di Chiara Meistro e Franco Pezzini
(Qui la prima puntata in margine all’esame del volume Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019).
Fin qui sulla vertigine dell’opera in esame. Le peculiarità delle Carceri non si esauriscono però nella struttura architettonica per cui Piranesi è diventato tanto noto: se esaminiamo con attenzione il contenuto delle tavole, notiamo infatti qualcos’altro. Qualcosa che richiama sì al “dilettoso orrore”, ma in modo persino più macabro. Infatti, le funi e le macchine notate da De Quincey come evocanti “impiego di enorme forza e superamento di resistenza” – come in una versione fantastica della rivoluzione industriale – sono in realtà finalizzate a usi assai più sinistri. Già nella Carcere oscura del 1743, la didascalia identificava un’“Antenna pel suplizio de’ malfatori”: e nelle Carceri quel che l’occhio non coglie facilmente – ma qualcosa, a studiarle con calma, emerge dal chiaroscuro – è rivelato proprio dalle didascalie, per le quali rimando al volume in esame. È anzi possibile notare l’aumento tra la prima e la seconda serie di strumenti di supplizio e immagini di prigionieri torturati: e se le immagini hanno ben poco a che vedere con le prigioni settecentesche e rinviano piuttosto a quelle dell’antica Roma tanto cara all’artista, si tratta di invenzioni, cioè di una rilettura fantastica. Per la disamina delle tavole presentate dall’edizione in esame ci appoggiamo all’analisi di Malcolm Campbell, Piranesi and Innovation in Eighteenth-Century Roman Printmaking (in Art in Rome in the Eighteenth Century, a cura di Edgar Peters Bowron e Joseph J. Rishel, Philadelphia Museum of Art / Merrell 2000).
La tavola I di frontespizio, dove vediamo anzitutto una fantasia architettonica, mostra nell’edizione definitiva un “Interno di prigione con scale e passerelle, strumenti di tortura, catene; in primo piano, in basso, una ruota ad aculei; in alto una figura urlante in ceppi”. A parte quest’ultima – sorta di versione carceraria dell’Urlo di Munch con tutta la surrealtà di tale posizione appollaiata –, la ruota ad aculei che sembra emergere dall’inventiva di qualche cattivo re ariostesco sarebbe pronta a straziare le vittime o forse a impalarle (gli interpreti sono perplessi), cioè si tratterebbe di un’immagine del tutto fantasiosa delle macchine da supplizio. Certo, può far rammentare alcuni meccanismi rotanti inventati per la corte di Nerone o le stesse deliranti modalità di esecuzione che la fantasia dell’imperatore avrebbe partorito: ma tutto passa al filtro di una fantasia quasi onirica, dove l’enormità degli ambienti e delle stesse macchine è in diretto rapporto con la monumentalità delle rovine nelle tavole antichistiche.
Nella II, si specifica che “due carnefici torturano un condannato” ed è forse l’unica tanto esplicita, nel senso che altrove si tratta di suggestioni sfumate e più di frequente l’immagine dello strumento di supplizio prende il posto della scena in atto. Non a caso, questa tavola – come la V – viene aggiunta soltanto nella seconda edizione: e si è osservato che in entrambe le incisioni le figure più piccole recano abiti settecenteschi, con l’aria perplessa dei turisti inglesi a zonzo tra le rovine di Roma. Alla dimensione cronologica dei ruderi antichi devono invece appartenere torturato e torturatori, raffigurati come più grandi: non tanto quali statue ma – si è ricostruito, con attento scavo filologico – come una sorta di visione o tableau vivant dei supplizi fatti infliggere da Nerone tramite Tigellino ad alcuni oppositori. Un teatro, insomma, della crudeltà, con tutta la dimensione di messa in scena che il concetto suggerisce (compresa la scelta del tiranno paradigmatico, oltretutto famoso persecutore di cristiani): ed è inevitabile ripensare alle dimensioni di teatro paludato di storia offerte dal gotico e dallo stesso Sade.
