di Gioacchino Toni
Se i film d’esordio Stereo (Id., 1969) e Crimes of the Future (Id., 1970) manifestano già i germi delle ossessioni del cinema cronenberghiano, è con i successivi Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975) e Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) che l’autore inizia a focalizzarsi sul contagio e sulla mutazione accentuando, soprattutto nell’ultima opera citata, il coinvolgimento emotivo dello spettatore messo di fronte alla tragica condizione vissuta da chi, una volta mutato, si trova nell’impossibilità di condurre una vita relazionale e sociale tanto dal dover cercare nella morte una via di fuga dalla sua opprimente condizione.
L’ossessione cronenberghiana del mostrare il non-filmabile, materializzandolo, dandogli un corpo, come scrive Gianni Canova nella sua monografia dedicata al regista – David Cronenberg (Editrice Il Castoro, 2007)1 –, fa invece la sua comparsa con Brood – La covata malefica (The Brood, 1979). In tale film viene presentato un mad doctor del tutto particolare in quanto anziché creare in laboratorio l’elemento malefico, lo estrinseca dalla paziente stessa al fine di curarla da una patologia preesistente: la terapia adottata intende liberare i soggetti dalle nevrosi facendo sì che i disturbi psichici vengano somatizzati sotto forma di carne. È così che una vittima di violenze infantili, nel dare forma alla propria rabbia, si trova a partorire bambini mostruosi, asessuati e omicidi: la mente prende corpo, si trasmuta in carne. La malattia in questo caso ha origine nella famiglia della paziente e i bambini da lei partoriti sono la proiezione mostruosa di quanto patito in tale contesto, sono figli dell’odio.
Nella diegesi del film, i “deformi” partoriti da Nola anticipano in un certo senso quell’estensione mass-mediale del corpo a cui i protagonisti di Scanners arriveranno con la telepatia e che il [protagonista] di La zona morta raggiungerà grazie alla sua “seconda vista”. La differenza sta nella centralità assunta in Brood dal tema della maternità: giacché i “deformi” sono propaggini del corpo materno nello spazio, sono appendici ed estensioni fisiche del sistema nervoso che arrivano anche là dove il corpo della madre non può arrivare. Nola partorisce l’orrore: lo espelle da sé, lo fa altro, lo rende autonomo. E lo scarica su coloro (i padri simbolici) che l’hanno generato. […] Ma se l’orrore è una “creatura”, anche l’immagine è tale. E Cronenberg la “partorisce” allo stesso modo in cui Nola dà vita ai suoi deformi nanetti. Che possono essere visti, ancora una volta, proprio come una “corporeizzazione (e una metafora) del cinema: come un film le “creature” di Nola sono asessuate, non vedono che in bianco e nero (l’infanzia del cinema) e “durano poco”. Servono a scaricare impulsi aggressivi, danno corpo ai sogni: anche quando questi sono malsani e dannosi.2
L’ambito famigliare come fonte di malessere è un elemento ricorrente in più opere cronenberghiane; lo si trova in Maps to the Stars (2014) e in Scanners (Id., 1981). In quest’ultimo caso sotto forma di colpe del padre che ricadono sui figli: questi ultimi, costretti a distruggersi a vicenda, sono infatti vittime di un esperimento del genitore non andato a buon fine.
Scanners riprende l’ambito della telepatia, caro alla fantascienza degli anni Cinquanta, piegandolo alla lotta per il possesso della mente. La psiche in Cronenberg però, avverte Riccardo Sasso nel suo volume L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg (Edizioni Falsopiano, 2018), è tutt’altro che un’entità astratta, capace com’è di generare e di distruggere: «è un’appendice del corpo che ne ha preso (e potenziato) le funzioni, un organo capace di penetrare senza il contatto fisico, è un’estensione (à la McLuhan) del corpo che spinge a riconsiderare il ruolo e i rapporti fra gli altri organi»3.
