di Valerio Evangelisti (da TTL – La Stampa, maggio 2020)
Marcel Aymé, La fossa dei peccati, ed. L’Orma, 2020, pp. 216, € 15,20.
Marcel Aymé (1902-1967) è noto, in Italia, solo a un pugno di specialisti. D’altra parte, tante sue opere (romanzi, racconti, sceneggiature cinematografiche, drammi teatrali), sarebbero difficili da tradurre, per il suo uso acrobatico della lingua. L’adattava alle classi sociali messe in scena, senza evitare il gergo (anzi, i gerghi) e l’inglese maccheronico. In Francia, invece, è considerato, se non proprio un “classico” della letteratura, quanto meno uno scrittore molto importante della metà del XX secolo. Senza essere oggi, nemmeno in patria, realmente popolare. Eppure lo si ristampa ancora, e gli sono dedicati nomi di strade e lapidi commemorative.
Ha pesato molto, sul destino di Aymé in territorio transalpino, l’ambiguità della sua collocazione politica, che gli attrasse i fulmini di Sartre (fu difeso dal più duttile Camus). Il suo peccato fu, in un’epoca di forti scontri e passioni, non assumere mai una posizione netta. Fu collaborazionista con Vichy? Fu antisemita e sostenitore del governo di Pétain? Dai suoi scritti non si evince nulla di simile (se non talora in senso contrario), dalle sue attività pubbliche qualcosa di vago. Collaborò, durante l’occupazione tedesca, alle peggiori testate (come Je sais tout, di Robert Brasillach, lui sì filo hitleriano e antisemita convinto). Aymé prese platealmente le difese dello stesso Brasillach, quando, dopo la liberazione, questi fu condannato a morte. In seguito continuò a pubblicare racconti su riviste di un nazionalismo estremista, addirittura monarchiche. Malgrado ciò, rimase inclassificabile. Lo è tuttora. Peccato veniale oggi, grave quando il mondo era alla ricerca di un suo assestamento.
Cosa pubblicava? Racconti strani e sorprendenti, surreali, stranianti. Si è detto Aymé cultore del fantastico. Io direi piuttosto maestro del bizzarro, dell’anomalo. In questa ottima antologia (Marcel Aymé, La fossa dei peccati, L’Orma Editoriale, 2020), proposta da un editore raffinato e da un ottimo traduttore, Carlo Mazza Galanti, si noti il racconto L’attraversamuri, forse il più noto di Aymé. In tono bonario si narra l’avventura di un piccolo borghese, grigio funzionario del fisco, che scopre di potere attraversare i muri. La sua dote lo porta a diventare ladro, più volte arrestato senza che la prigione riesca mai a trattenerlo. Entra ed esce come crede, novello Arsène Lupin immateriale. Fino a che una storia d’amore non lo conduce alla rovina e a un tragico destino.
Tutto ciò è narrato in forma piana, dolcemente elegante, con un umorismo contenuto che non sfocia mai nel comico, ma resta sottotraccia. E l’elemento drammatico, che pure esiste, è stemperato dall’assurdità stessa della storia. Sembra l’esordio (non lo sviluppo) di certe novelle di Kafka, in cui un borghesuccio qualsiasi (un burosauro) ignora i tentacoli che minacciano di stritolarlo.
Nell’antologia è memorabile, tra gli altri, il racconto Il tempo morto, in cui un povero diavolo di Montmartre, tale Martin, vive un giorno su due. Nel senso che, dopo una giornata normale, smette di esistere, e torna in essere dopo un intervallo di ventiquattro ore. La trovata è a dir poco geniale, specie se combinata a una vicenda erotico-amorosa costantemente intervallata. Con conseguenze niente affatto piacevoli, ahimè.
Anche in questo caso lo stile è pacato, in stridente contraddizione con gli eventi straordinari che descrive. L’umorismo latente. Il lato tragico lasciato pulsare in disparte. La credibilità interamente sospesa. Eppure, attraverso una scrittura quasi fin de siècle (intendo l’Ottocento), il racconto cattura, coinvolge, sorprende. La forza di Aymé è dare coerenza apparentemente logica a un’idea iniziale pazzesca. Quando vi riesce (non sempre: alcuni dei sette racconti antologizzati hanno ottimi inizi e mediocri finali) trascina il lettore fuori da ogni realtà conosciuta, senza ricorrere all’espediente dell’onirismo.
Ha qualcosa a che vedere, l’Aymé narratore con l’Aymé presunto collaborazionista? Direi proprio nulla. Quando fa riferimento agli anni dell’occupazione ne ricorda la miseria, l’avvilimento, la fame di tanti francesi. Il suo mondo è un altro: quello delle personalità sdoppiate (e con esse le corna dei mariti), della pittura che nutre in senso letterale, commestibile, dei Bambinelli natalizi che recano doni ai bordelli, dell’ora legale di diciassette anni, di un curioso inferno subacqueo in cui i peccati capitali si presentano ai dannati, uno a uno, nelle più svariate forme. E se ogni volta l’idea di partenza è delirante, lo svolgimento è l’estensione apparentemente logica di quel delirio,
Si direbbe che Aymé si prenda gioco della serietà, della pompa. Il lettore che voglia seguirlo deve abbandonarsi a una prosa semplice e lisergica, farsi trascinare in un universo demenziale, dalla coerenza di facciata. Se ci riesce, ne rimarrà affascinato e spaventato. Un altro mondo è possibile, ma, se a guidarci in esso è Marcel Aymé, con sguardo non euclideo, non è detto che sia migliore. Anzi.