di Stefano Erasmo Pacini
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Rompemmo gli indugi appena finite le scuole, e decidemmo di partire anche noi e di andare a vedere. Si era sparso un tam tam in tutta Europa: a Lisbona, a Lisbona a sostenere la Rivoluzione! Hanno fatto anche un film di successo su quel periodo, Alla rivoluzione sulla due cavalli. Noi invece andammo con la Mini Minor prestata dal fratello di Alessio, dopo una mega colletta tra tutti gli amici a cui Brio contribuì con un tocco di fumo, le nonne e le mamme con salami e bocce di vino. In autostrada pilotava come un pazzo Alì, che aveva la patente da un mese. Alì accelerava sorpassando decine di camion sulle strade spagnole e intanto ci urlava che non si sarebbe mai sposato, nel caso di abbatterlo a raffiche di mitra. Con me faceva scintille, per le mie risate a queste uscite. Oltre tutto la Mini aveva il difetto di non partire a freddo, per cui ogni volta che ci fermavamo per più di un’ora toccava partire a spinta come fosse un bob e poi balzarci dentro al volo. Non sempre c’erano discese ad aiutarci, da qui le discussioni su chi dovesse spingere, degenerate in un’alba piovosa alla frontiera spagnola in urla e spintoni, tanto che la Guardia Civil quasi non ci faceva passare, dopo averci insultato e sputato addosso avendo capito che non eravamo certo turisti.
Stavamo in un vecchio albergo abbandonato con i pavimenti in legno occupato dagli italiani di Lotta Continua, in Rua do Prior a Lisbona. Sopra il portone uno spray rosso aveva tracciato grande la scritta “AARPI”, che stava per Associazione di Amicizia Rivoluzionaria Portogallo-Italia. Dalle finestre vedevamo il Tago e mezza città. Dormivamo sopra brande che erano state dei soldati portoghesi nelle colonie in Africa, ce le avevano portate i soldati rivoluzionari di una vicina caserma, soldati con i capelli lunghi che partecipavano in divisa e armati ai cortei di sinistra che percorrevano tutti i giorni la città; ci sembrava di sognare. Scorrazzavamo insieme a giornalisti tedeschi per il centro di Lisbona o nelle fattorie occupate dell’Alentejo, scattavo foto trattenendo il respiro, sorridendo, immaginando il risultato. Perché quella che si respirava era la Libertà, il rovesciamento della dittatura aveva liberato un entusiasmo immenso. La luce incredibile della città sul Tago mi aveva incantato: vecchi tram, palazzi coperti di azulejos, mercati all’aperto dove potevi trovare di tutto, dalle scarpe all’erba angolana, dagli zingari che suonavano nenie tristi a neri giganteschi che volevano solamente parlarti, curiosi di capire da dove venivi e cosa succedeva nel tuo paese. Studenti universitari attaccavano manifesti giganteschi e striscioni in stile maoista, ragazzini a piedi nudi come i nostri scugnizzi napoletani si rincorrevano dietro un pallone di stracci, un vecchietto malmesso ma con l’aria dignitosa mi domandava se volevo comperare un mensile anarchico che si chiamava “Merda” con la “a” cerchiata. Alla radio nazionale occupata da un collettivo di giornalisti lasciammo in dono alcuni dischi; una mattina accendendo la radio ci emozionammo capendo: “disco, dono di compagni italiani, Area – gruppo popolare internazionale”. Subito dopo sentimmo la voce inconfondibile di Demetrio Stratos:
La mia rabbia legge sopra i quotidiani.
Legge nella storia tutto il mio dolore
canta la mia gente che non vuol morire.
Spesso scortavamo il corrispondente del nostro giornale, un tipo che ci sembrava vecchio, anche se in realtà avrà avuto trent’anni, che la sera tardi dopo aver avuto la linea nel palazzo dei telefoni dettava l’articolo a Roma. Non ci ha capito mai niente comunque, né in Portogallo, né anni dopo in Iran al tempo della rivoluzione contro lo Scià, ma si è prontamente riciclato come opinionista in doppio petto nelle tv del Cavaliere.
