di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019.

Lo sappiamo, esistono artisti il cui linguaggio impatta viralmente, indelebilmente sull’immaginario, con una stupefacente capacità di “presa” e intervento anche e persino di più su quello di epoche successive: sia per l’efficacia di prefigurazione (nei contenuti, cioè sogni, paure, desideri…), sia per l’ottimale adattabilità delle opere a mezzi tecnici in seguito maturati. Per dire, Jane Austen non poteva immaginare il cinema, eppure i suoi romanzi risultano sceneggiature persino più perfette per il linguaggio filmico che non per il teatro del suo tempo. William Blake si impone con migliaia di richiami al giorno tra web e social, certo per la bellezza abbacinante delle sue tavole ma anche per la loro efficacia mediatica, che le vede valorizzabili (più delle opere di tanti colleghi magari eccellenti) anche e in particolare attraverso lo schermo. Certo, si può obiettare che in ciò entra uno specifico rapporto coi miti pop, usi al continuo recupero nel segno del postmoderno, ma il fenomeno non nasce nel ventesimo secolo.

Un caso emblematico riguarda un altro artista, oggi richiamato per la straordinaria potenza iconica e per la stessa agevole riproducibilità delle sue incisioni in infiniti poster, copertine, spazi grafici dei più vari generi e naturalmente sul web: Giovanni Battista Piranesi (1720-1778). Il suo lavoro influisce con potenza fin dal proprio tempo ma soprattutto sui posteri, offrendo suggestioni efficaci non solo all’arte figurativa, ma alla letteratura e in realtà all’intero orizzonte dell’immaginario moderno, con un impressionante ventaglio di implicazioni. Da quelle teoriche, contenutistiche sulle icone del potere – affronteremo le sue Carceri, che proprio tale dimensione riguardano con forza provocatoria – a quelle pratiche, formali: qualcosa che prelude a tutta una serie di sviluppi tecnici sul teatro degli spazi tra vertigine e claustrofobia dall’immaginario grafico (immediato pensare a Escher), del design e del fumetto (per esempio Druillet) a quello su schermo, computer grafica e non solo. Una prova provata è lo splendido cortometraggio che Grégoire Dupond ha costruito nel 2010 permettendo di esplorare gli ambienti delle Carceri (è possibile vederlo qui), ma la forza d’ispirazione di Piranesi va ben oltre lo specifico dei temi da lui trattati.

A offrire il destro per la riflessione sul tema è l’uscita di un piccolo libro per i tipi Ghibli, che meritoriamente ripropone appunto Le carceri nelle due versioni storiche con introduzione di Mario Praz (da un’edizione non dichiarata ma post-1966). Il sommo critico avvia il tutto con una nota biografica.

Piranesi nasce (pare) a Mogliano Veneto, ma nei fatti l’avvio della sua vita è a Venezia. Una città al tempo fastosissima e ricca, dove il Nostro – figlio di un capomastro, forte di una buona formazione sia tecnica che culturale, ma non sufficientemente introdotto – comprende di avere poco spazio. Appena ventenne parte dunque per Roma (1740): un’esperienza eccitante, che gli riempie gli occhi dell’incredibile teatro di un’Urbe decaduta fitta ovunque di rovine. Il soggiorno risulta fertilissimo quanto ad apertura di rapporti e comunque di apprendimenti (scenografia, acquaforte, studio dell’arte barocca come di quella antica, da Roma agli scavi di Ercolano), ma un po’ deludente dal fronte dei riconoscimenti concreti. Il giovane è quindi costretto a tornare con la coda tra le gambe a Venezia. Almeno per il momento.

Qui produce dei Grotteschi ispiratigli da Tiepolo, che “invece dei nastri e dei cupidi consueti in tal genere di decorazione rococò mostrano una farragine di colonne fatiscenti, di teschi, di aspidi sotto bare sventrate: un’arcadia lugubre, insomma”, già interessante per quelli che presto saranno gli sviluppi del gotico. Per carità, il grottesco e l’orrido non hanno mai latitato nell’arte, e nel caso di Piranesi si tratta di fantasie variamente interpretate – in ogni caso iniziamo a tenere sotto osservazione questo filone di suggestioni.

