di Cesare Battisti
“SOLO COLORO LA CUI UMANITA’ E’ STATA MESSA IN DUBBIO POSSONO INSEGNARE AGLI ALTRI L’UMANITA’”
Quello che mi ha subito incuriosito in questo carcere è stato il comune dire tra gli agenti, ma anche membri della direzione, che per ogni disgrazia c’è sempre lo zampino dei comunisti. All’inizio pensai che si trattasse di una battuta per prendere in giro me mimando Bolsonaro. Dovetti, però, ricredermi nel constatare che l’espressione dilagava e spesso non era diretta a me. Diventava così comunista qualunque detenuto rivendicasse un diritto, o anche il giornalista e il politico che alla televisione osasse parlare di tortura o che proponesse un progetto culturale. Il comico di queste flessioni antropologiche è che spesso lo sfortunato detenuto in questione confonde l’ideale comunista con l’ostia della comunione. Mentre per i suoi detrattori, sono comunisti tutti, salvo loro stessi e qualche leader a braccio teso. L’illusione che durante la mia lunga assenza dall’Italia la “minaccia” comunista si fosse ingigantita al punto da terrorizzare i bravi cittadini dell’ordine fu di breve durata. Non appena mi misero un televisore in cella, mi accorsi che questo era il comune modo di esprimersi di Meloni, Salvini e compari.
Un altro episodio curioso riguarda un tale che rimase una quindicina di giorni nel mio corridoio. Di solito, il reparto isolamento è tutto mio. Ma capita di tanto in tanto, questione di spazio, un ospite con cui scambiare due parole a distanza. Dalla voce sembrava piuttosto giovane. Da poco rientrato nel “bel paese” non feci caso all’accento straniero. Quando disse che era Togolese, mi colpì il dominio della nostra lingua. In seguito ebbi a notare anche un ottimo grado di educazione. In carcere si apprende subito ad essere discreti. Se uno ha voglia di raccontarsi, bene, ma non si chiede. Comunque non è facile farlo a gridi. Ma Charly, chiamiamolo così, si era convinto che io avessi la spiegazione a un fatto misterioso che gli era successo. Disse che l’avevano messo in isolamento perché voleva denunciare un abuso. Pensai alla solita prepotenza della direzione, invece mi sbagliavo. L’avevano isolato per proteggerlo dagli altri detenuti, il cui codice d’onore recita che solo gli infami ricorrono alla denuncia. Lui si sarebbe difeso dicendo che un codice simile esiste anche nel suo paese. “Ma che li sono gli stessi detenuti tutti uniti a far rispettare la giustizia. Mentre in Italia, che è un paese civilizzato ed ognuno pensa solo a se stesso, credevo che ricorrere alla legge fosse l’unica via. Non l’avessi mai detto…”. Dopo aver assistito allo sfogo di Charly, ho capito la ragione di un’altra espressione ricorrente tra gli Ispettori, quando si tratta di azzittire chi reclama un diritto, dicono ridacchiando: “Faccia denuncia, che aspetta a denunciare?”
Ma il carcere non è solo banalità e scherno. Qui i danni irreparabili sono provocati dall’attacco strisciante dell’Amministrazione Penitenziaria all’autostima e alla stabilità psichica del detenuto.
Così come si sfruttano i migranti nelle campagne e nelle fabbrichette al nero, sono sfruttati anche i detenuti. Fuori è il caporalato a garantire ai padroni mano d’opera schiava; in carcere è l’Amministrazione Penitenziaria a fornire al Ministero e alle loro imprese di fiducia lavoranti a 10 o 15 euro al giorno. Una parte dei quali sono oltretutto trattenuti per le spese giudiziarie. E come se non bastasse all’umiliazione di lavorare gratis o quasi, si aggiunge anche la beffa di offrirlo come fosse un privilegio. Giacché essere detenuto-schiavo non è da tutti, bisogna meritarselo con una sottomissione esemplare. O con la scorciatoia del 58 ter, cioè divenire un informatore della direzione. Vogliamo provare ad immaginare che classe di soggetto sociale restituirebbe questo sistema alla società?