Continuando l’esame delle tavole a partire dalle didascalie, troviamo nella III, “a sinistra, a mo’ di quinta, una grande forca” (noi l’avremmo identificata con un più innocuo supporto per carrucola, ma un concetto non esclude l’altro); nella IV, “in basso, strumenti di tortura” (ruota da supplizio, pali appuntiti…). Per quanto riguarda invece le tavole V-VII – la V, come già detto, viene aggiunta nella seconda edizione – le didascalie citano solo corde, catene e pulegge: ma, studiandole con un po’ di attenzione, è possibile riconoscere raffigurazioni di prigionieri pronti ad bestias (ci sono anche leoni: V), un fuoco dall’aria molto sinistra (per rogo o abbruciature?: VI) e macchine di tortura (VII).
Le didascalie delle tavole VIII e IX non esplicitano particolari minacciosi, e la prima mostra in effetti enormi panoplie in stile Castello d’Otranto; ma la seconda, sia per i dettagli un po’ sfuggenti in primo piano, sia per l’immane ruota che occupa quasi tutta la scena, non lascia troppo tranquilli. In realtà, non sembra neppure che la struttura possa definirsi propriamente ruota, pare più una cornice circolare o l’angosciosa, titanica versione carceraria di una sfera armillare, con travi curve e ponteggi su cui si affaccendano figure.
Il tema dei prigionieri torna però nella tavola X, con “un gruppo di condannati legati sopra una grande mensola sporgente a sinistra. A destra grosse catene”: a parte la strana figura urlante appollaiata nel frontespizio, questa tavola è l’unica che già nella prima serie mostri dei prigionieri. La didascalia della tavola XI presenta solo una menzione a cordami, ma la XII evoca tra il resto “strumenti di tortura” e la XIII addita “appesa in alto una ruota ad aculei” (a parte “una lanterna pendente da una forca” e varie amenità sparse in giro come arredi). Di nuovo la tavola XIV cita solo i cordami, ma guardando bene si nota appesa a una trave una gabbia per sospendervi i prigionieri: in sostanza si tratterebbe di un’“Antenna pel suplizio de’ malfatori”, come in quella precedentemente citata. La XV non sembra mostrare dettagli disturbanti.
Un discorso a parte va poi fatta sull’ultima, la tavola XVI, che ostenta una “stele con due teste entro nicchie e la scritta ‘Impietati et malis artibus’” – ma in realtà le scritte sono varie, e sia pure con qualche libertà Piranesi le mutua da autori latini. Qui le attrezzature da carcere ci sono, ma sembrano abbandonate, e le persone presenti appaiono piuttosto dei visitatori: si è discusso a lungo sul significato e, quanto ai dettagli, i pareri sono variegati, ma una linea interpretativa di fondo sembra ormai consolidata. Se anche grazie alle due tavole inserite nella seconda edizione – in particolare quella con la scena di tortura – si evocava la barbarie della tirannide neroniana, qui sembra invece esaltata la severa e austera giustizia della res publica “sana” in termini morali, politici (si veda la citazione da Livio su una colonna, che rinvia alla scelta sotto Anco Marzio di edificare la prima prigione di Roma “ad terrorem increscentis audaciae”) ed estetici (l’enfasi anti-greca). Altre frasi in latino più o meno riconducibili a Livio richiamano agli episodi dell’Orazio uccisore della sorella che aveva visto piangere per uno dei Curiazi, e della giustizia rigorosa di Bruto liberatore dai Tarquini contro i suoi stessi figli cospiranti per il ritorno del re tiranno (le teste nelle nicchie). Una specie di lieto fine della serie, insomma, ma fino a un certo punto: i richiami a questo tipo di giustizia inflessibile evocano nel complesso un messaggio altamente repressivo, con cui Piranesi affida le Carceri ai posteri.
Lasciando alla critica specializzata l’indagine su un senso globale di queste tavole quanto a motivazioni dell’artista (anche mutate, eventualmente, dalla prima alla seconda versione), di significati dichiarati o meno, e di pulsioni legate alla sua fantasia, resta il fatto che le Carceri entrano in circolo nel mondo culturale recandovi un impatto impressionante. L’attenzione si sofferma soprattutto, come abbiamo visto, sulle febbri dell’immaginario architettonico; tuttavia, almeno in subordine, emerge l’altro aspetto, ovvero la disturbante festa dei supplizi. Si aprono così tre fronti di riflessione, di cui ci limitiamo a fornire alcune note.
