di Daniela Bandini
Giorgio Panzzari, Tito Stefanini, Figli delle catastrofi. Ribelli e rivoluzionari, prefazione di Davide Steccanella, Milieu Edizioni, 2019, pp. 195, € 15,90.
Ci sono certe emozioni, così come certi libri, che riescono a rappresentare esattamente un arco temporale. Con il suo linguaggio, le sue aspettative, la sua voglia di riscatto. Che può essere anche sbagliato, ma lo rappresentano. E poi, cosa significa “sbagliato”? La volontà dello storico di farne una analisi al servizio del nostalgico o del giustizialista?
Due vite. Esattamente inscritte negli anni ’70, perfettamente inserite nel bivio di un’Italia che si divide tra chi aspira a essere rappresentante del miracolo economico, finalmente dalla parte giusta, del guadagno, illecito e mal definito “facile”, e chi vede nelle piazze e nella sua vita il pegno da pagare ai principi di una Resistenza tradita. La Resistenza, un valore calpestato dall’imborghesimento di una classe operaia e di un proletariato accecati dalle vetrine della Standa, del Coin, appena aperti, dalla seconda casa.
Due vite, due città, quelle di Giorgio Panizzari e Tino Stefanini che decidono di scrivere, entrambi detenuti nel carcere di Bollate, per Giorgio il sogno e il segno di un’Italia dove la violenza delle piazze e del terrorismo impattava con le stragi di Stato. E dove il carcere era anche luogo di alfabetizzazione, di analisi. Per Tino il mito di una vita dove le regole le scrivi tu, eternamente in guerra, profondamente convinto che il denaro ti appartiene, non importa chi lo detenga.
Giorgio Panizzari, fondatore dei NAP poi confluito nelle BR, il cui nome era nell’elenco dei 13 prigionieri di cui le BR chiesero la liberazione in cambio del rilascio di Moro.
“I proiettili traccianti del Bren, quando andavano a colpire la parete di pietra 700 metri più a valle, rischiaravano la strada con le loro scintille fugaci…L’effetto del tracciante è quello di far credere al bersaglio che, seppure indirizzato a dieci o venti metri di distanza, il proiettile arrivi proprio addosso. Era stato Gianni, un vecchio partigiano delle Brigate Garibaldi.. a insegnarmi a sparare con il Bren”
Tino Stefanini, componente di spicco della banda Vallanzasca, una storia di rapine . Ecco alcuni dei suoi capi di i imputazione: “Tre omicidi, tentato sequestro Scavia, traffico internazionale di stupefacenti, associazione di stampo mafioso, vari tentati omicidi e diverse rapine. A Bologna un sequestro di persona dove venne pagato un riscatto di 800 milioni. A Monza per una rapina di 300 milioni a un ufficio postale e a Milano per la rapina alla succursale Rolex.” Altre accuse di rapine a furgoni blindati .
Bellissimo un capitolo da lui scritto che titola “La prima banca non si scorda mai”.
La storia degli anni ’70 in questo bivio.
Tino Stefanini: ” Ho avuto diversi conflitti a fuoco, scontri con le Fdo e appartenenti della criminalità. Nella mia vita in libertà ho fatto solo il rapinatore. Impossibile quantificare quante banche, uffici postali, ditte o furgoni blindati abbia toccato. Non sono certo stato uno stinco di santo, ma ho pagato con oltre due terzi della mia vita trascorsi dietro le sbarre… Dall’inizio della mia carriera criminale, attorno agli anni settanta ad oggi, ho riscontrato enormi cambiamenti nel sottobosco della malavita, le regole che avevamo nel cuore sono mutate; la nuova generazione è diventata egoista… Nelle camere di sicurezza venivamo torturati, presi a calci e pugni, sputati in faccia e non una parola usciva dalle nostre bocche, pochissimi crollavano…”
Giorgio Panizzari: “La mia collera verso le istituzioni era fuori misura umana! Le lotte in carcere imperversano e io vi avevo partecipato fin dal primo momento… Molti studenti, compagni operai erano entrati in carcere dalle lotte esterne, si fraternizzava e si parlava. Si discuteva di tutto…. Qualcosa iniziai a capire anch’io! Fui tra i fondatori prima delle Pantere Rosse e poi dei NAP, che nacquero formalmente nel carcere di Perugia nel 1972″.
Concludo con le parole dell’Avvocato Davide Steccanella, ideatore e curatore del libro: ” Il duplice racconto, che si conclude con l’ultimo capitolo di Tino dal titolo Aglio Olio e Peperoncino, regala momenti di riflessione, come la sorpresa di Tino quando dopo dieci anni di galera ritorna nel suo quartiere in cui ‘ormai si viveva solo spacciando la droga, una cosa che non condividevo e alla quale non avrei mai voluto partecipare, nonostante le numerose offerte’, oppure il commosso ricordo dedicato da Giorgio all’amico Martino Zicchitella, ‘che non era un uomo da situazioni ordinarie’, morto nel corso del fallito attentato al questore anti-terrorismo Alfonso Noce perché ‘Coloro che lo hanno conosciuto bene, sanno che Martino non avrebbe voluto una morte diversa!’ E ‘Io l’ho conosciuto bene’, aggiunge con orgoglio.
Grazie all’Avvocato Davide Steccanella per questo lavoro, per il crederci per davvero.