di Sandro Moiso
Andrew Spannaus, L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro, con una Prefazione di Giulio Sapelli, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 190, 15,00 euro
“Per troppo tempo il nostro governo ha abbandonato il Sistema americano” (Donald Trump, 20 marzo 2017)
Andrew Spannaus, giornalista e saggista statunitense che da diversi anni vive in Italia, si è già distinto in passato per un’attenta e precisa disamina anticipata dei motivi che avrebbero portato Trump alla vittoria nella corsa alle presidenziali del 2016 (qui) e delle ragioni del diffondersi del neo-populismo tra gli elettori in Occidente (qui). Ancora una volta, nel testo appena pubblicato da Mimesis nella collana «Il caffè dei filosofi», le sue considerazioni e i dati che egli porta a loro sostegno si rivelano sicuramente interessanti, anche se non sempre pienamente condivisibili da parte di tutti i lettori.
Quello che è certo è che, nell’attuale turbillon mediatico riguardante le elezioni presidenziali americane di quest’anno e le conseguenze socio-economiche della pandemia da Coronavirus, il libro del giornalista americano si pone tra i più utili. Almeno per stimolare un dibattito troppo spesso asfittico, scontato e accecato dalle ideologie e dal politically correct. Un dibattito che, per essere considerato tale, dovrebbe avvertire la presenza di più voci e non soltanto quella della vulgata dominante ovvero delle Sinistre liberal e delle Destre più scontate.
Tre sono i punti principali che il saggio tocca: il primo è quello dello scontro istituzionale (più o meno velato) che si è svolto tra Donald Trump e il deep state rappresentato dalle agenzia per la sicurezza e i funzionari dell’amministrazione fin dagli esordi della sua presidenza. Tema cui si ricollega direttamente il suo tentativo, scarsamente riuscito, di modificare alcune delle linee guida seguite dai governi precedenti in tema di politica estera.
Il secondo è quello della ricomposizione sociale e dell’impoverimento delle classi medie americane causato dai processi di globalizzazione e di outsourcing produttivo e il contemporaneo insorgere, o risorgere, delle idee populiste e nazionaliste; mentre il terzo, come annuncia lo stesso titolo, è quello delle conseguenze che l’epidemia da Covid-19 ha avuto e potrà avere su tutto ciò. Comprese le rivolte di strada avvenute in quasi tutte le città americane a partire dall’assassinio, da parte degli agenti di polizia di Minneapolis, di George Floyd. A proposito delle quali l’autore non può fare a meno di notare che
La prima constatazione fondamentale in merito alle proteste è la loro ampiezza, a livello sia geografico che culturale: oltre la metà dei manifestanti erano bianchi, e si sono tenute manifestazioni in tutto il paese, anche in cittadine piccole di stati rurali con popolazione quasi interamente bianca come il Nebraska e il Wyoming. Si è trattato di un salto di qualità rispetto alle proteste del passato, che riflette un senso diffuso di ingiustizia nei confronti dei neri: tra agosto 2017 e giugno 2020 il numero di americani che avevano un’opinione positiva del movimento Black Lives Matter è aumentato dal 42 al 72%, con un cambiamento significativo in ogni segmento della popolazione1.
Il primo tema si rivela essere uno dei più significativi del testo, poiché contribuisce a spostare l’attenzione, ormai canonica, da ciò che l’azione di Trump starebbe comportando in termini di sviluppo della estrema destra americana e di una possibile guerra civile a come si sono mossi, fin da prima della sua elezione, gli apparati profondi dello Stato, ovvero le agenzia di intelligence, nei suoi confronti. In questo senso lo sguardo si sposta dalla realtà del Russiagate, ovvero l’accusa sostanzialmente di tradimento condotta nei confronti del presidente statunitense per aver usato l’aiuto della Russia di Putin per la propria vittoria elettorale contraccambiandone i favori, alle infondate ricostruzioni che, in particolare dal Federal Bureau of Investigation, di questo presunto reato sarebbero state fatte.
