di Alessandra Daniele
Tacchia significa zeppa di legno.
“Metterci una tacchia” vuol dire quindi cercare di rimediare a qualcosa alla meno peggio, in modo raffazzonato e precario.
Ed è il massimo che il governo Conte sia stato capace di fare riguardo ai danni catastrofici della pandemia, come a qualsiasi altra crisi si sia ritrovato ad affrontare. Quando non ha peggiorato le cose.
E i risultati si vedono.
Le mascherine non si trovano. I soldi promessi non arrivano. I tamponi non bastano. I negozi chiudono. Le fabbriche annunciano licenziamenti.
Ma Conte rimane al suo posto. Perché lui stesso è una tacchia.
Ed è anche un Conte Tacchia. Un cialtrone vanesio che si dà arie salottiere da Belle Epoque, fra le macerie e le bare.
Non che l’opposizione abbia o avrebbe fatto di meglio, anzi.
Nonostante le sguaiate risse quotidiane per motivi pretestuosi, di visibilità o spartizione di poltrone, in realtà i due schieramenti condividono la stessa impostazione politico-economica di fondo: liberismo mercatista, mal temperato da un po’ di assistenzialismo clientelare.
Non a caso sono entrambi fans delle Grandi Opere, compreso il leggendario Ponte sullo Stretto di Messina, che tirato fuori in questi giorni risulta particolarmente grottesco.
Ed entrambi, in obbedienza a Confindustria, hanno negato la zona rossa ad Alzano e Nembro.
Questa falsa alternativa fra due facce dello stesso culo è l’unica proposta dalla nostra cosiddetta democrazia liberale, parte d’un sistema socio-politico che ha tradito tutte le sue promesse di benessere, libertà, sicurezza e progresso.
Ma la misura è colma.
Gli Stati Generali potrebbero davvero portare al Conte Tacchia la stessa fortuna che portarono a Luigi XVI.