala planetaria. Vecchi dogmi sono stati polverizzati, salde certezze profondamente scosse. Tutto è già mutato: assiomi economici, equilibri geopolitici, forme di vita, realtà sociali» [Di Cesare]. Una constatazione assolutamente condivisibile, con l’aggiunta di un elemento che è mutato ed è in continua mutazione: il linguaggio. Anzi, possiamo osservare quanto il linguaggio sia il virus che radicalmente ha infettato il nostro modo di pensare e di comportarci al punto da proiettarci in uno spazio/tempo diverso dal tempo e dallo spazio cui prima eravamo soliti condurre il nostro tran-tran quotidiano.
Parole quali coronavirus, cluster, indice “Rt”, lockdown, distanziamento sociale, immunità di gregge, sono entrati nel nostro lessico corrente, trasformandolo al punto da conferire ai termini frequentemente utilizzati un significato più cogente: aria, libertà, salute, istruzione, cultura, politica, scienza, religione, guerra… Proprio quest’ultimo – accompagnato inevitabilmente da tutto il corollario bellico: vittima, nemico, trincea, prima linea, coprifuoco – ha acquistato una dimensione così prossima al nostro vivere quotidiano di occidentali, dal momento che la morte per malattia, per fame, per guerra, non è più considerata cosa remota e neppure di casa altrove, poiché ora si inizia a morire anche qui, da noi, come si muore comunemente là, da loro. Non solo. Se nei mesi precedenti la pandemia, le proteste sociali e le dure, violente, lotte per difendere la libertà e reclamare maggiore democrazia contro l’autoritarismo dei loro governi ci parevano lontane e distanti dalle nostre abitudini quotidiane, ora ci troviamo a scendere in piazza e protestare contro la “dittatura sanitaria”, le forme di controllo e contenimento della popolazione – in breve: la ridotta libertà e la limitata democrazia – che i nostri governi hanno imposto come necessarie per far fronte a uno “stato d’eccezione”. Per dirla tutta: ciò che consideravamo esterno e estraneo al nostro mondo non lo è più: ci appartiene e convive assieme a noi; dopotutto, come disse Martin Luther King più di mezzo secolo fa: «Possiamo essere giunti qui con navi diverse, ma ora siamo tutti sulla stessa barca».
Sì, la sensazione di trovarsi sulla stessa barca, affrontando non del tutto preparati la tempesta in atto, ci ha sorpresi. Finora sembrava che tutto funzionasse più o meno bene, e che altre rotte non erano possibili percorrere, pena la rinuncia ai pilastri fondanti le società occidentali: la libertà e la proprietà individuale, l’inarrestabile crescita economica e lo sviluppo tecno-scientifico; insomma il benessere, l’essere un bene tra i beni. Vero, il prezzo pagato e da pagare è notevole; addirittura si corre il rischio che le prossime generazioni difficilmente riusciranno a saldarlo, se da subito non incominciamo a ridurre i costi dell’inquinamento e del degrado ambientale. Ad ogni modo, anche se il senso di questa vita mostra profonde contraddizioni e criticità, finora sembrava avesse superato la fatidica domanda: tutto ciò è sicuro?
Con il sopraggiungere del virus, questo senso di sicurezza in un presente immune dal divenire incerto e pericoloso è venuto non solo a mancare – altre volte nella storia occidentale, epidemie, guerre, crisi economiche, minacciarono tale convincimento – ma ha accentuato la crisi di senso; crisi riguardo al ruolo e al peso che la modernità delle società occidentali ha avuto nel combattere la morte rispetto alla arretratezza in cui ci trovavamo e gli Altri tuttora si trovano. Certo, si può discutere sul fatto se si viva meglio nelle società occidentali, non però sul fatto che si viva più a lungo. Tuttavia, quando il raggiunto sviluppo socio-economico e progresso tecno-scientifico mostra le prime crepe e non è più in grado di produrre la sicurezza attraverso il mito della modernità, non è più possibile “vivere come prima”; il senso della crisi si acutizza, al punto da cercare un senso alla crisi stessa. Ecco, il virus ha mandato in crisi il senso di modernità e imballato il sistema, al punto da obbligarci a chiedere se la modernità abbia ancora un senso, e quale sistema può sopravvivervi senza prima aver trovato un nuovo senso alla vita.