Ci rammenta infatti l’autore che il fardello di accuse, su cui si sarebbe dovuto basare anche il procedimento di impeachment del Presidente, si è rivelato alla fine indimostrabile. Anche se inizialmente
presa come verità assoluta e promossa vigorosamente da parte dei media più importanti del paese come il “Washington Post”, il “New York Times”, e l’emittente televisiva CNN, secondo cui la Russia di Vladimir Putin sarebbe intervenuta nelle elezioni presidenziali del 2016 con l’obiettivo di aiutare Donald Trump a sconfiggere Hillary Clinton. Sulla base di valutazioni d’intelligence, una lunga indagine condotta dal procuratore speciale Robert Mueller dal 2017 al 2019, e numerose inchieste giornalistiche, si sarebbe arrivato a stabilire senza ombra di dubbio questo teorema. Le implicazioni sono state importanti, e pesanti: ancora prima che Trump diventasse presidente, in molti volevano tarpargli le ali. Inoltre, ogni mossa politica di Trump è stata analizzata attraverso la lente del suo presunto legame e affinità con la Russia, dipingendolo come un traditore che non faceva gli interessi americani, ma quelli del suo amico dittatore Vladimir Putin. C’è un solo problema con questa versione dei fatti: non c’è alcuna prova che sia vera. Per chi non ha studiato i dettagli, questa potrà sembrare un’affermazione sorprendente, di parte, o forse addirittura complottistica, contro le evidenze. Ma è vero il contrario, dichiarare che il governo russo sia responsabile dell’operazione di pirateria informatica contro il partito democratico, oppure che abbia voluto influenzare il voto americano attraverso le operazioni sui social network, o anche che i consiglieri Trump abbiano cercato l’aiuto dei russi, non è dimostrato dai fatti, come vedremo.
Un esempio basterà per iniziare, prima di esaminare alcuni dei punti più sorprendenti di manipolazione delle informazioni e di scorrettezze compiute da rappresentanti delle istituzioni americane: il giorno 1° luglio del 2019, il giudice federale Dabney Friedrich emise un’ordinanza nel processo tra il governo degli Stati Uniti e la Concord Management and Consulting, società accusata di aver finanziato le operazioni della Internet Research Agency (IRA) per sostenere la campagna elettorale di Donald Trump. La IRA è quella “fabbrica dei troll” di San Pietroburgo che secondo i resoconti di stampa avrebbe speso milioni di dollari per impiegare centinaia di operatori per diffondere notizie false e “appoggiare la candidatura a presidente di Donald Trump”. Dopo l’atto d’accusa emesso dal Dipartimento di Giustizia Usa, a sorpresa gli avvocati della Concord si presentarono a Washington per difendersi, chiedendo di visionare le prove. Mueller e la sua squadra negarono, però, trincerandosi dietro motivi di sicurezza nazionale.
Dunque nel luglio 2019 il giudice prende una decisione clamorosa: concorda con l’imputato che non è corretto dire che il Cremlino fosse dietro la campagna sui social, in quanto non è stata presentata alcuna prova in quella direzione! Ammonisce il procuratore speciale Mueller, dicendo che fare affermazioni di questo tipo lede i diritti dell’imputato, precludendo la possibilità di un processo equo. Con questa ordinanza, un giudice federale americano sembra smontare buona parte dell’impalcatura del Russiagate: non ci sono prove di interferenze nella campagna elettorale da parte del governo russo. Ma il procuratore dice che le prove sono state trattenute per motivi di sicurezza nazionale. Insomma, le prove ci sono ma non si possono dare, perché si dovrebbero svelare dettagli in merito alle fonti e ai metodi utilizzati dal governo USA. Alla fine, il 16 marzo 2020 il Dipartimento di Giustizia decide di ritirare le accuse contro Concord, valutando che non vale la pena rivelare i segreti e agire contro una società che comunque non può essere punita essendo in Russia.Cosa significa tutto questo? Che la IRA non interviene sui social network? Lo farà, ed è possibilissimo che cerchi di influenzare l’opinione pubblica americana. Ma si sono costruiti innumerevoli articoli e analisi sulla base di un assunto senza alcuna prova, l’assunto centrale per tutte le indagini del Russiagate. Non solo l’informazione, ma la politica di intere nazioni si basa su una versione dei fatti che è senza fatti. E non è certamente l’unico caso, come vedremo. A questo punto, senza avere alcuna simpatia particolare per Vladimir Putin o gli hacker, va detto che l’onere della prova non è stato assolto; la conclusione non è che dobbiamo essere tutti amici della Russia, ma occorre chiedersi a quale scopo le istituzioni d’intelligence americane sono intervenute in modo così prepotente, e se il loro obiettivo non andasse ben oltre la semplice scoperta della verità2.