D’altra parte, il Nostro prende a lavorare anche su un’altra opera che quanto a tenebrosità non scherza: quella che inizialmente titola Invenzioni capricciose di Carceri, ma è meglio nota con il titolo della seconda edizione del 1761, Carceri d’invenzione. Ispirate sembra da un progetto di scenario di Daniel Marot (Prison d’Amadis, 1702) che Piranesi ha ampliato in una Carcere oscura compresa nella Prima Parte di Architetture e Prospettive (1743): la didascalia suona “Carcere oscura con Antenna pel suplizio de’ malfatori. Sonvi da lungi le Scale, che conducono al piano e vi si vedeno pure all’intorno altre chiuse carceri” (quest’immagine è in controfrontespizio nell’edizione Ghibli). Nota Praz:

 

Nelle Carceri la scenografia barocca si carica di suggestioni romantiche, come se le intricate cupole geometriche di un Borromini e di un Guarino Guarini che dovevano avviare l’occhio alle infinità dei cieli trovassero una controparte in un intricato labirinto senza centro destinato a dissolversi negli abissi del Marchese di Sade.

 

Sulla preferibilità tra le due edizioni delle Carceri gli studiosi discutono. Arthur M. Hind, grandissimo critico britannico, preferisce la prima in quattordici tavole, “creata [da Piranesi] con il fuoco della sua passione giovanile”. A celebrare invece la seconda, rielaborata e con due acqueforti in più (ma con profonde differenze: le tavole sono a volte quasi irriconoscibili per l’aumento di figure e di macchine e per la violenza nuova dei chiaroscuri), è Henri Focillon, mattatore francese degli studi piranesiani, storico dell’arte, poeta e a sua volta incisore. Parlando di “rami dove vibra una strana luce, [che] sembrano essere stati battuti dal martello di qualche Ciclope e conservare il riflesso della fornace in cui furono forgiati”, va ben oltre la mera spendita di un compiacimento classicheggiante. Quell’unico occhio virtualmente antropofago (visto che i Ciclopi collaboratori di Efesto sono almeno parenti di Polifemo), quell’occhio che manca del compagno a contrappuntarlo nello spessore tranquillizzante di una quotidianità che maschera e attutisce, quell’occhio che vede direttamente e senza veli nella forgia incandescente può ben evocare la terribilità interiore che Piranesi porta alla luce: Praz citava Sade e vi torneremo.

Del resto, può risultare interessante un po’ di calendario. Nel periodo 1739-1741 Horace Walpole (nato nel 1717) è in Italia per il Grand Tour, raccogliendo le impressioni gotiche che importerà nel Castello d’Otranto, e si trova a Roma tra febbraio e luglio 1740: lì nel settembre arriva Piranesi (nato nel 1720, dunque sono quasi coetanei), che inizia a lavorare alle Carceri nel 1745 e vara la prima edizione in data discussa, in genere fissata al 1749-1750. La seconda edizione è come accennato del 1761, e nel 1764 esce Il castello d’Otranto. La staffetta tra incubazione e realizzazione delle due opere, l’una pittorica ma dalla strabordante suggestione letteraria, l’altra letteraria ma tanto pittoricamente evocativa, l’una e l’altra a vocazione onirica e insieme fortemente teatrali, già sembra dirla lunga su cosa stia preparandosi a livello di impatto sull’immaginazione collettiva. E la cifra delle invenzioni e dei capricci nel titolo delle Carceri rimanda proprio a un gioco fantastico sul macabro come nei Grotteschi, ma persino più estremo.