2 – Cosa è già di noi?
Di questa crisi del senso da attribuire alla vita minacciata dalla pandemia, molto è stato scritto. Fra i tanti interventi, le analisi compiute da Giorgio Agamben, Donatella Di Cesare, Slavoj Žižek, hanno il pregio di raggrumare il pensiero critico nei confronti del modello neo-liberista, cercando di cogliere il senso di questa crisi che ha impallato il sistema, al fine di prospettare soluzioni in grado non solo di superare il momento critico per ritornare a uno status quo ante, ma addirittura cogliere l’opportunità di intravvedere nuove possibilità per un radicale cambiamento del nostro modo di vivere, dal momento che “niente sarà più come prima”.
Tratto comune della riflessione compiuta dai tre filosofi è il constatare che se il virus ha tirato il freno a mano alla tecno-struttura che sorregge il sistema economico neo-liberista e messo in discussione la politica delle democrazie occidentali, non solo niente potrà ripristinare le condizioni precedenti, ma da subito pone la scottante questione: cosa è già di noi, del nostro lavoro, dei nostri sentimenti, dei nostri progetti? Sì, perché – come osserva Donatella di Cesare – «l’alba del terzo millennio è caratterizzata da un’enorme difficoltà di immaginare il futuro. Si teme il peggio. Non c’è più attesa, né apertura all’avvenire. Il futuro appare chiuso, destinato nel migliore delle ipotesi a riprodurre il passato, reiterandolo in un presente che ha le sembianze di un futuro anteriore». Di più. Se la nostra società non crede più a nulla se non nella nuda vita, a tal punto che la paura di perderla ci conduce a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche, quello che preoccupa non è soltanto il presente, ma il dopo.
Ed è proprio l’analisi di quando la pandemia incomincerà ad allentare la presa – dal momento che l’obiettivo di contenerla sembra essere l’unica speranza rimasta – che le ipotesi degli autori qui affrontati si differenziano, presentando chi uno sbocco positivo alla crisi in atto, chi una lettura negativa del suo sviluppo, chi invece ne offre un’analisi più sfaccettata. Così, Slavoj Žižek – dopo aver constatato che le misure di lockdown e distanziamento sociale sono provvedimenti non proponibili a lungo termine – individua in una ritrovata «solidarietà e in una risposta coordinata su scala globale, una nuova forma di quello che un tempo veniva chiamato comunismo», pena esser sopraffatti da un futuro distopico, «nel quale restiamo a casa, lavoriamo al computer, comunichiamo tramite videoconferenze, facciamo ginnastica su una macchina in un angolo, ci masturbiamo occasionalmente su uno schermo che mostra sesso hardcore, ci facciamo consegnare i pasti a domicilio e così via». Certo, al filosofo sloveno non sfugge «la suprema ironia del fatto che quello che ci ha uniti e ci ha spinto alla solidarietà globale trova espressione nell’ambito della vita quotidiana nelle prescrizioni che vietano contatti ravvicinati con gli altri o impongono addirittura l’auto-isolamento»; del resto, «non ci troviamo ad affrontare soltanto i rischi virali – altre catastrofi incombono all’orizzonte o hanno cominciato a verificarsi: carestie, ondate di calore, tempeste smisurate ecc. In tutti questi casi, la risposta non è il panico ma il lavoro duro e solerte per istituire un coordinamento globale di iniziative efficaci».
Al contrario Giorgio Agamben, nel descrivere lo stato d’eccezione esercitato dai Governi nazionali nel corso della pandemia – cioè la pura e semplice sospensione delle garanzie costituzionali –, sottolinea con forza che il dominio della paura esercitato attraverso l’emergenza sistematica, l’allarme prolungato di rischiare il contagio virale non rispettando il distanziamento sociale, conduce ad avere come unico obiettivo la nuda vita; sennonché, «la nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un Paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?» Pertanto, la preoccupazione non può che riguardare gli strascichi di questo stato d’eccezione, al punto che «come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: i dispositivi digitali si sostituiranno così nelle scuole, nelle università e in ogni luogo pubblico alla presenza fisica, che resterà confinata, con le dovute precauzioni, nella sfera privata e nel chiuso delle pareti domestiche. In questione è, cioè, nulla di meno che la pura e semplice abolizione di ogni spazio pubblico».