Questa lunga citazione serve per comprendere come un clima da scontro interno, tra due diversi intendimenti della ragion di Stato e delle sue prerogative si sia sviluppato da subito, immediatamente dopo un’elezione presidenziale che nel novembre del 2016 «scioccò l’America, e il mondo. Fu una vittoria strettissima, con un voto popolare di minoranza, conquistata principalmente grazie al margine di appena 77 mila voti totali tra tre stati chiave: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, parte della cosiddetta “Rust Belt” (la cintura arrugginita), cioè gli stati altamente industrializzati che negli ultimi decenni hanno perso tanti posti di lavoro nelle manifatture»3.
Nonostante il fallimento delle accuse per il Russiagate, le stesse e le ragioni che le accompagnavano hanno finito così col plasmare un dibattito pubblico che ha finito troppo spesso col ridursi al pro o contro Trump.
Un esempio particolarmente ironico di questo fenomeno è avvenuto nelle varie manifestazioni contro il presidente già a partire dal giorno della sua inaugurazione: ha fatto specie vedere dimostranti femministe, e comunque rappresentanti di un mondo antagonista di sinistra, alla Marcia delle donne, portare cartelli con dichiarazioni come “Credo nell’intelligence”. Da quando la gente scende in strada per appoggiare l’FBI e la CIA, agenzie da decenni oggetto di scetticismo tra la popolazione in generale, ma anche sospettati di complotti e operazioni nefaste tra chi contesta le istituzioni? Non è lontano il 2003, quando le agenzie d’intelligence svolsero un ruolo fondamentale nella manipolazione delle informazioni per giustificare la guerra in Iraq; per non parlare dei siti ‘neri’ e della tortura negli anni successivi, e anche della sorveglianza della popolazione americana nel nome del contrasto alla guerra al Terrorismo. Nel 2016, però, molte persone che si erano giustamente indignate per questi abusi decisero che quando si trattava di combattere Donald Trump, tutto era lecito, anche se significava appoggiare la CIA4.
Sono proprio queste osservazioni di Spannaus a suggerire che occorre ragionare sulle cause profonde, non solo sociali, dell’attuale discussione sulla possibilità di una guerra civile negli Stati Uniti. C’è infatti da chiedersi chi stia spingendo di più su quel pedale: Trump con le sue parole provocatorie e i suoi appelli al “tenersi pronti” rivolti alle milizie che lo sostengono e ai suprematisti bianchi o il seme della rivolta ormai diffusosi ovunque oppure, ancora, un deep state rappresentante di ipotesi politiche e finanziarie che non hanno mai gradito l’ascesa del “rozzo e populista” Trump al potere? Non si tratta di fare del complottismo, ma piuttosto di imparare a vagliare con estrema attenzione la narrazione mainstream “democratica” che ad ogni piè sospinto viene fatta qui in Italia dai media e dalla sinistra istituzionale e non, prigioniere, soprattutto la seconda, di una visione di una lettura troppo semplificata della realtà politica e sociale americana (e non solo). Tenendo conto che lo scontro interno tra le maggiori istituzioni, di cui si parlava prima, non è certo tra Democrazia e Fascismo, ma tra interessi finanziari globalizzati e una gestione politica ed economica “nazionalista” che vorrebbe riportare a casa una parte degli investimenti produttivi fatti all’estero.
