di Silvia De Bernardinis
Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro
Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.
Come nei libri precedenti di Barbara Balzerani, anche Lettera a mio padre, edito da DeriveApprodi, è una discesa e un’immersione nelle crepe della Storia, tra gli scarti della storia ufficiale senza i quali però nessuna storia può essere raccontata se non trasfigurandola, e nessuna via di fuga collettiva da un sistema sociale basato su profitto, sfruttamento e miseria, pensata. È questa la scrittura e la concezione della Storia che Barbara propone nei suoi libri, messa a punto con sempre più affinata maestria nel suo ormai ultraventennale percorso letterario.
Una prospettiva che permette di cogliere le dissonanze, i punti di frattura che smentiscono la presunta linearità del tempo e dei fatti. Un viaggio che posa lo sguardo sugli “invisibili al potere”, interni alle “dissonanze della vita collettiva”, compagni di viaggio che Barbara ha incontrato sulle strade percorse in questi anni di difficile resistenza, fuori dal terreno viscido dell’indistinto che tutto fagocita, laddove è possibile lo squarcio di luce che smaschera i meccanismi pervasivi di un sistema di sfruttamento stritolante, dove è possibile la rottura imprevista, l’incontrollabilità al potere. Ma anche lontano dai sentieri ormai infertili di quel Novecento che ha attraversato e che l’ha attraversata nelle viscere. E da questo viaggio torna restituendoci un quadro a più colori, a più voci e accenti, tessuto in trame di inconciliabilità al capitale che assumono un volto che si fa sempre più riconoscibile.
Al pari dei libri precedenti, anche Lettera a mio padre è scrittura che si fa filosofia, storia e politica, un ulteriore passo in quell’opera di ricerca e ricomposizione di un vocabolario comune, di un pensiero forte capaci di ridisegnare un orizzonte rivoluzionario contro la menzogna dell’unico mondo possibile. E che è il filo conduttore che attraversa tutta la scrittura di Barbara; un patrimonio partigiano di cui abbiamo più che mai bisogno per orientarci.
Una lettera al padre per raccontargli come corre il mondo da quando lui non c’è più, per dirgli che a differenza del suo mondo dove si lottava per l’indispensabile, ora si vive e si muore per e di consumo, nella miseria. Un operaio senza fabbrica per scelta, di quelli dell’inizio del secolo scorso, cresciuti prima dell’avvento dell’usa e getta, della serialità, che fa dell’esperienza pratica, della capacità delle mani di riparare, dell’ingegno della creatività pratica a trovare soluzioni, il suo valore, e il metro per misurare l’inutilità dei padroni.
Come è stato possibile che proprio lui cadesse nell’inganno padronale mortifero del fascismo, nella mancanza di fiducia nei propri simili, nella prospettiva fallace della salvezza individuale? Cosa l’ha trattenuto, anni più tardi, dal sostenere e condividere – insieme a quegli altri padri dell’officina – ragioni e pane con gli insorti dell’unico e ultimo tentativo rivoluzionario della nostra storia novecentesca? Riattraversamento di una frattura mai sanata sul piano personale e sul piano storico.
Come è stato possibile che cadesse negli ingranaggi delle compatibilità illudendosi di esserne sfuggito, che ripiegasse nella rassegnazione di un mondo che è raccontato come se sempre dovesse essere dominato dall’ingiustizia di chi comanda, nell’inganno di padroni abili a macinare, assorbire e trasfigurare, a disarmare le menti, confondendo nell’indistinguibilità oppressi e oppressori, con la retorica mistificatoria delle sempreverdi emergenze e degli annessi solidarismi nazionali?
Questioni che ci precipitano nelle contraddizioni irrisolte del secolo scorso, ma ancora aperte, alla radice di una sconfitta che ci ha irretiti. Eppure proprio il lascito di sapere ed esperienza di quel padre, un nostro padre, può essere ripercorso, per riattraversare la storia in un altro modo, e può esserci di soccorso per l’oggi, in un tempo che corre alla velocità irraggiungibile del 5G, che ci impedisce di capire la concretezza del reale nascosta dentro l’intelligenza artificiale. Abbiamo bisogno di un altro tempo. Nel racconto al padre, ciò che lui ha lasciato come valore continua ad essere ciò che regge il mondo, perché senza mani sapienti, senza la materialità dei corpi, l’intelligenza artificiale e l’economia immateriale che ci comandano non si sorreggono. Liberarsi dal tempo disumanizzato del capitale riappropriandosi di quel sapere pratico – del gesto e della conoscenza che assomigliano a quelli dell’artigiano, frutto di un accumulo di esperienza tramandata che ha selezionato materiali e strumenti adatti alla realizzazione non solo dell’utile e durevole ma anche del bello, diritto inalienabile degli esseri umani, in una storia lunga e irregolare, fatta di biforcazioni, di strade non praticate, sepolte e dimenticate sotto le macerie del tempo veloce del progresso – può essere oggi la via di fuga collettiva per sottrarsi al sistema di sfruttamento e devastazione cui siamo sottomessi, fino a distruggerlo, disseppellendo l’inespresso, scovando il potenzialmente realizzabile che sta nel passato.
In questo dialogo immaginato con il padre, che nell’incedere ricorda in alcuni passaggi l’epica brechtiana, Barbara riprende e approfondisce il discorso iniziato in L’ho sempre saputo, una ricerca nella storia e nel patrimonio dei vinti, delle armi della critica pratica rimaste integre nello scontro con il capitale, che hanno retto alla tempesta del progresso. E tra le macerie pratico-teoriche del Novecento rivoluzionario, ricerca quel che può essere ancora utile, fili spezzati da riannodare, ponendo però l’urgenza di staccarsi da ciò che oggi è peso morto e che è anche una delle ragioni che ha permesso al nemico di aumentare la sua ferocia, impune.