Comunque Piranesi è nel frattempo riuscito a tornare a Roma, aprendo bottega sul Corso di fronte a Palazzo Salviati: lavora come agente del mercante veneziano di stampe Giuseppe Wagner e, non trovando spazi come architetto o scenografo, aggira il problema proponendosi quale incisore delle infinite rovine punteggianti l’Urbe. Badiamo a questo passaggio di straordinaria inventiva: armato di cognizioni tecniche e culturali, Piranesi inventa – plasmandola sul proprio profilo – una nuova professione. Invece che edificare, ripiega “sulla professione d’anatomista d’architetture”, crea “tavole anatomiche di rovine”: pensiamo al Settecento degli anatomisti, col teatro di corpi umani sventrati che nelle tavole degli atlanti marciano come automi d’epoca, danzano o si contorcono prefigurando la creatura di Frankenstein – ed ecco che lui ricalibra il discorso sull’architettura, trasformando quelle rovine in qualcosa di altrettanto esemplare, meraviglioso e folle. In “un’epoca in cui i parchi si popolavano di finte rovine e di fabbriche capricciose, le cosiddette follies, eresse la più monumentale delle rovine, Roma, la più bizzarra delle follies, le Carceri” facendo rivivere il passato all’Italia “non più come azione, ma come sogno”.

Da piccole vedute per pubblicazioni di vario genere passa così, tramite giri e maneggi vari, all’enorme, prodigioso Antichità Romane (1756) con cui esplode la sua fortuna in Europa. Certo, le critiche non mancano, sia di sprezzo verso “un matto” (così Luigi Vanvitelli), sia di critica per come tratta “il vero” e “il bello”: emblematica la sua contrapposizione a Johann Joachim Winckelmann, giunto in Italia nel 1755 e divenuto bibliotecario del cardinale Alessandro Albani, in una villa che è un vero e proprio museo. La voluttuosa nostalgia winckelmanniana per la bellezza antica e specialmente greca – che nutrirà un’intera stagione dell’arte occidentale – è lontana anni luce dalla melanconia che vedremo propria di Piranesi, ammiratore saturnino di una Roma ispirata dagli etruschi. Almeno fino a un certo punto, del resto, sembra che l’artista stesso si trovi diviso tra i freni razionalizzanti e le sue tendenze visionarie. Queste ultime, però, a un tratto rompono gli argini: e lui difende anche teoricamente, a suon di citazioni latine inserite nelle incisioni, il diritto a innovare come fa la Natura che continuamente muta le forme.

Non seguiamo di lì la lunga serie di opere straordinarie con cui Piranesi mapperà i fasti di un mondo perduto, dell’Urbe e non solo – dalle rovine che al filtro del suo sguardo acquistano monumentalità persino quando non l’avrebbero, a singoli oggetti tratti da scavi che quasi necromanticamente fanno sorgere i morti. E non si può che rinviare all’introduzione di Praz alla presente edizione quando si sofferma da par suo sul gusto delle rovine, sulla Roma di Piranesi quale – appunto – città di rovine circonfusa di un mito peculiare, e sulla tecnica dell’artista.

Ciò che Piranesi propone è qualcosa di totalmente nuovo che fa impazzire i cultori d’arte – non solo e non tanto romani, di quei circoli in cui fatica a entrare, ma francesi e soprattutto inglesi. Se poi l’influsso delle Carceri sarà piuttosto limitato sulle scenografie teatrali ottocentesche nostrane (ma c’è un gotico italiano, magari minore, che in qualche misura potrà trarne linfa), trova maggior fortuna nel mondo ispanofono – da Goya fino ai claustrofobici, babelici labirinti di Borges. Pure nel Novecento presentano un altro specifico, perché Piranesi è testimone eminente “di quella ‘perdita del centro’ che segna una frattura capitale nella storia del pensiero e dell’arte”. Le Carceri strappano fuori dal mondo presettecentesco delle armoniose simmetrie, rendono impossibile (come osserverà Marguerite Yourcenar, in “Le cerveau noir de Piranèse”, 1961, 1963) discernere un piano d’insieme suggerendo il senso di un universo asimmetrico: un mondo privo di centro ma in espansione perpetua, che dietro gli spiragli delle scene chiaroscurate addita altre sghembe estensioni in tutte le direzioni possibili.