Scanners è un film che mostra le estreme conseguenze della mutazione; nella celebre sequenza finale, nel corso di una battaglia all’ultimo sangue tra le menti dei due fratelli, uno dei due assorbe l’altro, «si transustanzia in lui, liberandosi del proprio corpo e assumendo le sembianze del fratello»4. Il parto di questa lotta tra i due è un essere mutato, un ibrido con la voce di uno e le sembianze dell’altro, condannato però a non poter essere né l’uno né l’altro. Il confine tra Bene e Male, che in quest’opera sembrava più netto del solito, vacilla nelle sequenze finali, a riprova della sostanziale amoralità della poetica cronenberghiana.
La mosca (The Fly, 1986) è probabilmente uno dei film in cui la questione della mutazione è affrontata più direttamente e di questa, secondo Sasso, si possono cogliere tre momenti principali nel corso del film. Una prima fase, coincidente con l’arrivo della giornalista nella vita del protagonista che determina in esso una mutazione psicologica e comportamentale. Una seconda fase è dettata da quello che lo scienziato percepisce come come “tradimento” da parte della donna: la pubblicazione a sua insaputa sul giornale di un articolo relativo alle sue ricerche determina la decisione di procedere con l’esperimento su se stesso dando luogo a un processo di mutazione che momentaneamente ne aumenta le prestazioni. Il rifiuto della donna di essere a sua volta coinvolta nell’esperimento conduce il protagonista ad allontanarla e a “tradirla” con una donna abbordata in un bar. É da tale tradimento che, secondo Sasso, prende il via la terza fase della mutazione che conduce alla repentina trasformazione dello scienziato in mosca. Come per tutti i mutanti di Cronenberg, ancora una volta al protagonista non resta che cercare nella morte l’unico sollievo possibile alle sofferenze patite.
La mosca estremizza anche quella componente melò ravvisabile, come sottolinea Canova, in buona parte dell’intera opera cronenberghiana: frequentemente a essere messe in scena sono infatti storie di amori impossibili conclusi tragicamente con la morte. Nel film è la mutazione di uno dei due amanti a rendere impossibile la storia d’amore «Com’è possibile continuare ad amare un “io” che diventa un “altro”? Come amare quell’io anche nella sua “alterità”?»5.
Così come La mosca rappresenta il film in cui il regista canadese tratta più direttamente la tematica della mutazione, Inseparabili (Dead Ringers, 1988) è l’opera in cui la questione del doppio viene affrontata più esplicitamente e, proprio come La mosca, anche Inseparabili mette in scena un amore impossibile, inoltre, nuovamente, a far da catalizzatore agli eventi è la comparsa sulla scena di una figura femminile. Ancora una volta i personaggi cronenberghiani sono costretti a cercare nella morte un sollievo alla lancinante impossibilità di godere di una relazione.
Il tema del doppio torna anche ne Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), una pellicola stilisticamente lontana da Inseparabili: «Non più fratelli doppi che muoiono […] per l’impossibilità di separarsi […], ma mogli doppie la cui morte è l’unica soluzione per approdare al mondo salvifico della scrittura, e addirittura intere realtà doppie»6. Ciò conduce a quell’interzona che è «la proiezione mutante della mente allucinata del protagonista, il posto in cui albergano i deliri mentali fatti carne da uno scrittore con troppa fantasia e troppe droghe a disposizione»7. Interzona, dunque, continua Sasso, come spazio oscuro della psiche ove diviene possibile per il protagonista liberarsi delle costrizioni, esorcizzare le ossessioni, luogo popolato dalle forme devianti della sua realtà […] e soprattutto è il luogo di sviluppo del bildungsroman che ridarà senso alla sua vita stanca e monotona: Il pasto nudo»8.