Il primo riguarda più strettamente il linguaggio artistico e ritorna in particolare sul sentimento del sublime, a cui si è già fatto cenno in precedenza a proposito dell’influenza che le Carceri esercitarono su Walpole e sulle sue descrizioni degli interni de Il castello d’Otranto. Lo storico dell’arte Giuliano Briganti, nel suo volume del 1977 dal titolo quanto mai eloquente I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, afferma: “è nell’opera di Piranesi che si manifesta la prima concreta attuazione artistica del Sublime, a cominciare dalle Carceri”. Nell’analisi che ne segue, Briganti mette in luce, con una prosa dalla grande forza immaginifica di cui vale la pena riportare alcuni stralci, le diverse sfaccettature che l’estetica del sublime assume nelle due serie di acqueforti. Ne rileva in primis un aspetto più severo dove il terrore, con la messa in scena di condannati, carnefici e strumenti di tortura, funge da ammonimento, da exemplum virtutis, evocando “la celebrazione della lex romana e dell’idea repubblicana di giustizia” e, più in generale, della “grandezza morale che emana dalla «magnificenza» di Roma”. Insomma, come appena ricordato, tutti quei valori che sembrano essere veicolati e messi in risalto dall’emblematica e conclusiva tavola XVI.
Tuttavia – sostiene Briganti –, l’efficacia di questo “terrore che ammonisce” può attivarsi soltanto attraverso “la distorsione della realtà, l’irrazionale stravolgimento della scala normativa delle proporzioni, il ricorso totale alla funzione rievocativa della fantasia”. Ed ecco irrompere un’altra valenza del sublime, più onirica e cupa, in linea con il contenuto dell’Enquiry di Burke, che si traduce “nella grandiosità vertiginosa, nella fantastica complicazione prospettica e nell’ancor più fantastico stravolgimento architettonico e spaziale delle Carceri, così come nel loro aspetto minaccioso e tenebroso”. Piranesi gioca sulle ambiguità strutturali e su prospettive irreali, generando nello spettatore un disorientamento profondo, angoscioso – che ci riporta all’aspetto più famoso e apprezzato delle sue acqueforti.
In questi spazi immensi, destabilizzanti, a tratti labirintici e potenzialmente infiniti, si aggiunge infine un’altra componente, ovvero “quell’effetto di oscurità che, secondo il Burke, era fondamentale per ottenere la sublimità nell’architettura”, e che interessa in particolar modo la seconda versione delle Carceri, dove l’uso del chiaroscuro viene prepotentemente accentuato.
Si rilevano insomma tre declinazioni di grandiosità: una morale, l’altra spaziale e infine una grandiosità di tenebre, che insieme contribuiscono a delineare nelle acqueforti di Piranesi una predominanza del sublime terrifico. Tuttavia, osservando la tavola IV, ci pare di poter cogliere un’ulteriore suggestione, soprattutto per l’esemplare nel primo stato. Nel fregio scolpito che sovrasta l’arcata, col suo susseguirsi di personaggi che sembrano afferire al mondo bucolico e mitologico, sembra trovare eco il sublime “chiaro” e altrettanto grandioso vagheggiato da Winckelmann di fronte alle vestigia dell’antichità classica. È pur vero che anche qui l’oscurità incombe: i conci in ombra dell’apertura in primo piano diventano un’inquietante cornice per le strutture architettoniche più interne; inoltre, i cordami neri tagliano la continuità del bassorilievo, quasi come metaforici sfregi. Eppure, questa rievocazione dell’antico, per quanto pressata da zone buie poco rassicuranti e, nella seconda versione, minacciata nella sua serena grandezza dalla sinistra presenza di spaventose macchine di tortura, riesce comunque a non essere fagocitata del tutto dal “dilettoso orrore”, conservando un suo spazio luminoso.
Il distacco dalle idee di Winckelmann diventa quindi maggiormente evidente nella seconda edizione delle Carceri; tuttavia, per quanto Burke affermi nell’Enquiry che “tutti gli edifici calcolati in modo da suscitare l’idea del Sublime dovrebbero essere oscuri e tetri”, è altrettanto vero che l’intensità delle tenebre risulta tanto più dominante quanto più deve contrapporsi all’incedere della luce.
