di Sandro Moiso
Franco Ghigini (a cura di), Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole. La storia, la comunità, l’arte, il paesaggio, con contributi di Mauro Abati, Barbara D’Attoma, Valeria Ganzola, Roberto Mondinelli, Chiara Moroni, Mariangela Pezzotti, Carlo Rizzini, Carlo Sabatti, Giordano Saleri, Laura e Stefano Soggetti, Comunità Montana di Valle Trompia 2018, vol. 1° pp. 360 – vol. 2° pp. 374, 25,00 euro
E’ davvero con colpevole ed eccessivo ritardo che recensisco qui i due volumi sulla tradizione comunitaria e proprietaria di Cimmo e Tavernole in Valle Trompia in provincia di Brescia. La loro pubblicazione è inserita in un contesto in cui la Comunità Montana, spesso con il contributo intellettuale di Franco Ghigini, etnografo ed etnomusicologo, e in questo caso grazie soprattutto all’Associazione Antichi Originari dell’ex-comune di Cimmo, ha inteso rivalutare e riscoprire le tradizioni e le culture locali, in un tempo i cui il rapido avanzare della modernizzazione digitale rischia di cancellare dalla Storia e dalla memoria, con «una veloce e silenziosa corrente di mutamento che inghiotte il passato spesso senza neanche incresparsi in superficie»1, un contesto sociale locale che, in questo caso, può rimandare ad una ben più ampia tradizione di organizzazione comunitaria, sia economica che socio-culturale.
Proprio il tema centrale trattato nei due volumi (pubblicati indivisibilmente) di cui qui si parla, quello degli Antichi Originari ovvero quelle famiglie di Cimmo e Tavernole che hanno mantenuto per lungo tempo una sorta di statuto o funzione speciale nella gestione delle proprietà, rinvia ad un modello comunitario di condivisione e organizzazione dei suoli e del loro prodotto che è riscontrabile storicamente lungo tutto l’arco alpino, da Ovest ad Est2. Modello comunitario di proprietà della terra e condivisione del lavoro e delle responsabilità sociali che rinvia ad età precedenti alla modernità e, in molti casi, anche pre-comunali.
Parliamo quindi di una storia di lunga durata che ci parla di epoche in cui la centralizzazione statale e la concentrazione delle ricchezze e degli strumenti di produzione in pochissime mani era ben lontana dal venire e dall’affermarsi. Una storia fatta di famiglie e non di istituzioni che attraversa il Medio Evo, il dominio veneziano sul bresciano, la discesa di Napoleone in Italia, l’inizio dello Stato unitario, la Prima Guerra Mondiale, il Fascismo e la successiva Repubblica per giungere, attraverso le voci dei discendenti attuali documentate, e spesso riprodotte nel dialetto/lingua locale, nella straordinaria raccolta di testimonianze orali registrate da Franco Ghigini nel corso di anni e contenuta nelle prime 300 pagine del secondo volume, fino ai giorni nostri.
Oggi, di fronte alla catastrofe pandemica e all’incapacità delle amministrazioni centralizzate di far fronte nell’interesse di tutti alle necessità in ambito sociale ed economico suscitate o, meglio, ampliate dalla stessa, una riflessione sulla storia di quelle antiche esperienze appare almeno necessaria; proprio per superare il modello unico di società e mercato ancora troppo spesso esaltato oggi nonostante i suoi evidenti fallimenti.
Per chi appartiene alla mia generazione è ancora possibile ricordare quando, negli anni ’70, due giovani Cochi e Renato, agli albori della loro carriera in un programma contenitore televisivo domenicale, assumevano la Val Trompia come luogo di arretratezza ed ignoranza. Con l’ironia apparentemente bonaria, figlia di un’epoca progressista che, tanto a Destra che a Sinistra con parole d’ordine differenti ma finalità simili, mirava a cancellare, ritenendole superate, quelle civiltà contadine e montane che pur avevano resistito attraverso i secoli all’assalto dei poteri centralizzati, riuscendo allo stesso tempo a garantire ai propri membri una vita dignitosa, nel rispetto dell’ambiente e delle risorse fondamentali come l’acqua e la terra.
In questo senso vale dunque l’annotazione, tratta dallo storico francese March Bloch, posta in esergo al saggio curato da Carlo Rizzini: «La storia non è soltanto ciò che è stato, ma anche ciò che se n’è fatto». Che aggiunge, poi ancora, nelle pagine successive:
E’ alla storia di lungo periodo, alla storia sommersa e silenziosa, ma effettivamente costruttrice delle vicende umane, che appartiene l’esperienza degli Antichi Originari.
