di Gioacchino Toni
Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00
Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.
Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a pieni giri, il libro viene tradotto in italiano nei primi anni Ottanta incontrando una scena punk nazionale vitale e, almeno in alcuni suoi settori, attiva in ambito antagonista.
Nell’edizione edita da Meltemi nel 2017 tradotta da Pierluigi Tazzi e revisionata da Massimiliano Guareschi, scrive a tal proposito quest’ultimo nell’introduzione al volume:
In quel frangente, Sottocultura forniva preziose chiavi di lettura per decifrare le coordinate di un protagonismo non più inquadrabile nelle forme consuete della militanza politica. Anche nell’autocomprensione delle stesse sottoculture, nonostante il rifiuto di principio che le componenti più oltranziste potevano opporre a qualsiasi sguardo esterno o alle oggettivazioni del sapere accademico, il libro svolse un ruolo non trascurabile.1
L’uscita del libro nei primi anni Ottanta ha rappresentato probabilmente anche una delle prime occasioni per gli studiosi italiani di familiarizzare con i cultural studies successivi alla
assunzione da parte di Stuart Hall della direzione del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham e il riorientamento della precedente vocazione prevalentemente storico-letteraria in direzione sia di una focalizzazione su tematiche quali la resistenza attraverso i rituali, la guerriglia semiotica messa in scena dai comportamenti giovanili, la risignificazione dal basso dei consumi, l’interazione fra pubblico e media aggirando le ipoteche delle letture unidirezionali in termini di meccanico travaso di contenuti dall’emittente al destinatario o di moralistica stigmatizzazione dell’abbrutimento delle masse nell’era del consumismo e della massificazione.2
Si può riconoscere al volume di Hebdige il merito di aver indotto in questo paese non solo gli ambienti accademici ma anche settori di quell’universo underground da lui chiamato in causa a guardare con occhi nuovi al mondo delle sottoculture giovanili e ad ampliare l’interesse verso gli studi sulle culture subalterne portati avanti da tempo da autori come Ernesto De Martino e, prima ancora, dallo stesso Antonio Gramsci.
A questi due ultimi studiosi, De Martino e Gramsci, è debitore, come ha modo di ribadire egli stesso nel volume, lo spagnolo Carles Feixa che, con il suo Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili (DeriveApprodi 2020), ha recentemente inaugurato Anomalie Urbane di DeriveApprodi, collana intenzionata a proporre tanto contributi originali che traduzioni e riedizioni di classici dedicati alle culture metropolitiane prendendone in esame, sia da un punto di vista teorico che empirico, linguaggi, spazi e condotte conflittuali.
Lontano dai pregiudizi e dalle etichettature di comodo della politica istituzionale e dei media, la collana, curata da Luca Benvenga, intende dunque affrontare le culture giovanili, siano esse sub o contro-culturali, nelle loro contraddizioni, nei loro splendori e nelle loro miserie. Ad essere indagati sono pertanto, tra gli altri, i processi di soggettivazione prodotti da tali realtà, il ricorso alla violenza e alla mascolinità come strumenti di affermazione del sé sociale, le modalità di convivenza cooperanti e solidali, le questioni etniche, di genere e di classe, la dimensione popolare degli sport nelle comunità…
Il volume di Feixa, docente di antropologia sociale presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona, raccoglie cinque saggi sulle culture giovanili stesi negli ultimi decenni in cui vengono riportati i risultati di un’analisi sul campo relativa alle tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani del decennio successivo, alle bandas latinas della prima metà degli anni Duemila e alle bande transnazionali come “agenti di mediazione” tra Europa, Nordafrica e America.
Nell’impossibilità di prendere in rassegna tutta la casistica affrontata dal libro, in questo scritto ci si limiterà a tratteggiare le differenze principali tra due tipi di bande giovanili: le tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani degli anni Novanta.
Sin dalla sua prima immersione all’interno delle bande giovanili spagnole, lo studioso nota come alcuni interlocutori rispondessero a
identità etniche e di classe precedenti (i pijos, giovani della classe media, in genere studenti, ossessionati dal consumismo e dalla moda, si contrapponevano ai golfos, immigrati della periferia, generalmente disoccupati). Altre classificazioni riconducevano a modelli più universali: reminiscenze del passato (hippies), revivals (mods) e nuove creazioni subculturali (punk, posmodernos). Modelli provenienti da altri tempi e luoghi (la Gran Bretagna degli anni Sessanta e Settanta) e non introiettati in maniera passiva o puramente esteriore, si adattavano a nuove funzioni e bisogni e si mescolavano con le influenze autoctone (la cultura gitana e il nazionalismo catalano).3
Nelle sue prime indagini sul campo nella Spagna degli anni Ottanta, Feixa nota come curiosamente le tribù urbane tendono a essere indicate come fenomeno generazionale nonostante risultino composte da un esiguo numero di giovani e come siano lette come metafora della crisi, un sorta di rielaborazione simbolica del disincanto politico postfranchista, una risposta alla mancanza di lavoro e di futuro per i giovani.