Il che traghetta a una seconda riflessione. Osserva Praz che “Con le Carceri il Piranesi è il solo deg’italiani ad affacciarsi sull’abisso del caos – quel caos che di più in più diventerà appannaggio del mondo moderno”. Verissimo, ma in questo caso si tratta di un caos nel segno non dell’anarchia, ma della repressione autoritaria, “tirannica” o meno. Badiamo, la forza critica delle Carceri sta già nella struttura architettonica evocata. Se, come osserva Yourcenar, la vertigine di fronte alle tavole è “provocata non dalla mancanza di misure (perché mai Piranesi fu più geometra), ma dalla molteplicità di calcoli che si sanno esatti e che conducono a proporzioni che si sanno sbagliate”, l’ordine che ne emerge è nel segno dell’assurdo e della perdita, in un mondo privo di centro e angosciosamente, indefinitamente espandibile: un ordine come labirinto privo d’uscita, come affaccendarsi brulicante di omini dalle soggettività incomprensibili, un’immagine insomma – forse persino al di là di quanto l’autore possa concepire con lucidità – profondamente trasgressiva.
Tuttavia, il problema si ripropone con l’oggetto, con quei supplizi. Intendiamoci, tutta l’arte della prima età moderna gronda simile gore, e si può immaginare che gli osservatori delle tavole lo notino fino a un certo punto – tanto più che il tipo di evocazione dice e non dice, mostra e nasconde, denuncia asciuttamente nelle didascalie e infratta coi chiaroscuri. Ma è chiaro che i riferimenti al supplizio nelle incisioni di Piranesi sono qualcosa di molto diverso dal “macabro con santi” ostentato con compiacimento nelle chiese, o dagli infiniti orrori presentati nelle stampe correnti d’epoca. Qui c’è una monumentalità laica, prekafkiana delle scene, e oltretutto una serialità. Piranesi conosce certamente la ferocia della giustizia veneziana, ha potuto senz’altro vederla amministrare (si pensi solo agli omosessuali impiccati in Piazzetta) ed è al corrente almeno in parte di ciò che avviene nel chiuso di quelle carceri terribili. Altra giustizia la vede a Roma, gestita dai boia del papa re, col ricordo oltretutto (appannato ma non certo rimosso) dell’epoca “d’oro” dell’Inquisizione: non c’è bisogno di riesumare Nerone, anche se ovviamente il suo mondo lontano si lega a stretto filo al resto della produzione piranesiana sulle antichità dell’Urbe. In ogni caso, qualunque significato – di presa d’atto o di critica velata dell’esistente – si attribuisca al livello soggettivo dell’artista, quel che salta agli occhi è il teatro di un’istanza repressiva forse mai resa nell’arte con altrettanta forza. Rendendo infinito il labirinto, crudeli i particolari, stranianti quelle tavole dove i distinguo tra supplizi in nome di una o dell’altra giustizia non sono immediatamente percepibili allo spettatore (che, anche informato sul senso della tavola XVI, non si sente troppo sollevato), e a denunciare tra opposte e angosciate vertigini “che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, Piranesi fa delle Carceri l’immagine mitizzata, archetipica del rapporto del mondo nuovo con la repressione.
Anche se è improbabile che possa desiderarlo, Piranesi diventa così un ideale “precursore della Rivoluzione con quell’ossessione di colossali bastiglie”, aiutando a vederne l’intollerabile mostruosità. Del resto, nello stesso 1764 del Castello d’Otranto, Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, che nel 1766 finisce all’Indice per la distinzione tra reato e peccato: è chiaro che discorsi improntati a una dimensione – diremmo oggi – di innocuo umanitarismo presentano al tempo una carica provocatoria diversa e considerata sovversiva. Ma al di là dello specifico di quella stagione storica, nella chiave monumentale, esagerata e ambigua di una provocazione nata come estetica (il “Capriccio”) e poi forse evoluta in altro, le Carceri pongono in scena in termini mitici – cioè esemplari, di macchina per pensare – il teatro degli orrori autoritari di tutte le possibili realtà storiche, e in particolare di quell’età moderna che lì sta nascendo. Denunciandoli come roba vecchia, anticaglia tirannica, un Mondo Vecchio che però insidia e corrode qualunque Mondo Nuovo: dove quella vecchiezza è più una connotazione intrinseca che un dato cronologico – e i caratteri retrivi, retroflessi dell’istanza repressiva riemergeranno e riemergono a tutt’oggi di continuo. In questo senso, le antiquarie Carceri di Piranesi inscenano il teatro della sopravvivenza nell’oggi di un certo tipo di istanza sanzionatoria, dei suoi piccoli uomini, del labirinto sociale attraverso cui si perpetua, nonché una sfida alle società via via succedute a verificare lì i propri paradigmi punitivi. Perché non accada che, come di fronte alla tavola XVI, si fatichi a tirare un sospiro di sollievo.