Seppure pellicola anomala nell’ambito della produzione cronenberghiana, M. Butterfly (Id., 1993) contiene diverse ossessioni ricorrenti nella cinematografia del canadese: la mutazione, la sessualità, l’identità, il doppio e il ruolo giocato dall’innamoramento. Attraverso le modalità del melodramma, anche quest’opera mette in scena un’allucinazione, una fantasia in quanto, come sintetizza Canova, si tratta di un film «sull’origine “mentale” del desiderio e sulla genesi “cerebrale” della sessualità. Come se Cronenberg volesse dire che non ci si innamora mai di un altro (o un’altra), quanto dell’idea che ci si è fatti di lei (o di lui)»9.
M. Butterfly racconta di un amore reso impossibile non da una mutazione in atto (La mosca) né da un’incapacità a cambiare rispetto a ciò che si è (Inseparabili), «ma dal rifiuto di prendere atto della distanza che separa la propria idea dell’Altro da ciò che l’Altro effettivamente è»10.
Il ruolo sempre più importante e invadente della tecnologia nella società contemporanea, tanto da renderne dipendente l’essere umano, è al centro di Crash (Id., 1996), film del tutto privo di sviluppo narrativo in cui scene e azioni si susseguono per accumulo e giustapposizione prive di progressione diegetica. «Chiusi nella stanchezza di una routine sessuale che per quanto si accanisca nel moltiplicare i partner e i rapporti è condannata allo scacco dell’appagamento e al continuo deferimento del piacere»11, ciò che i protagonisti cercano negli incidenti stradali sembra essere una nuova forma di incontro, di connubio tra corpi e menti, capace di ridare impulso vitale a esistenze atrofizzate da una realtà ormai priva di rapporti interpersonali.
Se l’invadenza tecnologica ha mutato il principio di piacere e con esso la sfera erotica degli individui, «la carne dei protagonisti di Crash non può prescindere dalla sua appendice tecnologica»12, la carne umana sembra risponde ormai soltanto al contatto con l’agente che ha rimodellato in Ventesimo secolo: l’automobile. Scrive Canova che «i personaggi di Crash sperimentano una dimensione della sessualità che trova nel “feticcio” novecentesco e tecnologico dell’automobile il proprio medium imprescindibile»13.
I corpi si toccano e si penetrano, le bocche parlano e sussurrano, le mani sfregano e palpeggiano, le auto si urtano e si collidono: Crash è un’algida ecografia dell’urto e del contatto, effettuata su corpi che raramente sembrano sorridere o godere, e che più spesso assumono espressioni dolenti e sofferte, come se avvertissero la biologia come un destino che inevitabilmente li condanna a non poter fare a meno di continuare a cercarsi, toccarsi e penetrarsi. […] Crash ci dice così di una civiltà che non può più permettersi il lusso di trovare nella natura (nel corpo, nel sesso, nello sperma, nell’orgasmo) il proprio appagamento, e che è condannata a cercare nell’artificio e nella merce (nella protesi, nella macchina, nel consumo, nell’introduzione violenta e “innaturale” di un desiderio inappagabile) l’unica residua possibilità di affermazione e di appagamento di sé.14
Come avviene in Videodrome ed eXistenZ (Id., 1999), siamo anche qua di fronte a una mutazione psicofisica dell’essere umano in «animale-macchina, una compenetrazione irreversibile tra mente, corpo e tecnologia tale che [l’essere umano] non può vivere (socialmente, sessualmente, addirittura ontologicamente) se non in relazione alla sua parte meccanica»15. La fusione tra essere umano e automobile viene ripresa, pur sotto altra luce, in Cosmopolis (Id., 2012): un corpo ormai ridotto ad alone di se stesso costretto a vivere all’interno dell’abitacolo di un’automobile.