In questi mesi sappiamo quanto quest’ultima analisi abbia suscitato alcune perplessità nell’ambiente di una sinistra eterogenea e variopinta, dal momento che – per riprendere la critica condotta da Žižek – «un’interpretazione sociale del genere non fa certo sparire la realtà della minaccia del contagio»; dopotutto l’attuale crisi «ha anche dato un impulso formidabile alla formazione di nuovi modi di solidarietà locale e globale, per di più ha reso manifesta la necessità di sottoporre al controllo anche lo stesso potere. La gente ha ragione a ritenere responsabile il potere dello Stato: avete il potere, ora fateci vedere cosa sapete fare». Tanto più – ribadisce il filosofo sloveno – questo periodo di sofferto lockdown ci può far riscoprire l’importanza dei “tempi morti”, così fondamentali per rivitalizzare la nostra esistenza, al punto da sperare «che una delle conseguenze impreviste delle quarantene da coronavirus nelle città cinesi sarà che alcune persone useranno i tempi morti per liberarsi dall’attività frenetica e pensare al (non) senso della loro situazione». Di certo una lettura che stravolge completamente l’atteggiamento verso la vita necessita uno sguardo inclusivo nei confronti di tutte le altre forme di vita – compresi i virus – da esigere una vera rivoluzione filosofica «se con “filosofia” intendiamo l’orientamento fondamentale nella vita».
Proprio questa visione ottimista non convince Agamben, in quanto tradisce l’incapacità di analizzare i dispositivi di eccezione che sono stati messi in atto e di osservarli al di là del contesto immediato in cui sembrano operare, cosicché «rari sono coloro che provano invece, come pure una seria analisi politica imporrebbe di fare, a interpretarli come sintomi e segni di un esperimento più ampio, in cui è in gioco un nuovo paradigma di governo degli uomini e delle cose». Infatti, per Agamben, il processo attraverso il quale la sicurezza sanitaria, finora rimasta ai margini dei calcoli politici, è diventata parte essenziale delle strategie politiche statuali e internazionali, pone l’urgenza di riflettere se questa specie di «terrore sanitario» non sia altro che l’applicazione di un dispositivo di controllo; dispositivo che si articola in tre punti: «1) costruzione, sulla base di un rischio possibile, di uno scenario fittizio, in cui i dati vengono presentati in modo da favorire comportamenti che permettono di governare una situazione estrema; 2) adozione della logica del peggio come regime di razionalità politica; 3) organizzazione integrale del corpo dei cittadini in modo da rafforzare al massimo l’adesione alle istituzioni di governo, producendo una sorta di civismo superlativo in cui gli obblighi imposti vengono presentati come prove di altruismo e il cittadino non ha più un diritto alla salute (health safety), ma diventa giuridicamente obbligato alla salute (biosecurity)».
3 – Il mondo che verrà
A stemperare tale visione dicotomica del futuro, in cui si contrappongono gli scenari positivi di un nuovo e più inclusivo welfare alla cupa e nefasta prospettiva di un warfare per la sopravvivenza degli “immuni”, ci pensa Donatella Di Cesare che, nel prendere come punto di riferimento la Peste Nera del 1438, suggerisce una riflessione più composta ed equilibrata della pandemia in corso. Ma perché risalire così indietro nel tempo? Perché – argomenta la filosofa – «anche quella terribile epidemia segnò un prima e un poi nella storia. Dai racconti e dalle cronache rimasti trapela la sensazione dei superstiti di essere entrati in un’altra epoca. Il cielo si era chiuso su quella passata. Chi era stato risparmiato dall’apocalisse di una morte nauseabonda e crudele, che aveva mietuto milioni di vittime, un terzo della popolazione europea, si aggrappò alla vita con uno slancio inusitato, un impeto febbrile. Da quella prima epidemia cittadina nacque il mondo civile del Rinascimento. Il nuovo inizio diede il via, però, al contagio dell’arricchimento».
