di Stefano Bigliardi
[Intervista* con Fabrizio Lorusso, dal Messico, pubblicata su L’Atea. Rivista di cultura atea, agnostica e razionalista, Numero unico maggio 2020]
La conoscenza che in Italia si ha del Messico è scarsa. A livello popolare, sono diffusi stereotipi veicolati da film vecchi e nuovi, che ne creano una percezione superficiale e frammentaria, il che porta a ignorare come la repubblica federale messicana, con il suo vastissimo territorio (che comprende 32 Stati più la capitale), la sua diversità culturale, e la sua storia complessa, sia in realtà, nel bene e nel male, un enorme laboratorio politico e sociale. Un laboratorio in cui, al netto di elementi tipicamente e irripetibilmente e messicani, si sono tentati esperimenti, e si sono osservati fenomeni destinati a ritrovarsi anche in forma dilagante nel resto del mondo. Tanto per citarne alcuni: l’opposizione tra una dimensione indigena e rurale e quella globalizzata e urbana, la contraddizione tra rivendicazione culturale autoctona e anelito alla way of life statunitense, il neoliberismo portato alle estreme conseguenze, l’affermazione delle chiese evangeliche, la migrazione di massa e clandestina verso il vicino più ricco, la militarizzazione del Paese in risposta alla criminalità organizzata. Ci è sembrato dunque importante rivolgere lo sguardo al Messico, e per farlo ci siamo affidati alla competenza di Fabrizio Lorusso. In Messico da vent’anni, di cui una quindicina trascorsi nella capitale, attualmente professore-ricercatore presso l’Università Iberoamericana di León, giornalista freelance, Lorusso annovera tra le sue numerosissime pubblicazioni il libro Santa Muerte. Patrona dell’umanità (Stampa Alternativa, 2013), e Narcoguerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga (Odoya, 2015).
Stefano Bigliardi (SB). “Cominciamo, Fabrizio, con qualche dato. Com’è la situazione attuale in Messico? Quali sono le previsioni?”
Fabrizio Lorusso (FL). “I numeri ovviamente cambieranno e i lettori potranno trovarli facilmente, ma nel momento in cui ti parlo ci sono 174 morti accertati e oltre 3500 contagi. Ma c’è una stima che va dai 26.000 ai 30.000 possibili casi, che il Ministero della Salute ha divulgato proprio ieri [7 aprile, NdR]. Occorre tenere conto che, in proporzione al territorio nazionale, il numero dei test effettuati è scarso. Morti e contagi sono concentrati a Città del Messico [8,85 milioni di abitanti, NdR] e nel suo hinterland, che è lo Stato del Messico [16,20 milioni di abitanti, NdR]. Per ora sembra che la ‘curva’ proceda abbastanza lentamente rispetto ad altri Paesi, e che il picco sia previsto verso la fine del periodo di quarantena attualmente decretato, il 30 aprile, anche se la stima dei contagi è basata su cifre imprecise, quindi ci si aspetta che le misure di distanziamento sociale siano prolungate oltre la fine del mese”.
(SB). “Che decisioni sono state prese dalla politica, e sulla base di quali idee (o ideologie)? Hanno interferito motivi religiosi? Si sono registrati slittamenti di posizione nel tempo?”