Tornando a Crash, occorre dire del suo essere un film politico. Lo è certo perché mostra come la produzione di incidenti (e di morte) sia funzionale agli interessi dei produttori di automobili, quasi si trattasse di una piccola guerra quotidiana dispensata in dosi omeopatiche che al pari dei grandi conflitti bellici risulta di estrema utilità all’economia capitalista. Ma Crash è un film politico soprattutto per un altro motivo: ciò che ha fatto trasalire molti commentatori abituati a cercare una morale edificante di superficie nei film è che, come ha sottolineato Canova, Crash «mette in scena l’impotenza della politica a governare il desiderio. O perché sottrae al Politico come al teologo, al Sociologo come allo Psicanalista ogni possibilità di controllo sull’individuo e, quindi, ogni possibile e residua funzione»16. Crash è un film che inquieta perché, continua lo studioso,
individua nella possibilità di scegliere come morire l’ultima forma possibile di liberazione dell’individuo e della sua soggettività in un universo che ha ormai definitivamente cessato di essere antropocentrico. […] Crash fa compiere ai suoi personaggi il gesto blasfemo per eccellenza […]: la rivendicazione del diritto a riappropriarsi della vita scegliendo come e quando farla finire.17
Dopo essersi occupato con eXistenZ (Id., 1999) dell’impossibilità di discernere tra livelli di realtà e di virtualità, il regista canadese realizza Spider (Id., 2002), film che, come mette in evidenza Canova, prende il via con le immagini di un treno sulle cui lamiere campeggia un numero identificativo palindromo (47774), quasi a preannunciare che nella vicenda che lo spettatore si appresta a osservare l’inizio e la fine si riveleranno del tutto interscambiabili.
Il film obbliga lo spettatore a compiere un’immersione psicotica nella mente di un protagonista in cui si intrecciano e sovrappongono ricordi, realtà e visioni in ordine sparso: in Spider diviene impossibile discernere tra oggettivo e soggettivo, presente e passato, allucinazione e ricordo. L’opera si rivela davvero una ragnatela, una trappola nel suo essere costruita in modo da precludere allo spettatore di comprendere «se la storia a cui sta assistendo è la messinscena oggettiva della ricerca di un folle che fruga nel proprio passato o l’allucinazione soggettiva dello stesso personaggio che rivive il trauma della sua infanzia deformando la realtà tanto agli occhi di se stesso quanto a quelli dello spettatore»18.
A History of Violence (Id., 2005) appartiene a quel tipo di film che intendono mostrare come la violenza covi sotto la superficie e come, nonostante la sua rimozione alla vista, essa sia parte integrante e fondativa della storia di una comunità o di un’intera civiltà.19. Il film mostra come qualcosa di inquietante si nasconda anche dietro a un individuo come tanti che passa le sue placide giornate in una cittadina della provincia americana: come in altre opere è infatti la presenza congenita della violenza nella vita di tutti i giorni degli esseri umani a essere svelata strada facendo dal film. «Violenza endemica, violenza cronica, violenza appesa sotto la pelle del visibile. Questa è la scommessa [del film]: mostrare quanto sia labile i confine che separa la presenza della violenza dalla sua assenza (dalla sua rimozione), rendere visibile la hybris che abita la nostra tranquilla quotidianità»20.
Con A History of Violence si torna per certi versi alla tematica del doppio attraverso un individuo che manifesta presto la sua duplice identità: un essere che sembra aver messo da parte il male per vivere rettamente ma che si ritrova, improvvisamente, a dovervi ricorrere. Nel momento in cui riaffiora la parte rimossa della sua personalità, nascosta agli occhi di chi lo circonda, che però non è mai stata totalmente eliminata, né, sembra suggerire il film, avrebbe potuto esserlo, ecco che l’identità, ancora una volta nell’opera cronenberghiana, si rivela instabile.
Tra le forme con cui si manifesta la doppia identità del protagonista di A History of Violence vi è quella sessuale. Nel corso del film si succedono due scene di intimità tra i coniugi, separate proprio dal ritorno della violenza nella vita del protagonista, che consentono di esplicitarne l’alternanza identitaria: ad una prima scena che mostra un romantico rapporto amoroso ne succede una seconda in cui l’atto sessuale è consumato con ferocia animalesca.
