di Alessandro Barile
Bruno Latour, La sfida di Gaia, Meltemi, 2020, pp- 420, € 24,00.
Il nuovo ultimo libro di Bruno Latour riprende una serie di conferenze tenute nel 2013 attorno al tema della “religione naturale”. Nonostante gli anni trascorsi, possiamo dire con una buona dose di certezza che i problemi rimangono attuali, e in via di peggioramento. L’azione dell’uomo sulla natura sta cambiando e l’uomo e la natura. Questo il dato assodato. Da qui, però, iniziano le incognite, per nulla confinabili entro il dibattito tra scienziati ecologisti e lobby industriali. Latour prova a ricostruire una sorta di orizzonte di senso dei fatti e della posta in gioco, attraverso l’uso della sua strumentazione dialettica fortemente visionaria, dai tratti profetici a volte utili, altre volte affaticanti. Sono d’altronde i rischi e le virtù delle narrazioni ibride, e questa si colloca volontariamente al confine tra l’antropologia, la filosofia e la sociologia. Il risultato può essere spiazzante, come onestamente segnala nella prefazione Luca Mercalli, stordito – pare – da un linguaggio e da ragionamenti a volte eterei, altre mistici. C’è un fatto che però sembra dar ragione a Latour in questo suo tentativo forse naif: scienza e cultura sono andate separandosi nel corso del secondo Novecento, ma risultano oggi talmente intrecciate tra loro che senza il lavorio epistemologico delle scienze umane non è possibile cogliere l’essenza della nostra società: divisi a forza i loro destini, la scienza si è mutata rapidamente in tecnica (peggio, in tecnologia produttiva), la cultura in una sorta di sociologia dell’inessenziale. Occorre riavvicinare i due capi della scienza, ed è il condivisibile proposito di Latour.
La vicenda del Covid, d’altronde, lo ha dimostrato: ogni discorso anti-scientifico è destinato clamorosamente a contraddirsi; viceversa, ogni aristocrazia, sia essa fondata sulla ricchezza o sulla sapienza scientifica, confligge con la democrazia e con la logica dello sviluppo umano. La ripartizione dei poteri tra scienza e politica – è Latour che parla – è divenuta obsoleta. E finalmente, aggiungiamo. Secondo l’antropologo francese, è la questione del cambiamento climatico ad aver imposto questo moto di ritorno, costringendo ad avvicinare quel che per molti decenni aveva subito un vero e proprio distanziamento sociale. Da questo proposito, veniamo catapultati nel cuore del discorso, ovvero: «il contesto fisico, che i moderni avevano dato per scontato, il terreno su cui la loro storia si era sempre dispiegata, è divenuto instabile». Ma chi è il responsabile di questa instabilità? Il fisiologico mutamento geologico e naturale o l’azione dell’uomo? La realtà, lo diciamo subito, invita alla prudenza. È nota la metafora della terra come libro. Se la storia della terra fosse rappresentata da un libro, questo avrebbe circa 1.300 pagine. Di questo volume, la vicenda dell’uomo occuperebbe l’ultima parola. Non l’ultima pagina, né l’ultima riga: l’ultima parola di un testo che parla d’altro, che ha altre stazze, altre unità di misura, tanto nel tempo quanto nello spazio. Può quella singola unica parola influire e stravolgere tutto il libro? È un problema aperto, anche perché la presunta fine dell’Olocene e l’avvio dell’ancor più presunto “Antropocene” è datata ancor più vicino a noi: la “grande accelerazione” riguarda, tutt’al più, gli ultimi duecento anni di vita dell’uomo; per altri, invece, gli ultimi settant’anni. L’unità di misura umana non coincide con l’unità di misura geologica. Siamo dunque malati di catastrofismo? Anche in tal senso, occorre prudenza. E realismo.
L’attività umana è entrata in contraddizione con l’azione della natura. E siccome uomo e natura sono una unità e condividono lo stesso destino, la contraddizione non è tra due soggetti, ma è il conflitto che si dipana entro un ecosistema dato e chiuso. La contraddizione e quindi esiziale: non può esserci conflitto duraturo tra la natura e se stessa, pena il mutamento radicale, che svilupperà altre forme di adattamento, e non è detto che queste nuove forme prevedano sempre l’uomo come soggetto privilegiato. Anche in questo caso, però, le unità di misura dell’uomo e della Terra non corrispondono. Come giustamente rileva Latour, «se si trattasse davvero di una mutazione radicale, saremmo già tutti impegnati a modificare le basi della nostra esistenza da cime a fondo. Avremmo cominciato a cambiare la nostra alimentazione, il nostro habitat, i nostri mezzi di trasporto, le nostre tecniche di coltivazione, in sintesi il nostro modo di produzione». Lo avremmo dovuto fare, sottolinea poi l’autore, ma non averlo fatto ci pone di fronte al dilemma: questi mutamenti non appaiono in realtà radicali, il problema non sembra possedere quella repentinità catastrofica che pure viene data per assicurata da schiere di scienziati e intellettuali. Sbagliano dunque i profeti di sventura? Siamo di fronte ad un complottismo ingenuo, smentito continuamente dalla realtà? Neanche questo. Però per cogliere la verità che si cela dietro il mutamento climatico occorre posizionarsi, in primo luogo, con la scienza e contro il negazionismo; poi, riflettere sugli errori investigativi e comunicativi di questa stessa scienza, lasciata sola e disarmata a rappresentare il campo della critica.
