di Armando Lancellotti
Charlotte Berardt, Il Terzo Reich dei sogni, Meltemi, Milano, 2020, pp. 140, € 14.00
Charlotte Brandt, giornalista tedesca di origine ebraica, ha poco più di trent’anni quando sceglie la strada dell’emigrazione per sfuggire alla persecuzione antisemita e tra le carte ed il materiale di lavoro che riesce a portare all’estero ci sono anche i racconti e i resoconti onirici di circa trecento persone, prevalentemente berlinesi, raccolti a partire dal 1933, anno dell’ascesa al potere di Adolf Hitler, fino al 1939, quando abbandona il paese. Sono i sogni di gente comune, di diversa estrazione sociale, professione o livello culturale, che non simpatizza per il nazionalsocialismo o addirittura lo disapprova e vi si oppone, come la stessa Charlotte Brand, vicina agli ambienti politici del partito comunista della Germania di Weimar. Nel 1943 a New York, una selezione di questi sogni viene pubblicata dalla rivista Free World, ma è la partecipazione, più di vent’anni dopo, ad una trasmissione dell’emittente radiofonica pubblica della Repubblica federale tedesca a creare il presupposto per la pubblicazione nel 1965 del libro, Il Terzo Reich dei sogni, che l’editore Meltemi ha recentemente riproposto, insieme alle illuminanti Prefazione di Reinhart Koselleck e Postfazione di Bruno Bettelheim.
Così equivoca e sfuggente è la materia di cui sono fatti i sogni e spesso così inverosimili risultano le loro rappresentazioni che difficilmente si penserebbe possano costituire un materiale di lavoro utile per lo storico e invece – come fa notare Koselleck – i racconti di questi sognatori tedeschi degli anni Trenta forniscono un contributo fondamentale alla comprensione del Terzo Reich, non dei suoi aspetti “materiali”, ma di quelli “immaginari” e aiutano a comprendere quanto pervasiva sia la forza di controllo e di condizionamento che un regime totalitario è capace di sprigionare, al punto da assumere il comando, marchiandola indelebilmente, dell’immaginazione individuale, che diviene poi collettiva nel momento in cui le medesime rappresentazioni ricorrono, con lievi variazioni, nelle visioni notturne di più persone. Sempre Koselleck fa notare come lo storico possa considerare documento valido, legittimo ed utile per la ricerca qualsiasi testimonianza, a patto di trattarla con il rigore metodologico necessario e pertanto anche i sogni, che, pur essendo prodotti psichici involontari e rappresentazioni irreali delle cose, danno voce all’immaginario e lo squadernano davanti a noi, rivelando molti particolari della realtà – individuale e sociale, personale e collettiva – da cui traggono origine.
«Ne consegue che» – propone il filosofo – «una volta scritti essi appartengono alla categoria documentale propria dei testi d’invenzione. […] Sono, per così dire, storie per immagini. […] Nella loro struttura interna, si configurano spesso come racconti brevi, con un inizio e una fine. […] Ma la nostra autrice ci fa giustamente rilevare che spesso questi racconti brevi anticipano già quelle situazioni paradossali rappresentate solo assai più tardi da Beckett, Ionesco o Orwell. Nessuno potrà negare a questi brevi racconti onirici una qualità poetica. Con ciò essi assomigliano alla poesia, che – in senso aristotelico – non riferisce quanto è accaduto, ma piuttosto cosa potrebbe accadere»; (p. 16) posseggono, insomma, una lucida capacità premonitrice.
Charlotte Beradt non è una psicanalista e coloro che le raccontano i propri sogni non lo fanno all’interno di un contesto terapeutico a scopo di guarigione e quindi sottoponendosi alle diverse metodologie e tecniche psicoterapeutiche di interpretazione dell’inconscio. Questo fatto dissuade l’autrice dal tentare di leggere freudianamente i sogni che le vengono riferiti come forme di appagamento sostitutivo, che realizzino simbolicamente i desideri rimossi nell’inconscio e in stretta relazione con la prima infanzia, di cui riproducono una scena, modificandola mediante la sua proiezione su un’esperienza recente. Charlotte Beradt preferisce limitarsi a mettere in relazione il “contenuto manifesto” del sogno – la scena raccontata con le stranezze, le contraddizioni, le lacune tipiche di un resoconto onirico – con l’esperienza diurna del sognatore e soprattutto con il contesto sociale e politico della Germania da poco trasformatasi nel Terzo Reich hitleriano. Suddivide e cataloga i sogni per tipologie e li distribuisce negli undici brevi capitoli in cui si articola il libro; registra le ricorrenze della medesima esperienza onirica nello stesso soggetto e – quando si presentano – i tentativi dei sognatori stessi di abbozzare una prima interpretazione; propone una lettura politico-sociale del sogno e se ne serve per individuare e mettere a fuoco alcuni aspetti essenziali del totalitarismo nazionalsocialista.
Le condizioni emotive che più frequentemente emergono dalla analisi dei sogni vanno dalla paura difronte alla violenza repressiva del regime e dei suoi apparati, per esempio le SA, all’angoscia, che consegue allo spaesamento dell’individuo vittima di un sistema di controllo tanto implacabile quanto capillare ed invisibile; dal senso di colpa per il conflitto che si genera tra il dover essere e l’essere – tra ciò che si sa che si dovrebbe essere (contrari al regime) e ciò che per timore o per convenienza si desidera inconsciamente diventare (integrati nel sistema) – fino ad arrivare all’estraniante rifiuto di se stessi, delle proprie caratteristiche fisiche, perché pericolosamente “poco ariane” o dei propri familiari, se non ariani.