Certo, come era prevedibile fin dall’inizio, Trump ha mantenuto poco o nulla della sua promessa elettorale, sia sul piano della politica estera (come ben spiega il testo di Spannaus) che su quella della politica economica rivolta a dare respiro a una working class bianca fortemente provata dalla globalizzazione e ad una lower middle class che ha visto erodere i suoi margini di risparmio e benessere nel corso degli ultimi decenni. Entrambe ormai costrette a fare i conti con una severa ri-proletarizzazione che spinge i suoi rappresentanti a frequentare lavori e sussidi un tempo principalmente riservati agli afro-americani, ai latinos e alle altre minoranza etniche. E qui è d’uopo riportare ancora una sintetica annotazione del giornalista americano:
Come aveva capito Martin Luther King Jr., già negli anni Sessanta, senza battersi per la giustizia economica e contro le disuguaglianze in generale, non è possibile ottenere appieno i diritti civili.
È su questo tema che si vede una interessante confluenza tra la battaglia per la giustizia razziale e quella economica. Le proteste per la morte di George Floyd sono avvenute in un momento già difficile per il paese, quando una grossa fetta della popolazione soffriva degli effetti di un’economia sbilanciata, facendo intravedere la possibilità di un ampio movimento contro la manifestazione dell’ingiustizia in più forme5.
Sul piano della politica estera Trump ha raggiunto, e solo parzialmente, due obiettivi: sganciarsi dalla politica di Obama in Medio Oriente, da un lato, raggiungendo un accordo tra Israele e stati del golfo che non potrà portare che altra tensione nell’area e una politica più aggressiva nei confronti della Cina e del suo commercio. Questa seconda, occorre dirlo, pienamente condivisa da Biden e dal Partito Democratico (oltre che da quello repubblicano).
Tutte politiche, ad esempio anche quella nei confronti della Corea del Nord, giocate sul filo del rasoio, tra minacce e trattative che in alcuni casi potrebbero facilmente sfuggire di mano e dare inizio ad autentici conflitti. Oppure a compromettere i rapporti interni alla stessa Alleanza Atlantica, con la conseguente moltiplicazione di situazioni di crisi. Pensare però, anche in questo caso, che il rimescolamento, anche parziale, delle carte sul piano internazionale sia soltanto frutto dell’ingegno o della stoltezza del Presidente dal ciuffo tinto potrebbe però rivelarsi fuorviante, impedendo di cogliere in questo alternarsi di tentennamenti e fughe in avanti, la crisi di una super potenza che deve decidere il proprio riposizionamento internazionale in un momento di crisi della globalizzazione e del suo ruolo egemonico all’interno di quest’ultima.
Sul piano economico interno, è stato chiaro fin dagli inizi, la presidenza Trump ha puntato su una politica di tipo mercantilistico basata sul mantenimento e la difesa della produzione nazionale (Buy American!) attraverso il protezionismo doganale e la rinegoziazione degli accordi commerciali internazionali, non solo con la Cina, ma anche con gli (ex?) alleati europei. Politica che fino ad ora non ha migliorato molto le condizioni di lavoro e salariali degli operai dell’industria e nemmeno ne ha causato un significativo aumento in termini occupazionali.
La crescita occupazionale, esattamente come durante la presidenza Obama, si è basata sulla diffusione di impieghi e lavoretti non garantiti, soprattutto nel settore dei servizi al consumo e nella distribuzione6, mal pagati, non garantiti e, soprattutto, con orari settimanali inferiori alle 29 ore. La questione dell’orario “ridotto” non è secondaria poiché nel sistema americano soltanto a partire da o al di sopra delle 30 ore i datori di lavoro devono fornire ai dipendenti un minimo di assicurazione sanitaria. Le belle parole di Trump sul Make America Great Again, rivolte soprattutto ad un elettorato bianco legato al lavoro produttivo, in realtà, sono soltanto servite a coinvolgere i lavoratori nelle politiche economiche nazionali senza garantire loro alcuna garanzia o miglioramento, come la pandemia e la crisi che ne è conseguita hanno chiaramente dimostrato.