Quale però sia il significato delle Carceri è discusso e Praz non si pronuncia: non si può che rinviare alla critica più recente, divisa tra il richiamo di immagini deliranti, disturbanti legate ai sotterranei psichici dell’autore, e – soprattutto nella seconda edizione, con tavole assai più scure e sinistre, forme più razionali e definite, meno capriccio e più invenzione – la chiave della provocazione illuminista nell’eco di un dibattito d’epoca (si rinvia per esempio al magnifico studio di Silvia Gavuzzo-Stewart, Nelle Carceri di G.B. Piranesi, Routledge 1999). Non è chiaro per esempio se Piranesi possa aver aderito alla Massoneria, infiltratasi in Italia anche attraverso la via del Grand Tour, anche se col suo pessimo carattere e le difficoltà con l’ambiente (che non  gli impediranno un certo quieto vivere e in ultimo una sepoltura d’onore) si sarebbe trattato di una scelta almeno rischiosa.

Piranesi muore il 9 novembre 1778, dunque dopo l’inizio della rivoluzione americana ma prima di quella francese, e in particolare prima della caduta del più celebre carcere avvicinato all’archetipo delle sue tavole, la Bastiglia. Il paragone potranno meditarlo i figli Pietro e Francesco che vent’anni dopo, nel 1798, porteranno a Parigi i rami incredibili di quel padre ingombrante e dispotico, iniziando a pubblicarli.

“L’illogico, l’enorme: ben colpirono questi due elementi del Piranesi la fantasia di Horace Walpole”, puntualizza Praz. E Il castello d’Otranto – visto sempre dall’interno, e da sale e cortili digradanti in sotterranei labirintici e passaggi segreti – deve parecchio a quelle Carceri che

 

sembravano illustrare l’analisi (contenuta nell’Enquiry del 1757) di Edmund Burke dell’effetto dell’infinito e delle “cose moltiplicate senza fine”: “L’infinità ha tendenza a riempire la mente con una sorta di dilettoso orrore, che è l’effetto più genuino e il più certo banco di prova del sublime”.

 

“[…] una sorta di dilettoso orrore”: tratteniamo l’espressione. Non è strano che Walpole ammiri con entusiasmo quel Piranesi che, scrive nell’Advertisement al quarto volume dei suoi Anecdotes of Painting in England (stampato nel 1771, viene pubblicato solo nel 1780),

 

sembra aver concepito visioni di Roma al di là di quanto essa vantava perfino all’apogeo del suo splendore. Selvaggio come Salvator Rosa, violento come Michelangelo, ed esuberante come Rubens, egli ha immaginato scene che farebbero sussultare la geometria ed esaurirebbero le Indie se dovessero venir tradotte in realtà. Egli ammassa palazzi su ponti, e templi su palazzi, e scala il cielo su montagne di edifizi. Eppure quanto gusto nel suo ardire! Quanto travaglio e pensiero nella sua impetuosità e nei suoi particolari!

 

Per cui Praz ha senz’altro ragione quando immagina che l’enorme elmo “caduto come un meteorite” nel cortile del castello dell’usurpatore Manfred nel Castello d’Otranto sia in realtà mutuato da qualcuno dei similmente ciclopici elmi di Piranesi (“uno rincorre in una fantasia architettonica in Opere varie, nei propilei d’un anfiteatro gigantesco, un altro in una scena delle Carceri” e lo vedremo).

 

Così la fantasia del Piranesi, “le noir cerveau de Piranèse”, come scrisse Victor Hugo, aprì la strada al “romanzo nero”, la cui scena preferita fu una tenebrosa, labirintica prigione, gli in-pace [terrificanti carceri monastiche di cui parla anche Hugo nei Miserabili], le segrete dell’Inquisizione, e poi gli spaventosi appartamenti dei romanzi di Sade, isolati dagli occhi e dagli orecchi del mondo, ove l’infinità degli spazi ha fatto luogo all’infinità delle torture.