(FL). “Nelle decisioni prese dalla politica abbiamo riscontrato un pragmatismo caratterizzato anche da un certo anticipo rispetto ad altri Paesi. La cosiddetta ‘Fase 1’ è durata fino a fine/metà marzo e però già durante quella, quando ancora i decessi erano pochissimi, si erano prese misure da ‘Fase 2’; in altre parole, tra il 17 e il 20 del mese sono state chiuse le scuole e sono stati proibiti gli assembramenti. Per contestualizzare ulteriormente bisogna ricordare che il sistema sanitario messicano è carente, a causa di trent’anni di crisi e di tagli. C’è un settore pubblico, frammentato e corporativo, che non ha copertura universale; la spesa sanitaria è circa il 3% del PIL, dato da paragonare al 6-8% dell’Italia, e a spese superiori all’8% in altri Paesi dell’OCSE. Il settore privato è analogamente frammentato, con sotto-settori che servono gli strati medio-bassi della società, e altri per i ricchi o comunque per chi ha un lavoro fisso e un’assicurazione privata. In questo quadro sono state prese misure anche prima che lo facesse il Ministero, e pare che abbiano rallentato la ‘curva’, grazie all’esperienza maturata durante l’epidemia di H1N1 del 2009. Alla fine di marzo si sono prese le decisioni più dolorose per l’economia, vale a dire, la dichiarazione di emergenza sanitaria e la chiusura di tutte le attività non essenziali, quindi anche i piccoli negozi, fabbriche, servizi. Misure peraltro non del tutto rispettate, anzi. Ricordiamo che quasi il 58% dell’economia messicana è informale, il 45% della popolazione è considerata sotto la soglia della povertà e quindi vive alla giornata. Comunque è da circa un mese che la popolazione è bombardata dagli spot pedagogici sulla sana distancia, una misura che non rappresenta uno stato d’eccezione, come in altri paesi latinoamericani, e che sta risultando più o meno efficace a seconda delle diverse zone del Paese. In tutto questo, ripeto, si vede un pragmatismo da parte del governo, che ha seguito un percorso tecnico, se non proprio tecnocratico, e che d’altro canto scontenta le imprese, per le quali si prevede un altissimo numero di fallimenti che poi avranno costi a carico dello Stato.
Ma attenzione, come sempre in Messico, la situazione è complessa e non sempre coerente. Ci sono attualmente due piani della politica, rappresentati da due diverse istituzioni che comunicano al pubblico con modalità diverse e che sono sfasate temporalmente nell’arco di una stessa giornata. Uno è appunto il Ministero della Salute. L’altro piano è rappresentato dal presidente Andrés Manuel López Obrador, noto con l’acronimo AMLO, classe 1953, in carica dal 1° dicembre 2018, e alla guida del Movimiento Regeneración Nacional. Si tratta di una figura carismatica dalle notevoli doti oratorie. Tiene una conferenza stampa tutte le mattine (peraltro divagando anche su altri temi rispetto al virus), mentre il Ministero della Salute si fa sentire alla sera attraverso il sottosegretario ed epidemiologo Hugo López-Gatell.
Il presidente ha suscitato polemiche, non solo con le dichiarazioni, ma anche con il comportamento, Specialmente in marzo, all’inizio della crisi. I discorsi di López Obrador hanno incluso elementi folkloristici e messianici, per esempio quando si è presentato con un’immaginetta della Vergine di Guadalupe asserendo che fosse la sua protezione [sarebbe apparsa nel 1531 ed è una vera e propria icona nazionale, NdR]. Anche prima della crisi AMLO non ha mai nascosto le sue credenze religiose nei discorsi ufficiali e ha sempre usato un linguaggio vicino a una parte del popolo e basato sulla superstizione. Ricordiamo anche che aveva stretto un’alleanza elettorale con il PES, Partido Encuentro Social, legato alle chiese evangeliche. Il presidente si è quindi sempre mosso tra cattolicesimo tradizionale e ‘nuovo cristianesimo’, che rappresenta un certo potere, in crescita. Certo, non parliamo di un messianismo ai livelli di Trump o di Bolsonaro, ma per esserci c’è, ed è mescolato alla volontà di non far cadere a picco l’economia. A questo, in tempi di COVID-9, il presidente ha aggiunto un altro elemento, il richiamo alla resistenza stoica e storica del popolo messicano.
La ‘sfida’ del presidente non si è limitata alle parole, ma si è notata anche nelle azioni: infatti ha tenuto comizi, ha inaugurato autostrade, si è trovato in mezzo ad assembramenti, e fino a qualche giorno fa toccava e baciava le persone. È persino sceso dalla pur austera macchina presidenziale per salutare la madre del Chapo Guzmán, donna di novantadue anni che gli aveva scritto esprimendo il desiderio di visitare il figlio in carcere negli USA prima di morire. Il presidente, il mattino dopo, si è dovuto giustificare in conferenza stampa, ed è ricorso a dei giri di parole sulla figura della madre, che culturalmente fa presa, anche se in questo caso si tratta della madre di uno dei più grandi trafficanti della storia, con decine e decine di omicidi a suo carico. Con quell’atto si è determinata, in piena crisi da COVID-19, una doppia crisi di legittimità. Ricordo poi che in altre conferenze ha sostituito i santini con dei quadrifogli portafortuna come elemento di protezione, ma la sostanza, ecco, è quella”.