Se in Spagna per i giovani della generazione del dopoguerra lo svago tende a ridursi, salvo qualche festa privata, alle passeggiate lungo la via principale della città, a partire dalla metà degli anni Sessanta le nascenti sale da ballo offrono ai giovani un luogo alternativo in cui impiegare il tempo libero. È però con la morte di Franco, nel 1975, che la gioventù inizia davvero a ritagliarsi uno spazio proprio, regolato da leggi e valori altri, all’interno delle città.
La prima analisi proposta dallo studioso riguarda il formarsi delle tribù giovanili nella città catalana di Lleida ove, nel corso degli anni Ottanta, nella parte antica della città, nella cosiddetta “zona dei vini”, diversi vecchi bar a buon mercato, in cui è possibile ascoltare musica, vestire informalmente e fumare hashish liberamente, si trasformano in uno spazio giovanile frequentato dalle diverse tribù, ognuna connotata dal suo particolare stile. Quim, un interlocutore catalano diciottenne, così spiega la nascita e la diffusione delle bande giovanili: «Senza lavoro, le persone non sono state in grado di adattarsi alla società e hanno creato un gruppo per appartenere a un qualche tipo di società»4.
Il processo di massificazione, sostiene Feixa, ha poi indotto alcuni gruppi giovanili ad abbandonando la “zona dei vini” per differenziarsi. Ad esempio, i progres, studenti di sinistra con influenze controculturali, si spostano nei locali della zona bassa della città, ove si ascolta musica jazz, rock progressivo e cantautori catalani, mentre i pijos optano per la parte borghese della città, ove frequentano locali più costosi caratterizzati da un’estetica più commerciale, un abbigliamento firmato e musica da discoteca. In altre parti della città vengono ricavati da vecchi magazzini grandi locali, detti posmodernos, contraddistinti da un’estetica punk, rockers e musica hard rock. Successivamente, la stessa “zona dei vini” inizia a differenziare nettamente i locali per rispondere a comunità specifiche: hardcores, heavies, rockabillies, acratas, femministe ecc.
Con l’emergere delle tribù urbane, a Lleida si ha una settorializzazione degli spazi urbani dedicati allo svago giovanile. In molti casi, nota Feixa, non si tratta di gruppi con base territoriale, organizzati sul modello della banda; lo spazio di aggregazione tende a concentrarsi nel centro della città ed è lì che i gruppi si ritrovano indipendentemente dalla provenienza territoriale dei membri.
Ogni ragazzo può fare proprio uno stile in modo più o meno radicale, identificarsi in successione con stili diversi o adottarne solo parte degli ornamenti esteriori, o più semplicemente condividere l’amicizia con i componenti del gruppo. Di fatto, la tribù esiste esclusivamente come “mappa mentale” per consentire di orientarsi e interagire quotidianamente con gli altri giovani. I “travestimenti” di solito non vengono indossati a scuola o al lavoro, ma sono prerogativa specifica del fine settimana, quando ci si reca nella zona dei vini al sopraggiungere della sera.5
Nel corso del tempo si sono dati importanti cambiamenti in seno alle diverse tribù e ai loro stili, con non irrilevanti processi di inversione simbolica, come ad esempio l’appropriazione dello stile skinhead, tradizionalmente proprio di frange di proletariato ribelle, da parte di ragazzini di estrazione borghese, spesso di estrema destra e razzisti. Più in generale, sostiene lo studioso, «gli stili maggiormente connessi con la crisi e che hanno come protagonisti giovani operai (punks, heavies) hanno lasciato il posto ad altri stili che, sebbene di origine operaia, riconducono ad altre epoche (gli anni Sessanta) e sono ripresi dai giovani della classe media (mods, skinheads), facendosi interpreti di nuove metafore sociali (il consumismo, il razzismo)»6.