Il punto di partenza è a monte: ristabilire quell’unità tra uomo e natura – dell’uomo come fatto della natura – senza il quale non può esserci prognosi possibile: «non si guarisce dalla condizione di appartenenza al mondo – dice Latour. Ma, a forza di cure, si può guarire dalla convinzione che noi non gli apparteniamo, che l’essenziale risiede altrove, che quel che accade al mondo non ci riguardi. […] Il nostro imperativo è dunque scoprire un percorso di cure – ma senza la pretesa, peraltro, di guarire in fretta». Tornando al tema della connessione tra scienze umane e naturali, verrebbe da consigliare la lettura di un autore poco ricordato: Sebastiano Timpanaro, nella sua attività non di filologo, in questo caso, ma di “materialista”: la natura ci condiziona, pensarci altro da essa non può che portare a quelle contraddizioni irrisolvibili per l’uomo che infine, sì, ne decideranno la sua crisi come civiltà. Natura, ovviamente, non in quanto “paesaggio” o sinonimo di “naturale”, ma collegato indissolubilmente a eventi che ci sopravanzano e ci determinano, che ci rendono quel che siamo e dai quali non possiamo sfuggire. La natura in quanto vincolo, un vincolo vissuto come esterno e che in realtà è interno all’uomo stesso.
L’agire dell’uomo, soprattutto negli ultimi secoli, ha condizionato questo rapporto. Lo ha condizionato in senso positivo – sottomettendo (molto) parzialmente le logiche della natura, ritagliandosi un destino difforme dal resto delle specie animali. È un dato di fatto che l’uomo muore di meno e più in là con l’età; che può riprodursi con facilità e conservare la sua specie sottraendola parzialmente al proprio ambiente; ma questo condizionamento sembra aver scavallato la fisiologica capacità di sopportazione dell’ecosistema, generando sintomi di affaticamento e momenti di rigetto. L’azione dell’uomo si è dunque posta, da tempo, in contraddizione con l’azione della natura, da cui dipende. Questo movimento è dunque l’essenza della storia moderna dell’umanità, ed è il dato di fatto che consiglia l’uso del termine Antropocene per descrivere un’era della Terra condizionata da un fattore privilegiato e che si impone su tutto il resto.
Una volta trovato il termine (forse) adeguato, la “natura” stessa delle scienze sociali impone lo smarcamento, il dubbio, il necessario sospetto verso acquisizioni altrui. Ecco nascere dunque alternative lessicali, tra le quali quella (orribile) di “capitalocene” (vedi Jason W. Moore nel suo Antropocene o Capitalocene). Non l’uomo in quanto tale, ammoniscono altre schiere di scienziati e polemisti, ma un dato modello produttivo è all’origine del rapporto critico tra uomo e natura. È il capitalismo il problema, non “l’uomo”, astrattamente inteso. Un motivo che viene ripreso e raffinato dallo stesso Latour: «parlare dell’”origine antropica” del riscaldamento climatico globale non ha alcun senso, in effetti, se si intende per “antropico” qualcosa come la “specie umana”. […] Le popolazioni amerindie nel cuore della foresta amazzonica non hanno nulla a che vedere con l’”origine antropica” del cambiamento climatico […] Lo stesso si può dire dell’operaia obbligata a fare lunghi tragitti in auto perché non ha potuto trovare un alloggio economico nei pressi della fabbrica in cui lavora: chi oserebbe farla vergognare delle sue emissioni di anidride carbonica?».
In queste avvertenze c’è molta verità, che va salvaguardata. Appiattire la questione sull’uomo in generale contribuisce ad allontanarci dalla verità e dalle soluzioni al problema stesso; inoltre, de-responsabilizza chi avrebbe, in questi decenni, potuto decidere e non l’ha fatto, confinando al destino ciò che non era per nessun motivo già iscritto nell’ordine inevitabile delle cose. Eppure, al fianco di queste ragioni, si intravede anche un limite interpretativo, che si riflette immediatamente sul carnet ideale delle soluzioni possibili.