Anche la famiglia assume una duplice connotazione: se quella d’origine si rivela fonte di violenza, quella costruita rappresenta una via di fuga dalla prima. Per riconquistare la serenità perduta al protagonista non resta che uccidere il fratello e con lui, per certi versi, la parte di sé che aveva invano tentato di soffocare. Ma la violenza pare non essere mai eliminabile; è infatti attraverso essa che il protagonista ritrova il suo posto tra i famigliari che, ignari, almeno fino a quel momento, del suo passato malvagio, dopo averlo scoperto finiscono per accettarlo, mentre il cinema, da parte sua, sembra ancora una volta svelare, nel suo mostrare cosa si nasconde sotto la superficie, come la violenza resti ineliminabile elemento costitutivo del sogno americano.
Anche La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) è un film incentrato sulla difficile convivenza tra identità diverse che si scontrano tanto all’interno del corpo sociale quanto all’interno dell’individuo. Se A History of Violence svela il lato oscuro che si nasconde dietro la superficie di individuo apparentemente privo di aspetti negativi, specularmente Eastern Promises, mostra invece la presenza di nobili intenti dietro o un’apparenza malvagia di un agente sotto copertura. Se in quest’ultimo film il protagonista è perfettamente consapevole della duplicità di ruolo che si trova a interpretare, non di meno si trova condannato a questa doppia natura; il suo animo è ormai segnato in maniera indelebile dal lato oscuro della sua vita così come lo è il corpo, inciso da ferite e tatuaggi.
L’interesse per l’instabilità della personalità conduce Cronenberg a un film come A Dangerous Method (Id., 2011) in cui, nell’intreccio tra Jung, Freud e la giovane Spielrein, sostiene Riccardo Sasso, il regista canadese sembrerebbe derivare l’idea della psicanalisi come virus che si insinua nella mente di un essere umano mutandone la conformazione: «tutto il film è l’anamnesi del processo di mutazione che avviene in Carl Gustav Jung dopo l’incontro destabilizzante con Sabina e l’inizio del suo rapporto malato con lei»21.
Jung, secondo Sasso, sembrerebbe fungere da cavia su cui Cronenberg analizza il fenomeno del contagio e a tale scopo il regista insiste nel mostrarlo particolarmente permeabile alle altrui intrusioni nel meandri della propria mente; si lascia persuadere dalle teorie di Freud e, tramite questo, dai convincimenti di Otto Gross, per poi infrangere il rapporto medico-paziente e instaurare con la giovane Sabina Spielrein un rapporto sentimentale e sessuale mutando così da medico in ammalato, mutazione che tocca anche gli altri personaggi, visto che, a loro volta, palesano doppi ruoli. «Il contagio del dottore avverrà per mezzo della sessualità, e per giunta di una sessualità perversa, dal momento che Jung si troverà parte attiva delle devianze erotiche, sadomasochistiche di Sabina»22.
G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007 ↩
Ivi, p. 42. ↩
R. Sasso, L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2018, p. 52. ↩
Ivi, p. 56. ↩
G. Canova, op. cit., p. 71. ↩
R. Sasso, op. cit., p. 90. ↩
Ivi, p. 98. ↩
Ibid. ↩
G. Canova, op. cit., p. 95. ↩
Ivi, p. 96. ↩
Ivi, p. 102. ↩
R. Sasso, op. cit., p. 111. ↩
G. Canova, op. cit., p. 100. ↩
Ivi, pp. 102-103. ↩
R. Sasso, op. cit., p. 112. ↩
Ivi, p. 105. ↩
Ivi, p. 106. ↩
Ivi, p. 115. ↩
La messa in scena del ruolo fondativo della violenza per una civiltà lo si ritrova sin dall’antichità; si pensi ad esempio al rilievo dell’Ara Pacis Augustae in cui la Dea Roma viene mostrata seduta su un cumulo d’armi ricordando così non solo come proprio le armi siano fondamenta della civiltà romana e strumenti attraverso i quali è stata riottenuta la pace, ma anche come, al bisogno, a queste si possa nuovamente ricorrere per difendere tutto ciò. ↩
Ivi, p. 123. ↩
R. Sasso, op. cit., p. 145. ↩
Ivi, p. 146. ↩