E allora nel 1934 un medico sogna che improvvisamente e per decreto governativo, come annuncia la voce gracchiante di un altoparlante, le pareti del suo appartamento e quelle di tutte le altre abitazioni scompaiano: “vivere senza pareti”, ossia vivere collettivamente, senza spazio privato e sempre controllati dall’attento occhio del regime. Nel 1933 una casalinga sogna che la vecchia e grossa stufa di ceramica che si trova nel soggiorno e attorno alla quale insieme alla famiglia si siede per conversare, sia in realtà uno strumento di registrazione dei loro pensieri e delle loro parole. Un milite delle SA irrompe nella stanza, apre lo sportellino della stufa che inizia a ripetere tutte le frasi pronunciate il giorno prima contro il governo.
Osserva a questo proposito l’autrice che, non potendo il regime sorvegliare continuamente milioni di persone, li convince però della possibilità che questo accada ed induce i tedeschi ad autocensurarsi. «Può esistere un sogno più funzionale di questo a un regime totalitario? Il Terzo Reich non era in grado di introdurre un congegno di sicurezza all’interno dell’appartamento di ogni singolo suddito, ma poteva trarre profitto dalla paura, ispirata da tale possibilità, che esso stesso aveva incorporato nell’animo di ogni singolo suddito, il quale cominciava, per dir così, ad autoterrorizzarsi, trasformandosi a sua insaputa in un collaboratore volontario del terrore sistematico solo per il fatto di immaginarlo ancora più sistematico di quanto non fosse» (p. 57)
Una donna, che dopo le leggi di Norimberga del 1935 si trova nella condizione dei Mischlinge (mezzo sangue), in sogno prova rancore nei confronti dell’amata madre perché ebrea; altri, seppur ariani, si preoccupano del colore dei capelli e degli occhi o della forma del naso ed immaginano in sogno che la polizia arresti tutti coloro che hanno “nasi sospetti”. Oppure c’è l’uomo che sogna di scrivere una lettera di protesta contro il governo, ma poi si autocensura, infilando nella busta un foglio bianco senza una sola parola. Le narrazioni oniriche si susseguono rapide nelle poco più di cento pagine del libro e tutte quante, talvolta in modo lapidario, evidenziano come il regime nazionalsocialista sia stato capace di plasmare nel profondo la psiche dei tedeschi al punto da – osserva Bruno Bettelheim nella Postfazione – uccidere il loro sonno, «annientando la capacità di rinnovare le proprie energie emotive attraverso i sogni. […] Persino in sogno dicevano a se stessi: “Non devo azzardarmi ad agire secondo i miei desideri”. L’angoscia li costringeva a uccidere i sogni prima di raggiungere quel conforto emotivo con cui, almeno nella fantasia, possiamo agire come desideriamo». (p. 127)
Bruno Bettelheim, però, ritiene – a differenza di Charlotte Beradt – che anche questi, come tutti i sogni, possano e debbano essere interpretati psicanaliticamente e freudianamente come conflitti interiori inconsci, evocati dalla realtà politica del momento e dai contrasti del sognatore con la società ed il regime e pertanto, oltre a sottolineare la necessità di andare al di là del loro immediato contenuto manifesto, propone di paragonarli a quelli che vengono solitamente sognati dalle persone soggette ad un forte potere superiore, vale a dire dai bambini, la vita dei quali è dominata e dipendente dall’autorità degli adulti. Ma mentre nei sogni dei bambini si alternano, solitamente in quantità equivalente, sogni di angoscia e sottomissione ad altri in cui il bambino interpreta un ruolo attivo, vincente e di controllo della situazione, «Ciò che turba in questo libro è la prevalenza di sogni di persecuzione e la relativa assenza di quelli in cui il sognatore ha un ruolo vincente». (p. 130) In sostanza, secondo Bettelheim, un regime totalitario produce un fenomeno di regressione infantile della costituzione psichica di suoi cittadini-sudditi, che introiettano il ruolo paternalistico del capo carismatico, ad esso si affidano e si sottomettono, omologandosi al sistema ed alimentando un processo di consolidamento e produzione del consenso.
Su una questione di particolare interesse Charlotte Beradt e i due importantissimi autori di Prefazione e Postfazione – Koselleck e Bettelheim – concordano e cioè sul fatto che questi sogni fatti da cittadini tedeschi prevalentemente nei primi anni del Terzo Reich – molti di essi risalgono infatti proprio al 1933 o al biennio successivo – evidenzino una strabiliante capacità predittiva: osservati a posteriori e alla luce della conoscenza dell’intero arco storico del Terzo Reich, queste rappresentazioni oniriche apparentemente iperboliche, che già subito dopo la conquista del cancellierato da parte di Hitler prefigurano sistemi ed apparati di controllo totale, strumenti di repressione e terrore implacabili, altro non fanno se non presagire e preannunciare ciò che effettivamente sarebbe accaduto negli anni a seguire. Koselleck ricorda come, fin dalle età storiche più lontane e dalle civiltà più antiche, alle capacità premonitrici dei sogni sovrani e condottieri abbiano sempre riservato molta attenzione e grande importanza abbia avuto l’arte divinatoria della loro interpretazione; Bettelheim mette in evidenza come il sogno, andando «direttamente al nucleo emotivo del problema» (p. 136), qualsiasi esso sia, aiuti a coglierne l’essenza.
Molti anni prima dei più celebri esempi di teatro dell’assurdo o di narrativa distopica, l’immaginazione onirica di molti cittadini tedeschi del Terzo Reich, sottoposta alla soffocante pressione degli apparati di manipolazione e controllo di un regime totalitario, ha prodotto una galleria di immagini e di narrazioni premonitrici degne di un Black Mirror ante litteram e, in modo simile all’immaginazione artistica, è stata in grado di andare al cuore del problema, di intuire e rappresentare anticipatamente la verità di una realtà ancora in fieri.