 

Attenzione a questo cervello nero: è la nerezza della melanconia, il dono prezioso di Saturno che però è anche pericoloso e morboso, con la demenza che ammicca dietro l’angolo. Il melanconico/saturnino e il morboso inabitano tutta l’opera di Piranesi – Carceri comprese, tanto più nella seconda e più pessimistica versione.

Praz ricorda anche che saranno Coleridge e De Quincey “a rendersi conto per primi di tutta la terribilità delle Carceri”, a prescindere – come qualcuno commenta – dalle loro consuetudini all’oppio. È vero che mentre De Quincey conosce direttamente le Antichità Romane, il suo ricordo delle Carceri in Confessions of an English Opium-Eater, 1820, è di seconda mano, riferito a una descrizione di Coleridge che sembra chiamarle Sogni (invece che Capricci o Invenzioni): e su quell’imperfetto ricordo lui sovrimprime gli stigmi del romanzo nero. Evocando “vast Gothic halls” sul cui pavimento giacciono “potenti ordegni e macchine, ruote, canapi, catapulte, e via dicendo, che esprimevano impiego di enorme forza e superamento di resistenza”; nonché vertiginose scale senza balaustre spalancate sull’abisso, e che verso l’alto si perdono una rampa dietro l’altra – angosciosamente, come all’infinito – entro la tenebra sovrastante. De Quincey innesta nella lettura delle Carceri il topos di un’ascesa di scala in scala angosciosamente infinita: un motivo che dai Punica di Silio Italico viene ripreso nel Settecento inglese a emblematica metafora della conoscenza che non conosce limiti, e più avanti nell’Ottocento francese in riferimento a un’esplorazione interiore, ed eventualmente al montare dell’angoscia (si veda per esempio la riflessione offertane da Nodier in Piranèse. Contes psychologiques, à propos de la monomanie réflective, 1836).

Ovvio, di fronte alle Carceri la nostra prima emozione è la vertigine architettonica. Nostra e di infiniti spettatori eccellenti a tanto teatro: per esempio, Gautier (Victor Hugo, ed. postuma 1902) accosterà le scene di Piranesi a quelle degli incubi di Ann Radcliffe, Maturin e appunto Hugo quanto a “terrore tenebroso e architettonico, se si può usare tale espressione”. Evocando l’incisore come

 

questo dèmone dell’incubo architettonico, lui che sa inarcare delle volte così nere, così sudanti, così prossime al crollo, che fa nascere nelle sue rovine delle piante che han l’aria di serpenti, e che contorce così orribilmente le gambe deformi della mandragora tra le pietre screpolate e i cornicioni sconnessi.

 

Più avanti un altro veggente tra vertigini dell’interiorità, Aldous Huxley (Prisons. With the “Carceri” Etchings by G.B. Piranesi, 1950), porrà in rapporto Piranesi e le ispirazioni cubiste – dove non sembra improprio ricordare che queste, a loro volta, troveranno ricadute sull’horror cinematografico coevo. Huxley definisce le tavole dell’incisore come “il più vicino approccio settecentesco a un’arte puramente astratta”; ma tali che rispetto

 

alle astrazioni dei Cubisti […] hanno il vantaggio di combinare pura geometria con abbastanza contenuto, abbastanza letteratura, per esprimere, più efficacemente che possa fare un mero disegno, gli stati oscuri e terribili della confusione spirituale e dell’accidia.

 

In effetti, quel che ci raggiunge al primo colpo d’occhio è proprio questo incredibile labirinto architettonico di ascese e voragini che ben prefigura Escher e specchia con “dilettoso orrore” e impressionante efficacia i babelici labirinti di una vita interiore.

 

[1-continua]