Spesso lasciavo poltrire a Rua Do Prior Mau e Alì e me ne andavo con la Yashica a fotografare in giro per la città, felice di trovare ovunque capannelli di persone che discutevano animatamente, leggevano giornali, seguivano manifestazioni improvvisate, mettevano su banchetti dove si vendeva di tutto, in una fiera continua. Manuel era un ragazzo sveglio, un ladruncolo del Rossio in grado di vendere qualsiasi cosa o di procurarla in poche ore. Uno spilungone olivastro la cui mobilità degli occhi neri contrastava con la flemma dei movimenti. Si era incaponito di vendermi un chilo di ottima erba angolana a trentamila lire, come se non avessi dovuto superare le frontiere spagnola e francese al ritorno in patria. Mi raccontava della sua infanzia in Angola, i suoi genitori erano coloni portoghesi poveri, partiti con le pezze al culo e tornati dopo il 25 aprile più poveri di prima. Rimpiangeva il respiro d’Africa, me ne parlava tutte le volte che rimanevo un po’ lì ad ammirarlo lavorare e trafficare: “Il respiro immenso dell’Africa tu lo puoi sentire, capisci? Non ti abbandona mai, è caldo, pesante, ti entra dentro, tu sei quel respiro a un certo punto. La notte è solo un respiro più buio e caldo, ti avvolge passando la zanzariera, la luce accecante del giorno non ce la fa a dissiparlo. È un respiro di tutto il continente, lo capisci a un certo punto, non è solo l’Angola, è tutta l’Africa che ti respira addosso, in faccia, dentro. Amo questa città, ma dall’Africa non si guarisce più, nonostante la fatica, le malattie, l’essere scappati senza neppure un soldo. Non ci tornerò mai più, ma non ne guarirò mai, lo sento.”
Pensavo che fosse possibile esportare ovunque il modello portoghese, ma una sera arrivò una notizia tremenda: in Spagna il dittatore Franco respingendo le richieste di grazia da tutto il mondo aveva fatto fucilare cinque antifascisti baschi e catalani. Un corteo di migliaia di persone mosse verso l’ambasciata di Spagna, distante diversi chilometri; ci unimmo di corsa. Entrammo strada facendo dentro il consolato, poi dentro la compagnia Iberia, polverizzandoli con mazze, picconi e mani nude, non ci fermò nessuno, molti ci applaudivano mentre urlavamo i nomi dei fucilati, la polizia stava a guardare, non voleva rogne. Arrivati all’ambasciata, un palazzo immenso, trovammo un bus a due piani dirottato da un gruppo di ladruncoli del Rossio tra cui Manuel: mentre noi spaccavamo tutto, loro “salvavano” argenteria, quadri, mobiletti, automobili persino; il loro mercato parallelo ci visse per settimane. Dopo alcune ore arrivarono dei camion carichi di paracadutisti, presero a sparare raffiche di mitra in aria per disperderci. Me ne ritornai in Rua Do Prior a piedi, trascinando a mo’ di trofeo una targa dell’ambasciata strappata dal portone. Per strada mi abbracciavano, scambiandomi per spagnolo.
Tornai diverso. Era possibile cambiare anche in Europa, spazzare via i vecchi regimi, cominciare a praticare la rivoluzione. Cadeva la dittatura dei colonnelli in Grecia, dopo che gli studenti avevano sfidato i carri armati, si sfaldava il regime franchista in Spagna, dopo la morte del generalissimo, il vecchio boia della guerra civile. Diventavano indipendenti le ex colonie portoghesi in Africa, i Vietcong entravano a Saigon mentre gli americani fuggivano. Stavamo facendo la storia, cambiavano destini apparentemente immutabili, la nostra adrenalina, la forza stessa della nostra gioventù ci faceva sentire inarrestabili. Cresceva anche in Italia il movimento dei soldati, quello dei disoccupati, a Napoli nasceva un collettivo autonomo di contrabbandieri.
Il regime democristiano veniva travolto nel referendum sul divorzio, anche i miei genitori hanno iniziato a votare il Partito comunista. Basaglia riusciva dapprima a togliere le inferriate, poi a chiudere i vecchi manicomi lager. Di più, in quegli anni spariva praticamente il Festival di Sanremo. In compenso, al concerto di Frank Zappa a Roma, c’erano tutti i fricchettoni d’Italia. Marcello dava un volantino di Stampa Alternativa con scritto a caratteri di scatola “la musica si sente, il biglietto non si paga!” Un gruppetto riuscì a scavalcare le cancellate del palasport inseguito dalla polizia. All’interno la folla si aprì per accoglierli, richiudendosi subito dopo per non far passare gli sbirri; meglio della scena del Mar Rosso nel film su Mosè, e Zappa attaccava con una versione travolgente di Hot Rats. Qualcuno ha detto che la nostra generazione ha preso per un’alba quello che in realtà era un tramonto. Se anche fosse? Aveva colori bellissimi.