di Mauro Baldrati
Recentemente ho visto Lo chiamavano jeeg robot. Niente male. È un film in controtendenza rispetto ai blockbuster americani coi supereroi, sempre attraenti, palestrati, mezzo guerrieri e mezzo comici, platonici, puritani. Il nostro, Enzo Ceccotti/Jeeg Robot, interpretato da un cupo, scontroso Claudio Santamaria, non lo è per niente. Non ha amici, non ride mai. Fa una vita povera e arida. In comune coi suoi fratelli patinati, per fortuna, ha un superpotere vero (l’ultra forza), e non qualcosa di inutile, come se per distinguersi a tutti i costi dallo stereotipo hollywoodiano l’eroe/non eroe dovesse per forza essere un tipo strambo, con un superpotere strambo. Enzo solleva un omaccio obeso che peserà due quintali e lo scaraventa in mezzo alla stanza. Sposta un intero tram. Strappa dal muro un bancomat. Sfonda a pugni lo sportello blindato di un portavalori.
I personaggi (pochi, essenziali, il che ci risparmia un faticoso inventario dei nomi) sono ottimamente rappresentati, soprattutto il malavitoso “Lo zingaro”, interpretato dal grande caratterista Luca Marinelli.
Uno solo non funziona. Anzi, se non rovina, quanto meno danneggia pesantemente il film: Alessia, la ragazza prima avversaria, poi amica e infine amante di Enzo. Querula, sciocca in modo imbarazzante, i suoi dialoghi con Enzo sono quanto di più noioso possano concepire un regista e uno sceneggiatore. Non vogliamo infierire, ma è spiacevole quando un’opera viene sfregiata da una caduta nello stereotipo. Alessia, fissata col cartone animato giapponese Jeeg Robot, di cui ci dobbiamo anche sorbire alcuni spezzoni, trasfigura in una creatura che vorrebbe essere pazzoide in modo creativo, dovrebbe far ridere e anche intenerire, invece, quando è possibile, ce la togliamo dalle scatole con l’avanzamento veloce.
Proprio questa figura femminile fallita mi ricorda invece uno dei tanti “compadri” (al femminile, commadri?) letterari: Linda, dal romanzo Il compagno, di uno dei più osannati, ma anche controversi autori del neorealismo in letteratura: Cesare Pavese. Anche lei è pazzerella, anticonformista, ma in quanto tale è perfettamente realizzata. E’ misteriosa quanto basta per ossessionare Pablo, che non sa quali segreti nasconda, quale doppia vita conduca. I loro dialoghi sono avvincenti, ne desideriamo sempre di nuovi, per capire, per sognare. Pavese non le applica la sua straziante misoginia, che invece troviamo qua e là, come una zavorra, nella sua opera. Un difetto che, purtroppo, ci impedisce di definire Pavese un grande scrittore; o meglio, è un grandissimo scrittore con un difetto. Perché non è riuscito a risolvere completamente questo sentimento nella narrazione, anche perché il suo rancore verso la donna (la madre? direbbe qualcuno) si porta dietro una tristezza e un senso di sconfitta che coprono il suo sistema vitale come un velo opaco.
Linda ricorda un’altra eroina che si caratterizza non solo per il detto, ma anche per il non detto, perché avvolta in un mistero impenetrabile: Mona di Henry Miller, la moglie un po’ pazza (l’autore è stato sposato con June Mansfield, poi ricoverata in un ospedale psichiatrico), disposta a tutto per aiutare il narratore Henry, scrittore sconosciuto e spiantato. Sappiamo che fa cose strane quando non è in scena, cose turche, cose disdicevoli. Forse si prostituisce con i ricconi, pur di guadagnare i soldi che permettano a Henry di andare avanti con la scrittura. Ma Miller non lo rivela, non alza il velo, perché proprio la qualità dello scritto permette di far intravedere i segreti del non scritto che fanno volare la fantasia. E Mona è viva, originale, una figura femminile carica di intensità.
E altre tre donne che in qualche modo si assomigliano, si completano: Albertine, Gilberte e Odette di Marcel Proust. Anche l’autore della Recherche è in qualche modo problematico con la donna (la madre? continuerebbe a dire quel qualcuno). Ma ne capolavorizza il mistero, che è insondabile, perché per quanto si accanisca, l’uomo, l’amante, non potrà mai svelarlo; e questa è la sua condanna, la sua discesa agli inferi. Il grande scrittore, per essere tale, usa i suoi demoni, li rende creativi, senza esserne vittima e ostaggio, come talvolta lo è Pavese.
Ma è vero anche il contrario. Madame Bovary non è misteriosa. Di lei sappiamo tutto. Se mente, sappiamo che lo fa e perché. É una sognatrice che vuole evadere dalla vita nell’alta società. E in questo è impotente, perché tutto è in mano all’uomo. Deve essere sottomessa, non ha, né può avere, alcun potere. L’unica sua risorsa è il corpo, l’amore, l’adulterio. E proprio in questa sincerità – che resta tale anche nella menzogna – sta la sua sconfitta. La sua tragedia. Che non è solo letteraria, ma lo è della donna come personaggio collettivo. E per questo diventa un’altra figura femminile di statura artistica immensa.
Questo confronto non ha lo scopo di peggiorare ulteriormente la povertà espressiva di Alessia, ma solo sottolineare come un regista e uno sceneggiatore, per essere “grandi”, debbano evitare di creare i personaggi in laboratorio, ma amarli, per renderli vitali. In Anna Karenina Tolstoj mette se stesso nella figura di Levin, per cui è dentro al romanzo, interagisce coi personaggi. Di Proust neanche a parlarne. Nella gelosia compulsiva di Swann per Odette c’è il suo amore, talvolta platonico ma ossessivo, per alcune donne, in particolare per Laure Hayman, mondana d’alto bordo, o cocotte, che è il modello principale di Odette.
(Le foto:June Mansfield, Laure Hayman, Madame Bovary)