Fin qui sulla provocazione artistica e su quella ideale, potenzialmente giuridica, politica. Ma c’è un terzo fronte: lo scavo nel passato evocato dal mix di suggestioni delle Carceri è anche lo scavo in dimensioni labirintiche dell’interiorità. Già dice qualcosa che Piranesi lo avvii come un Capriccio: non tanto quelli dei decori rococò (del resto si è già visto come tratta le sue Grottesche) quanto altri più algidi, i terribili capricci della tradizione libertina. All’apollineo di Winckelmann, Piranesi oppone un dionisiaco rabbioso, estatico ma aggredito dalla malinconia libertina (quella che l’ottocento riverserà sui vampiri letterari): il vedo/non vedo dei supplizi da lui posti in scena in un apparato grandioso finisce con l’usare i chiaroscuri come uno spioncino. Se nei coevi mondi novi – macchine ottiche di intrattenimento popolare – proprio su uno spioncino si poneva l’occhio, uno solo, in quella ben diversa macchina ottica a scene mutanti che sono le Carceri, Piranesi permette di puntare idealmente il “solo” occhio ciclopico dello spettatore sul Mondo Vecchio dei supplizi in scena.
In un’incisione allegorica che nel 1764 Piranesi trae da un disegno del Guercino, al centro si può riconoscere una tavolozza da pittore con la scritta tra i colori: “col sporcar si trova” (cfr. Francesco Dal Co, “Piranesi e la malinconia”, in La Rivista di Engramma, gennaio 2001, n. 5). Nel dialogo tra Didascalo e Protopiro, gli interlocutori della sua principale opera teorica, il Parere sull’architettura (1765), si comprende cosa intenda: lo sporco è anzitutto il risultato dell’azione corrosiva del tempo e per afferrarne l’essenza chi inventa deve sporcare, usare l’impurità e giocarvi, avventurarsi con audacia tra “ornamenti tutti stranieri” per trovare correttivi. Sporca e impura è appunto l’architettura, dove la magnificenza si trova accompagnata costantemente da un polveroso decadere, e sta all’architetto tentare di mitigarlo confrontandosi di continuo con esso (come hanno fatto, secondo lui, i romani con la magnificenza ormai corrotta e sporca dell’arte greca). Qualcosa del genere riguarda il torbido delle Carceri, uno sporco di chiaroscuri fatto mordere alla lastra di rame dallo sguardo ciclope dell’artista melanconico – uno sguardo ciclope che è anche quello di un’epoca che va scoprendosi moderna, tra diversi tipi di Lumi e d’illuminazioni, talvolta molto livide.
Così Piranesi inserisce quei corpi prigionieri in un carcere sporco di secoli e di magnificente grandezza; osserva con freddezza quelle formiche umane torturate o torturanti, senza prender parte ai loro drammi sul palcoscenico di un mondo dove regnano il caso e l’assurdo (merita ricordare quell’amico di Walpole, George Augustus Selwyn, 1719-1791, nato solo un anno prima di Piranesi e appassionato cultore di scene di morte, sui patiboli e non solo); connette i supplizi ad attrezzature d’invenzione dall’ingombro quasi steampunk, a un passo dal corpo-macchina dei libertini e prefigurando le macchine di Sade. Se la vita è metafora del tempo, anch’essa e il corpo stesso tendono alla corruzione, allo sporco: e l’invenzione ha per Piranesi il posto che l’immaginazione ha per Sade. Il chiaroscuro a quel punto non è solo un effetto d’acquaforte, ma forse qualcosa nella morsa acida dell’animo, uno spioncino che gioca col suo sporco. Di Piranesi, con tutti i suoi misteri, e in fondo del mondo moderno.