Chiarito questo concetto, è evidente come sia necessario abbandonare la pretesa di una visione universale, ponendo invece attenzione ai particolari: le singole persone e la comunità che esse hanno costruito sono i reali protagonisti della storia, di ogni storia. Così, in queste pagine, pur attraverso documenti e fonti assai diversificate, pur dovendo tener conto dell’istituzione creata, dei rapporti tra istituzioni locali e rappresentanti governativi, pur non ignorando fatti e aspetti amministrativi, statistici, economici e politici, dobbiamo ricordare che stiamo ripercorrendo le vicende delle famiglie Cioli, Comini, Cottali, Ganzola, Garneri, Mutti, Pelizzari, Saleri e Zuccotti3.
La prima testimonianza scritta della comunità formatasi intorno agli antichi detentori delle terre, amministrate e gestite in comune, sul territorio di Cimmo e Tavernole risale al 1372 e costituisce di per sé testimonianza, assai evidente, che il Comune stesso costituiva uno dei più antichi insediamenti valtrumplini. Si tratta degli Statuti di Cimmo e Tavernole, il cui manoscritto originale è oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia.
Ma tale testimonianza “scritta” rivela, quasi sicuramente, che tale accordo per la gestione comunitaria delle terre e del loro prodotto doveva risalire a tempi ben più antichi e che tale testo scritto doveva essere già il prodotto di mutamenti avvenuti nel corso del tempo. Trasformazioni la cui memoria rimane muta in un contesto in cui per secoli era stata la cultura orale a predominare su quella scritta (sicuramente poco diffusa tra le comunità montane per lungo e immemorabile tempo). Una cultura e un’organizzazione socio-economica, potremmo dire pre-omerica, che soltanto l’arciprete di Inzino, Bernardino de Caciis da Cimmo, e il notaio Bressanino Bicocchi de Milanibus, avrebbero sistematizzato per iscritto nell’aprile di quell’anno.
Al giorno d’oggi siamo portati a ritenere che una proprietà possa essere considerata secondo una duplice opzione: pubblica o privata. Ignoriamo che in epoche remote esisteva anche un altro modo di possedere, ovvero la proprietà collettiva. Essa è il chiaro esempio di un legame solidaristico, espresso in uno spirito cooperativo, che si manifesta all’interno di una comunità, non inteso in senso moderno come appartenenza a un ente, bensì nel senso più appropriato di sintesi di individui: i singoli si sacrificano e sacrificano il proprio personale interesse per il raggiungimento di un bene comune.
L’origine delle proprietà collettive deriverebbe, secondo varie teorie, dall’usanza romana di concedere ai soldati congedati dei terreni da colonizzare, come tributo per il servizio svolto; in alternativa, si considera attendibile l’origine germanica di questo tipo proprietà, laddove le invasioni barbariche portarono a nuovi stanziamenti e al controllo di territori dell’ex-impero romano. Probabilmente entrambe le interpretazioni sono verosimili e si sovrappongono a tradizioni autoctone poiché il legame tra l’uomo e la terra, intesa come il necessario mezzo di sostentamento, doveva essere comune a molte popolazioni anche di diversa origine; solo successivamente entrò in campo il concetto di proprietà privata: E’ quindi evidente che, per fissare l’origine per questo tipo di gestione economica, si deve risalire ad un’età precomunale, ovvero ben prima dell’istituzione dei Comuni stessi nelle loro forme giuridiche4.
Per meglio comprendere il significato storico e pratico di tali modelli di organizzazione sociale è forse bene citare le parole di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’Economia nel 2009, riportate dallo stesso Rizzini:
Ciò che si può osservare a livello globale è che né lo Stato né il mercato sono in grado di garantire sempre lo sfruttamento produttivo, nel lungo periodo delle risorse naturali. Non meno importante deve essere la consapevolezza dell’esistenza di istituzioni non identificabili in modo netto in base alla dicotomia stato-mercato, che sono state in grado di amministrare a livello locale dei sistemi di risorse naturali, conseguendo successi significativi e per lunghi periodi di tempo (E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio 2006, p.12)5.
Ciò che viene poi indagato in questa storia dei Grandi Antichi di Cimmo e Tavernole è il significato che assume lo scontro col forestiero quando, a seguito di spostamenti di individui o gruppi famigliari sul territorio comunitario oppure di contrasto con le comunità confinanti, questo, o questi, chiede di partecipare alla condivisione della ricchezza prodotta. Al di là degli episodi di violenza cui tutto questo può dare atto (e nella storia delle due comunità non sono pochi), occorre però dire da subito che chiunque volesse avvicinare, per qualsiasi motivo, tali conflitti a quelli attuali riguardanti l’immigrazione trans-mediterranea, sarebbe completamente fuori luogo poiché nei conflitti del passato di cui si parla spesso era la comunità a difendersi dal tentativo istituzionale (Chiesa, Stato o Principato, borghesia in ascesa) di penetrare al suo interno per minarla e privarla delle sue risorse.