Il carcere riproduce gli orrori del mondo esterno e li affila. Migranti, omosessuali, rom, categorie ritenute deboli sono le cavie della strategia d’intimidazione e disorientamento psicologico da applicare a tutta la popolazione detenuta. La scelta delle cavie, ovviamente, è favorita da un contesto pubblico che criminalizza queste persone. I diversi sono generalmente considerati colpevoli a priori, ciò facilita l’impunità agli abusi d’ogni sorta. Ma questa pratica serve anche a ricordare a tutti gli altri la momentanea fortuna che hanno di non essere trattati allo stesso modo. Una minaccia diretta: state attenti, potreste essere voi. Lo scopo è doppio. Da una parte riduce la fiducia di queste “categorie” cosiddette vulnerabili nei confronti delle autorità, così rendendole più facilmente criminalizzabili. Dall’altra spinge il resto della popolazione detenuta ad accrescere le differenze di trattamento nella speranza di garantirsi il privilegio della Normalità impossibile.
L’attacco all’orientamento e alla coscienza del detenuto è sistematico. Fa parte di un programma ben preciso, imposto dalla direzione e ciecamente eseguito dal personale delle differenti sfere di controllo interno, ma anche esterne all’istituto. Dal reparto sanitario all’area suppostamente trattamentale della pulizia penitenziaria alle istanze esterne di sorveglianza, tutti secondo le loro competenze si adoperano affinché l’abuso sia la norma, i diritti basilari sacrificati in nome della sicurezza. E se qualcuno non si allinea, viene estromesso dalla funzione. La falsità e il raggiro generalizzato non sono pratiche accidentali ma raccomandate. L’obiettivo è quello di tenere il recluso sempre sulla corda, impedirgli di farsi un punto fermo. Bisogna togliergli ogni certezza a cui aggrapparsi per resistere al bombardamento psicologico. La minaccia dell’aggressione fisica è costantemente presente. E’ in un contesto quotidiano di tensione, costantemente rinnovata, che il detenuto affronta pene irragionevolmente lunghe e sempre passibili di un aggravamento di regime. Confesso che mi ci è voluto più di un anno per vedere i meccanismi periferici che fanno della prigione un inferno. Il primo segnale di pericolo l’ho avuto allo scoprire che tutto il personale che opera nella prigione, senza distinzione di ruolo, mente con lo stesso automatismo con cui respira. Fino ad allora avevo pensato che questo costume fastidioso fosse dovuto a negligenza, qualche caso di maleducazione o, chissà mi dicevo, avrà avuto una ragione buona di dire una cosa per un’altra. Si usa dire che talvolta una buona bugia è meno grave di una cattiva verità. E’ stato proprio a causa di questo malinteso che ci ho messo tanto a capire quanta studiata malignità ci fosse in questa consuetudine.
Non si esce assolti dall’orrore generalizzato del sistema penitenziario appena mostrando al pubblico il teatro della Compagnia della Fortezza di Volterra, o le molteplici attività di reinserimento a Bollate. Due esempi di amministrazione che mostrano proprio ciò che dovrebbe essere la norma in tutte le carceri italiane. Nella quasi totalità delle quali, invece, perfino le scarse strutture apposite, fatte solo per aumentare la colata di cemento, sono volontariamente lasciate in disuso. La ragione sta nel volere di proposito che il detenuto sconti non solo condanne esorbitanti, ma sia anche rilegato al tempo morto che, quando non uccide, lo forgia nella fabbrica del crimine.
Rieducazione e reinserimento, due obiettivi ufficialmente soppiantati da infette parentesi di non vita, che per alcuni, parafrasando Michel Foucault, si aprono sulla culla per chiudersi sulla bara.