I chavos banda degli anni Novanta presenti in diverse città messicane sono invece composti da giovani disoccupati o attivi nell’economia sommersa dell’ambiente urbano-popolare, tendenzialmente stanziali nei rispettivi quartieri e appassionati di musica rock che si oppongono ai chavos fresa, giovani della classe media, spesso studenti, ossessionati dalla moda e dal consumismo che fanno delle discoteche il loro punt di ritrovo.
Sin dal principio degli anni Ottanta, lo stile chavos banda tende a divenire egemonico tra larghi strati di popolazione giovanile sia maschile che femminile permettendo alla marginalità di fare irruzione sulla scena urbana. Lo studioso, oltre a tratteggiare le esperienze storiche da cui sono derivati i chavos banda, ne indaga l’identità generazionale, etnica, di classe e di genere.
Confrontando i chavos banda messicani con le tribus urbanas spagnole, lo Feixa nota come, al di là degli elementi affini, mentre i primi si sono trasformati in un’esperienza di massa duratura nell’ambiente urbano-popolare, nel secondo caso si è trattato di un fenomeno decisamente minoritario e legato a una particolare congiuntura.
Mentre la banda è una struttura collettiva sufficientemente stabile, con capi e rituali costanti che abbraccia gran parte della vita quotidiana e del percorso di vitale dei chavos, le tribù urbane tendono a essere raggruppamenti instabili, solo occasionalmente di massa, discontinui, i cui membri di rado si lasciano coinvolgere totalmente. Mentre i chavos banda si localizzano prevalentemente nelle periferie delle grandi città e conservano vincoli profondi con il territorio (la cui difesa è il motivo di conflitti endemici con altre bande ugualmente territoriali), le tribù urbane hanno mantenuto come scenario soprattutto il centro urbano, con conflitti episodici e determinati prevalentemente da divergenze di stile o rivalità calcistiche, piuttosto che appartenenze territoriali.7
Mentre i chavos ostentano la loro identità di gruppo sempre e ovunque, l’esibizione dell’appartenenza alle bande urbane è assai più circoscritta, inoltre se i primi tendono a rifarsi a circuiti economici informali o autogestiti, i secondi restano sostanzialmente all’interno del circuito di mercato tradizionale. Le stesse risposte del potere nei confronti delle due esperienze sono differenti: decisamente di stampo repressivo nel caso messicano, più tollerante nel caso catalano.
L’identificazione con questi stili è un processo simbolico, tuttavia l’appropriazione produce in ogni luogo manifestazioni culturali completamente diverse, e ciò confuta le teorie che vedono nella cultura dei giovani un processo di omologazione su scala planetaria. L’esperienza dimostra che i ragazzi provenienti da contesti subalterni, sia nelle zone periferiche che in quelle centrali, possono essere emarginati ma non necessariamente marginali. Attraverso l’identificazione con un modello, l’emarginazione da stigma passa a essere un emblema. Emblema che crea una comunicazione col mondo esterno, che offre un linguaggio universale e quindi mette in crisi l’idea tradizionale della cultura della povertà come un’entità chiusa.8
Per quanto riguarda le altre esperienze analizzate da Feixa, relativamente alle bandas latinas barcellonesi della prima metà degli anni Duemila, lo studioso si propone di mostrare come, al di là egli stereotipi di comodo politico-mediatici, esistano differenti modalità di identificazione dei giovani di identità latina con le bande. Nel volume vengono analizzati anche alcuni fenomeni socio-culturali che in ambito catalano si contraddistinguono per la presenza tanto di una dimensione locale che una globale, mentre un saggio rimanda al progetto TRANSGANG – Transnational Gangs as Agents of Mediation: Experiences of Conflict Resolution in Street Youth Organizations in Southern Europe, North Africa and the Americas – che anziché concentrarsi sui fallimenti e sull’esclusione sociale, si occupa dei casi in cui le bande giovanili sono state protagoniste di percorsi di inclusione sociale. Si tratta di un progetto che, focalizzato sulle esperienze di mediazione delle bande giovanili di due comunità transnazionali (latinoamericane e arabe) in tre ambiti geo-culturali (Europa Merdionale, Africa Settentrionale e le Americhe), mira a favorire politiche maggiormente inclusive in cui i protagonisti esercitano un ruolo attivo di primo piano.
D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano 2017, p. 12. Sul volume si veda: G. Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, Il Pickwick, 18 ottobre 2017. ↩
Ivi, p. 13. ↩
C. Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 9. ↩
Ivi, p. 7. ↩
Ivi, p. .12. ↩
Ivi, p. 12. ↩
Ivi, p. 21. ↩
Ivi. pp. 22-23. ↩