di Mauro Baldrati
VOLEVO NASCONDERMI, di Giorgio Diritti
Per certi aspetti Antonio Ligabue ricorda Van Gogh. Anche nel film un personaggio che sta osservando i suoi quadri dice: “Sembra quel pittore olandese…”. Ma più che le opere, naif quelle di Ligabue, uniche, ma inserite nel contesto impressionista e post impressionista quelle di Vincent, è il personaggio che lo evoca: la stessa solitudine, lo stesso amore per la natura (in particolare gli animali per Ligabue), lo stile duro degli autoritratti, lo stesso disprezzo degli umani nei loro confronti (per tutta la vita Van Gogh si è sentito ripetere da galleristi e critici che era negato sia per la pittura sia per il disegno), la stessa follia.
Disprezzo degli umani. In effetti Ligabue ha avuto un’infanzia disumana, sembra non appartenere alla specie. Forse è lui stesso ad affermarlo, in qualche raro discorso umano: si sente un animale, cerca di dialogare con loro, ne imita i suoni, le movenze, le grida. Tutti gli animali: le belve, che ha ritratto in opere mirabili, i cani, i galli, i cavalli, gli insetti. E l’incredibile interpretazione di Elio Germano ne coglie in pieno l’essenza. Se qualcuno crede che l’attore esageri guardi questo spezzone di documentario del 1962.
Proprio questo aspetto causava un pregiudizio nello spettatore, maturato dal trailer del film: il timore che si trattasse di una continua performance attoriale di Germano che alla fine risulti autoreferenziale. Nulla di tutto questo. Il regista Giorgio Diritti, che dimostra di avere una sensibilità fuori dal comune, ricostruisce gli ambienti – l’infanzia di Antonio Laccabue, degna di un romanzo di Dickens, la corte rurale di Gualtieri, i personaggi, la lingua, gli spettacolari paesaggi del PO – con una precisione tale da farci sognare, da catapultarci con una macchina del tempo in quell’epoca e in quei luoghi.
E poi c’è lui. Quanta sofferenza emerge dalla persona, da tutta la violenza e l’emarginazione che l’hanno perseguitato. Attoniti osserviamo la sua vita randagia – vita animale – sulle rive del grande fiume, solo, vestito di stracci, semi congelato durante l’inverno nebbioso e gelido della bassa. A disagio lo seguiamo mentre dipinge vestito da donna, perché vuole ricreare la persona femminile, che sogna di baciare, di sposare, mentre è condannato al celibato. Oppure dopo il successo, avvenuto quasi a sua insaputa, mentre vaga per la corte rurale e per il paese, cercando di regalare un quadro, oppure di abbandonarlo nel nulla, proprio come Utrillo, e d’un tratto si ritrova pieno di soldi, che sperpera, come un bambino che viene inondato di regali meravigliosi. Elio Germano, che abbiamo già ammirato nel Giovane Favoloso, si conferma un grande attore, ben più reale ed efficace delle icone mitopoietiche americane dell’Actor Studio: non solo interpreta il pittore; lui è Antonio Ligabue.
SENSE8 di Lana e Lilly Wachowski
Stiamo per redigere un testo anomalo: parlare bene – benissimo – di una serie senza consigliarla. Anzi, mettendo i lettori sull’avviso: forse è meglio se lasciate perdere. A meno che…
Ma come? Perché mai?
Perché bisogna amarla. Solo amandola nascerà il perdono. Perché se amiamo un/una partner siamo disposti a perdonarne i difetti. A una condizione: che anche lui/lei perdoni i nostri. E Sense8 ci ama. Perché ama l’amore.
Ma procediamo con ordine. Iniziamo dal perdono. E quindi dai difetti. Il principale è nella sceneggiatura. Qua e là è contorta. Ma santo cielo, se andiamo a sorbirci le sceneggiature sconclusionate senza capo né coda di Cristopher Nolan, e siamo pure recidivi, perché basterebbe una mostruosità come Inception per scolpire una croce nera nel granito, e invece torniamo con Interstellar e poi con Tenet, dove sta il problema? Non possiamo perdonare qualche buco, qualche salto brusco, qualche intreccio lisergico? Sense8 è imperfetta, ma l’amore non lo è?
La trama consiste in otto personaggi, ognuno in una città diversa, Londra, Mumbai, Città del Messico, Nairobi, Berlino, Chicago, Reykjavik, Seul, con vite diverse, ma che scopriranno di avere una cosa molto importante in comune. Manca Roma, ma le sorelle Wachowski (una volta “fratelli”, già registi del formidabile Matrix, ma hanno cambiato sesso, ora sono due donne transgender) si fanno perdonare con lunghe riprese a Positano, per una luna di miele della protagonista indiana. Quello che accomuna gli otto eroi è una connessione telepatica. Dapprima non riescono a capire perché hanno strane visioni, apparizioni di personaggi sconosciuti, ma si fa strada la verità. Forse sono il risultato di una mutazione: ognuno riesce a partecipare agli eventi, le sofferenze e le gioie degli altri. Nasce una sorta di collettivo, una famiglia, e così uniti iniziano a sostenersi a vicenda, a difendersi dagli attacchi. Infatti spunta una misteriosa organizzazione che li caccia, sembra per lobotomizzarli, per distruggere questa qualità, una specie di super potere ritenuto una minaccia. Qui sorgono i problemi della sceneggiatura, a tratti convulsa, con dettagli e fatti incomprensibili. Ma se riusciamo a tirare avanti, accettando i dialoghi, qua e là lunghi, dove i personaggi raccontano e/o analizzano i fatti personali, iniziamo ad accettarli, perché si fanno amare. Perché si amano tra loro. E questo messaggio – l’amore – si sprigiona così potente che anche noi entriamo per così dire nella famiglia. E quando le varie coppie che si formano si scambiano confidenze, speranze e paure, noi li ascoltiamo attenti, partecipi. Ed è bellissimo quando uno di loro si trova in grave pericolo e viene salvato dagli altri, un collettivo di autodifesa formidabile, ognuno con le sue qualità, una hacker, una campionessa di arti marziali, uno scassinatore, un attore, un poliziotto, un autista, una scienziata.
Ma: non è detto che tutti ci riescano. Possono scattare resistenze, irritazioni varie, per cui i difetti rischiano di prevalere. Per questo non ne consigliamo a priori la visione. Se non scatta il feeling è meglio abbandonarla.
Questa serie lancia uno dei messaggi libertari più intensi della storia del cinema. Ci dice, con una fotografia di alta qualità e ambienti spettacolari, che ciò che conta nella vita è amarsi, l’amicizia, godere dei propri corpi, senza pudori, né peccato, né sensi di colpa né paure. Tutto il resto è combattimento, sopravvivenza e lotta contro il sistema.
Per questo sa essere così apertamente, e sinceramente, rivoluzionaria.
(P.S. l’immagine è una scritta apparsa sui marciapiedi di Bologna)