Non l’assalto al Palazzo d’Inverno – e con esso la scienza sociale che l’ha sostenuto – ma sabotaggio delle fondamenta, sottrazione alle compatibilità, porta d’ingresso negli ingranaggi del capitale. Sottrazione come via di fuga che erode quelle fondamenta e costruisce al tempo stesso altre forme di vivere collettive. “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, continua ad indicare la bussola. Dal racconto delle pratiche di lotta e di resistenza che ci giungono dal Kurdistan alla Zad, dai Gilet gialli agli zapatisti, agli operai argentini in autogestione che cancellano la divisione del lavoro, agli illegali ed irregolari, sempre più numerosi, delle periferie dell’Occidente colonialista, si ridelinea una nuova scienza sociale.
È il frutto dell’esperienza pratica di chi si organizza nel segno dell’autodeterminazione, dell’autogoverno; riattivando le relazioni sociali e la cultura del vicinato, che significa in fondo ricostruire tessuti connettivi di solidarietà senza lasciarsi neutralizzare da un potere che ha dato prova di quanto gli sia facile appropriarsene e soffocarla nei suoi tentacoli, riducendola a compassionevole spot pubblicitario a costo zero per bulimici consumatori atomizzati; trame di alleanze, di aiuto mutuo, cacciaviti per inceppare gli ingranaggi, zone da prendere e da difendere, perché vivere liberi dai padroni è possibile, ed è condizione perché si riconquisti dignità come comunità umana. “Fino a che la dignità non diventi consuetudine”, come risuona dalle piazze del Sudamerica in rivolta.
Praxis associata alla visionarietà che contraddistingue le eresie quel che scorre nelle pagine del libro, che in fondo è quello che Barbara porta con sé della sua storia politica, una pagina della storia scritta dagli oppressi che alzano la testa, non negoziabile, che sta nel sangue e nella carne, non una parentesi della vita. Che sta nella scrittura, densa, stratificata di significati, che ricerca, seleziona e cesella le parole con la cura e il sapere dell’artigiano.
Lettera a mio padre è un libro che si libera del peso di una tradizione marxista che ha mostrato le corde puntando sull’idea di sviluppo e di produttivismo. Lo sviluppo delle forze produttive – come indicano le esperienze storiche sperimentate, pur nella loro portata emancipatrice e nel loro significato storico – è stato incapace di spezzare il funzionamento del capitale. Ha usato, rovesciandoli, gli stessi meccanismi e la stessa logica del suo antagonista, ed è rimasto impigliato all’interno dell’idea occidentale di progresso propria del capitalismo. Proprio sul continuum della Storia è inciampata la concezione marxiana della Storia, non riuscendo a sottrarsene e permettendo che il capitale battesse il suo tempo.
Da questi limiti parte la riflessione di Barbara, che si inserisce e fa propria l’eterodossia benjaminiana, ripresa in tempi più recenti da Agamben. Ne riattiva l’idea di sospensione del flusso omogeneo e progressivo del tempo, sospensione in cui il kairos irrompe, l’arresto del tempo, l’attimo giusto sottratto al correre del progresso contro l’abbaglio della meta nel futuro lontano. La rivoluzione come “freno d’emergenza”, nelle parole di Benjamin, che ci ricorda come lo stato d’emergenza sia la regola. “Il tempo papà, il tempo”, scrive Barbara, perché non c’è cambiamento del mondo senza cambiamento del tempo. “Sparare agli orologi” come fecero i comunardi, ci ricorda la storia degli oppressi, e ci mostra la mano dell’operaio che inceppando la catena di montaggio fa saltare l’ordine e il tempo, perché il tempo della rottura è sempre tempo presente.
Comunismo comunitario, mutuo soccorso, economia comunitaria, autogoverno, autonomia basata sulla messa in comune, sono il patrimonio pratico-concettuale annidato nelle crepe della nostra storia – che emergono spazzolando la storia contropelo, come dice Benjamin, come ci racconta Barbara che va a recuperarle nella storia degli oppressi, dove si manifestano in pratiche contrarie alla compatibilità capitalistica, al tempo lineare in progresso – e che riecheggiano allo stesso modo nelle storie degli altri, schiacciate sotto una pretesa universalistica che è appartenuta anche alla tradizione marxista, da cui dovremmo affrancarci prendendo atto della loro irriducibilità.
Abbiamo il cacciavite per bloccare gli ingranaggi, ce lo mostrano nei quattro canti del pianeta gli “scarti”, quelli che anche noi abbiamo considerato niente più che “sopravvivenze”, come ci ha suggerito l’antropologia, scienza del colonialismo per eccellenza, nella sua pretesa di spiegare agli Altri chi essi fossero. C’è un sapere e ci sono ferramenta che hanno continuato ad essere tramandati, ai margini, quasi clandestinamente nella loro incompatibilità al capitale, come fuoco che cova sotto la cenere della centralità occidentale novecentesca. Ci indicano che si può ricreare comunità, risignificare appartenenza, compiti irrimandabili per combattere la devastazione capitalistica.
Prendere un cacciavite – riappropriazione di conoscenza e gesto – significa liberarsi dalla catena della deresponsabilizzazione che ci ha ridotti allo stato di minor età, ricacciare il principio della delega e della passività, e agire consapevolmente per costruire un tempo e un mondo autodeterminato, libero dai padroni. Risignificare, costruire un vocabolario comune che riagganci le parole all’esperienza, al terreno reale e alle relazioni interpersonali e collettive che le hanno create, grattandole dalle incrostazioni ideologiche e risignificandole della praxis che le sostanzia. Per una praxis politica che nel suo farsi possa risignificare comunismo. Il tempo è adesso.