L’azione evolutiva dell’uomo, soprattutto dalla “grande accelerazione” capitalistica in avanti – questa stessa accelerazione che è entrata in conflitto con la natura e quindi con l’uomo stesso – ha imposto un modello di sviluppo che ha inciso in forme vieppiù degenerate sull’ambiente vitale dell’uomo. Ma questo fatto appare, visto in una prospettiva storica, come inevitabile fase di passaggio verso la modernità, una modernità industrializzata e per nulla riferibile unicamente al problema dell’inquinamento. Detto altrimenti, quando nel corso del Novecento si sono andate affermando culture politiche alternative al capitalismo, quando su metà della popolazione mondiale governavano poteri socialisti, il processo di industrializzazione altamente inquinante è andato tranquillamente avanti, molte volte in forme peggiori dell’avversario capitalista. Se insomma restringessimo l’evoluzione umana ad un fatto capitalistico commetteremmo un errore di prospettiva, smentito dalla storia globale degli ultimi due secoli, e soprattutto del Novecento. È la modernità che, piuttosto, è dovuta passare attraverso fasi contraddittorie di sviluppo, fasi che si sono dimostrate necessarie (o inevitabili) anche per sistemi non capitalistici. Il capitalismo inquina e non potrebbe fare altrimenti, ma da qui non possiamo giungere alla conclusione che “solo” il capitalismo inquina o che il progredire umano, fondato anche sull’industrializzazione, sia un fatto intrinseco al capitalismo stesso. Ecco perché il concetto di Antropocene funziona, pur con alcuni dubbi, ma quello di “capitalocene” pone molti più problemi gnoseologici.
Se però questa è la diagnosi, la prospettiva si ribalta in riferimento alle possibili soluzioni. Per l’autore, tornando ai motivi iniziali, la soluzione passa inevitabilmente per la riconciliazione tra momento della cultura e ricerca scientifica: «la distinzione tra scienze sociali e scienze naturali è totalmente confusa. Né la natura né la società possono fare il loro ingresso, intatti, nell’Antropocene, in attesa di essere serenamente “riconciliati”». Ancor di più, a riavvicinarsi fino ad intrecciare nuovamente i propri percorsi dovrebbero essere, dovranno essere, scienza e politica: «sono stati compiuti molti sforzi in passato per distinguere l’ecologia scientifica dall’ecologia politica, assumendo che la prima si occupasse solo del “mondo naturale” e la seconda delle conseguenze morali, ideologiche, politiche che bisognerebbe trarre o meno dalla prima». Una nuova scienza morale, che sia già direttamente politica, che non solo consigli, ma sappia imporre rapporti di forze in grado di decidere, è l’unica possibile soluzione alla crisi ecologica. L’ecologia – intendendo con tale termine non solo l’attenzione all’ambiente “naturale”, ma soprattutto verso quello umano – non può che essere direttamente una posizione politica radicale e, oltretutto, anticapitalistica.
In tal senso, se non si può sovrapporre l’evoluzione dell’uomo con l’evoluzione del capitalismo, difficilmente potrà essere il capitalismo il sistema-modello in grado di risolvere la contraddizione ecologica. Un sistema fondato sul consumo continuo di terra, suolo, esseri viventi e risorse naturali non può auto-disporsi per controllare (e limitare) questo stesso consumo, pena la sua rovina. La soluzione non saranno le profezie di decrescita, pure accarezzate da Latour, o improbabili salti all’indietro pre-moderni, come ancora suggerisce l’autore senza avvertire le multiformi antinomie generate dall’approccio primitivistico (dentro un eclettico rassemblement di Hegel e Nietzsche che ricorre in tutto il testo). Quale sarà la soluzione, non sta a noi deciderlo. Ci sembra però sicuro che questa non possa che passare da una rinnovata riflessione anticapitalistica, superando in avanti quei limiti che il socialismo del XX secolo non aveva saputo risolvere, anche perché parte di un mondo “antico” disegnato su altre grandezze e problematiche. I problemi del XXI secolo costringono ad escogitare soluzioni partorite dal XXI secolo. Ma se l’uomo è costretto a porsi solo quei problemi per cui ha già, in sé, la soluzione, allora una qualche speranza è ancora possibile coltivarla. «Avremmo dovuto agire già quarant’anni fa», ricorda Latour, ma non è detto che oggi sia tropo tardi per fare qualcosa. Non è mai troppo tardi, d’altronde.