“L’arricchimento” fu così contagioso da trasformare la visione del mondo e il modo d’intendere la vita, al punto che la conquista del benessere divenne il mito della modernità e rappresentò il grande sogno europeo – poi occidentale – della globalizzazione, continuando a prosperare finché il profitto si è rivelato non solo il sigillo dell’ingiustizia, la garanzia della povertà dei più, ma soprattutto la causa del degrado ambientale. «Non deve allora stupire che il termine “crescita” – rimarca Donatella Di Cesare – abbia ormai connotati negativi e, più che al prodotto interno lordo, rinvii a tutto quel che si dovrebbe evitare: crescita di guadagni illeciti, di rifiuti e scorie, di malessere e avvelenamento, di abusi e discriminazioni. Questo non vuol dire caldeggiare e promuovere una decrescita. Forse sarebbe tempo di abbandonare il linguaggio di bilanci e calcoli, deponendo la bandiera della crescita in cui nessuno sembra più credere. È il capitale a produrre la miseria. In uno scenario dove le altre ricchezze sono svuotate di senso si staglia il futuro di una sobrietà conviviale, scevra del superfluo, che porti alla luce i legami altrimenti dimenticati dell’esistenza». In questa prospettiva, la Peste Nera potrebbe divenire monito e presagio della memoria europea al fine di «insegnare che è pur sempre possibile riarticolare le forme di vita, che è necessario chiedersi per cosa vivere in futuro, che è indispensabile guardare a quei confini ultimi che abbiamo disimparato a sognare».
Appare dunque prioritario non solo chiedersi “cosa è già di noi?”, ma immaginare “il mondo che verrà” in modo da riarticolare le forme di vita così da opporsi al realismo capitalista che ha assorbito ogni focolaio di resistenza immaginativa, innalzando e rafforzando muri per nascondere ogni altra possibilità di vita al di fuori di «un presente asfittico di un globo senza finestre che ha preteso di immunizzarsi da tutto ciò che è fuori, che è oltre e altro». Infatti, con la promessa di un divenire senza intoppi, in grado di garantire sicurezza sociale e benessere economico, «ha prevalso la chiusura, ha avuto il sopravvento la pulsione immunitaria, la volontà ostinata di restare intatti, integri, indenni. La xenofobia, la paura dell’estraneo, e la xenofobia, la paura abissale per tutto ciò che è esterno, che viene da fuori, sono gli inevitabili danni collaterali. Prevenire il futuro per evitarlo. In questo regime di polizia preventiva, condannato all’allarme prolungato e al torpore sfinito, ogni alterazione è stata esorcizzata».
In fin dei conti, grazie al virus, l’inautenticità e l’insensatezza di questa vita si è palesata a tutto tondo, mostrando le criticità e le contraddizioni di un sistema neo-liberista ormai costretto a esercitare il potere attraverso l’emergenza sistematica, l’allarme prolungato, in modo che il dominio della paura – la fobocrazia – diffonda il timore, trasmetti l’ansia e fomenti l’odio, al punto che la fiducia svanisca, l’incertezza abbia il sopravvento e il futuro sia tinto con colori cupi. Una situazione che non solo ha messo in crisi le democrazie occidentali, ma ha indotto a credere che di fronte all’emergenza sanitaria soltanto un regime autoritario, come quello cinese, è in grado di controllare l’espandersi del virus e ripristinare la sicurezza fra i cittadini attraverso limitazioni delle libertà che prima non erano disposti ad accettare e che ora vengono imposte in nome dello stato d’emergenza.
Pertanto, oltre che comprendere con lucidità le nuove forme di dispotismo che il nuovo paradigma della biosicurezza ha messo in campo al fine di esercitare un controllo capillare sul cittadino-paziente, più paziente che cittadino, occorre definire le nuove forme di resistenza che potremo opporre. Dopotutto, come ha osservato Donatella Di Cesare, «Il virus imprevisto ha sospeso l’inevitabile del sempreuguale, ha interrotto una crescita divenuta nel frattempo un’escrescenza incontrollabile, senza misura e senza fini. Ogni crisi contiene sempre la possibilità del riscatto. Il segnale sarà avvertito? La violenta pandemia sarà anche la chance per cambiare? Il coronavirus ha sottratto i corpi all’ingranaggio dell’economia. Tremendamente mortifero, è però anche vitale. Per la prima volta la crisi è extra-sistemica; ma non è detto che il capitale non saprà trarne profitto. Se nulla sarà come prima, tutto potrebbe precipitare nell’irreparabile. Il freno è tirato – il resto tocca a noi».