Ecco dunque il punto sostanziale: la proprietà dei beni e il diritto di usufruirne da parte di un gruppo di famiglie che, con tutta probabilità, in origine componevano l’intera comunità e che si trovavano a dover giustificare il possesso e la distribuzione delle rendite a quei rappresentanti dei governi che, via via cominciavano ad avere sempre maggior controllo sul territorio e a cui ricorrevano spesso i Forestieri, ovvero i nuovi arrivati della comunità, che ambivano a partecipare alla suddivisione delle rendite.
Non dobbiamo scordare che, a partire dal XVII secolo, gli Stati si organizzarono sempre più per garantirsi il controllo capillare dei propri territori, istituendo strutture giudiziarie, poliziesche, amministrative ed economiche in grado di tenere sotto controllo la situazione6.
Nel corso degli anni e con l’avvento dello Stato nazionale post-unitario «I motivi di contrasto si crearono sull’interpretazione e sull’applicazione delle norme e sul confronto con i poteri centrali, con architetture sempre più strutturate, quindi anche più difficili da affrontare che portavano avanti in modo più rigoroso il controllo sui territori.
Possiamo riassumere questi aspetti con una frase attribuita a Giovanni Giolitti: Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano»7.
Questa ultima e autentica anticipazione dell’attuale diritto penale del nemico serve anche per spiegare come il conflitto, spesso, potesse dare adito a delitti ed atti di violenza che furono in seguito usati per ridurre ulteriormente l’autonomia delle comunità. La questione Potrebbe dunque rinviare, anche se indirettamente, a quella della rimozione (ben più cruenta) e messa fuori legge, in alcuni casi per più di un secolo, di quei clan delle Highland scozzesi che si rifiutavano di accettare l’autorità della corona britannica e l’avvento dell’allevamento, diffuso sui terreni privatizzati, delle pecore destinato non al consumo in loco ma a sostenere lo sviluppo dell’industria laniera nella prima fase della rivoluzione industriale inglese8.
Per un’ultima osservazione, prima di congedare il lettore senza neppure aver potuto affrontare gli altri saggi contenuti nei due volumi, ancora una volta giungono in aiuto le parole di Elinor Ostrom:
Nonostante l’incertezza legata ai fattori ambientali, le popolazioni di queste località si sono mantenute stabili per lunghi periodi di tempo. Gli individui hanno condiviso il passato e prevedono di condividere il futuro. Per i singoli individui è importante mantenere la propria reputazione di elementi affidabili della comunità […] Inoltre la reputazione legata al mantenimento delle promesse, all’onestà e all’affidabilità, in n contesto circoscritto, è un bene prezioso […] In nessuna di queste situazioni chi partecipa all’uso delle risorse collettive appare diverso dagli altri in relazione al diritto di proprietà vantato sulla terra, all’abilità, conoscenze, etnia, razza o altre variabili che potrebbero fortemente dividere un gruppo di individui (E. Ostrom, op. cit. p. 132)9.
Parole perfette per comprendere il radicamento di una comunità nel suo territorio e per spiegare l’importanza storica, culturale e, perché no, anche politica di riflessioni e ricerche come quelle contenute nell’opera che è stata, anche se in maniera parziale e forse riduttiva, qui esaminata.
K. Polannyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974, p. 6 ↩
Per una sintetica eppur esaustiva trattazione dell’argomento, si consulti almeno Naturalmente divisi. Storia e autonomia delle antiche comunità alpine, progetto curato da Luca Giarelli e Marta Ghirardelli per la Comunità Montana della Valle Camonica e Provincia di Brescia, Lontàno Verde – I.S.T.A., maggio 2013, pp. 382 ↩
C. Rizzini, Gli Antichi Originari e la comunità di Cimmo, in Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole, vol. 1°, pp. 15-16 ↩
C. Rizzini, op. cit. pp. 18-19 ↩
Op. cit. p.19 ↩
op.cit. p. 41 ↩
op. cit. p. 42 ↩
Si consultino in proposito: J. Prebble, The Lion in the North, Penguin Books 1971 e, ancora, J. Prebble, The Highland Clearances, Penguin Books 1963 ↩
Rizzini, op. cit. p. 20 ↩