Spannaus, con abbondanza di dati ed argomentazioni, parla di tutto ciò, ma sembra voler tracciare, con troppa convinzione ideologica, una netta linea di demarcazione tra il “Sistema americano”, così come si è delineato nelle politiche protezionistiche e di intervento statale che hanno caratterizzato la storia economica degli Stati Uniti dall’Ottocento al XX secolo, dal Ministero del Tesoro retto da A. Hamilton fino alla presidenza di F.D. Roosvelt , e il fascismo. Nel negare questa definizione per il personaggio Trump, il giornalista, che cerca di ridurre il fascismo ad una politica sostanzialmente autoritaria e razzista, dimentica infatti che la prima caratteristica del fascismo, che occorre sempre ricordare scaturì dal socialismo partecipativo della Seconda Internazionale, è quella di convincere oppure costringere i lavoratori alla condivisione degli interessi dell’economia e della produzione nazionale, alleandosi con le imprese e con lo Stato (concertazione, Carta del Lavoro o New Deal che sia). Finendo col sottomettersi completamente agli stessi. Certo il Fascismo usa anche il razzismo, l’autoritarismo e la violenza, tutti e tre strumenti pratici ed ideologici più antichi, che raggiungono però il pieno del loro vigore e della loro pericolosità in un contesto in cui una parte significativa dei lavoratori, schiavizzati dal capitale, ne interiorizzi individualmente e ne sussuma completamente, in quanto classe, gli interessi e le prospettive.
Ma Spannaus appare troppo affascinato dalle virtù terapeutiche dell’intervento economico dello Stato, soprattutto per quanto riguarda la monetizzazione del debito e l’occupazione, per comprendere o, almeno, per ricordare ciò. Anche se, occorre dirlo, nella sua analisi storica del Sistema americano la sintetica ricostruzione della storia del Partito Repubblicano e della sua componente radicale ottocentesca (quella di Lincoln per intenderci) serve sicuramente ad aprire gli occhi dei lettori anche sulle origini e la storia del Partito Democratico. Un tempo rappresentante degli interessi delle élite degli stati del Sud e oggi di una parte significativa di quelle attuali.
Una delle lezioni da trarre, da un libro di cui si consiglia comunque la lettura, potrebbe infine essere la seguente: una guerra civile val la pena di essere combattuta solo per gli interessi di classe e per un reale avanzamento di tutta la società e per questo sia Black Lives Matter e Antifa che le varie organizzazioni dal basso degli afro-americani e dei lavoratori bianchi e latinos impoveriti, dovranno ben valutare le spinte in quella direzione, su cui soffiano sia Trump che i suoi avversari istituzionali, entrambi grandi produttori e manipolatori di fake news. Pena il vedere stritolate in un autentico wargame di interessi contrapposti e lontani le spinte insurrezionali causate dalla crisi e dalle conseguenze della pandemia, oltre che dalle violenze razziste della polizia. Un gioco pericoloso in cui, chiunque sia il vincitore, a trionfare potrebbero essere ancora una volta soltanto gli interessi del capitale, dei suoi detentori e dei suoi grigi funzionari.
A. Spannaus, L’America post-globale, pp. 150-151 ↩
A. Spannaus, op. cit., pp. 30 – 32 ↩
op. cit. p. 27 ↩
op. cit. pp. 32-33 ↩
op.cit. p. 153 ↩
«Il più grande datore di lavoro negli Stati Uniti è Walmart, con circa 1,5 milioni di dipendenti. Il secondo è Amazon con oltre 400 mila. La classifica dei primi dieci contiene anche dei supermercati, fast-food e altre società di consegne e trasporto. Gli americani lavorano, ma i settori che assumono di più sono quelli dove gli stipendi sono bassi e gli impieghi sono spesso precari». op. cit., p.118 ↩