(SB). “Al di là della politica, che reazioni popolari si notano? Le religioni hanno giocato un ruolo degno di nota?”
(FL). “Per quanto riguarda la popolazione, che è parte del mio vissuto oltre che di quello che leggo, ci sono da registrare altre reazioni, con sicuramente delle intersezioni rispetto a religione e religiosità. Ancora in marzo, dei preti anche molto in vista, per esempio nello Stato di Guerrero, hanno dichiarato che a loro il virus non interessava e che avrebbero continuato a celebrare cerimonie e messe. Questa ‘sfida’ si è poi ridimensionata in aprile. Tuttavia, nonostante le proibizioni, le chiese, come del resto certi negozi e certe imprese, sono sempre aperte. Non ho visto manifestazioni di massa, ma piccoli assembramenti di persone sì: e pensiamo che ne è delle misure sanitarie quando si usa l’acqua santa, quando ci si siede sulle panche e c’è un viavai di fedeli senza mascherina. Tanto nella religione quanto nella piccola economia si riscontra quindi una volontà piuttosto ‘tiepida’ di mettere in atto le misure, e spero non costi contagi e vite. Dipende poi molto dalle regioni messicane e dallo zelo dei governi locali nell’implementare le misure di sana distancia, per cui in alcuni casi, compresa la capitale, ci sono state riduzioni nei trasporti e movimenti del 70-80%, mentre in altre zone solo del 30%.
Io vivo a León, nello Stato del Guanajuato, profondamente conservatore e cattolico, e ho notato altri fenomeni degni di nota. Il discorso del presidente sulle protezioni divine, anche legate a veri e propri amuleti (López Obrador ha mostrato lo scapolare in TV), che pure nel corso del tempo è andato diminuendo, è in accordo con reazioni popolari, o le suscita. Si vedono tutto d’un tratto effigi di Cristo attaccate alle porte, le persone fanno discorsi sulla protezione divina (peraltro sta per arrivare la Semana Santa della Pasqua), il tutto in una zona grigia tra superstizione e fede. Da aprile, comunque, non si registrano dichiarazioni di sacerdoti volte a sminuire la pericolosità del contagio o, al contrario, a creare una ‘comunità del dolore’. Ho visto però delle piccole processioni, non legate alla Semana Santa ma all’epidemia, con fedeli muniti di megafono che andavano per le strade invocando protezione dalla malattia e richiamando alla fede”.
(SB). “Qual è la concezione della morte in Messico?”
(FL). “Sulla concezione della morte in Messico sono state scritte biblioteche, perché è parte del patrimonio tradizionale nazionale, ed è stata anche esportata, commercialmente e culturalmente. In realtà questa concezione è formata da diversi ingredienti che possono mescolarsi, ma non sempre lo fanno, e che non hanno necessariamente un’origine comune. Ci sono le celebrazioni dell’1 e 2 novembre, per il Día de muertos, che sono patrimonio dell’UNESCO e sono molto apprezzate tanto dai messicani quanto dai turisti. In quei giorni si crea una “vicinanza” tra vivi e morti, si costruiscono altari multicolori con tutte le cose che piacevano ai defunti, e la celebrazione collettiva crea un legame tra ambiente domestico, piazze pubbliche e cimiteri. C’è il culto per la Santa Muerte, devozione popolare nata decenni fa, in clandestinità, che in seguito è stata trasposta in film e serie TV che la associano, con una certa semplificazione, ai narcos. Ci sono le Catrinas, statue e illustrazioni che rappresentano scheletri vestiti in abiti da dama dei primi anni del XX secolo, creati come satira dell’incisore José Guadalupe Posada [1851-1913] che si burlava con la sue opere dell’élite filo-francese all’epoca del presidente-generale Porfirio Díaz [1830-1915]. La morte, in particolare quella di Cristo, è rappresentata all’interno dell’iconografia cattolica popolare, e a tinte forti, sottolineando la sofferenza fisica; sempre la chiesa cattolica, però, respinge ufficialmente la devozione per la Santa Muerte. In parte, tutto questo ha risonanze culturali con una tradizione indigena antichissima, il culto per Mictecacíhuatl e Mictlantecuhtli, coppia di divinità mesoamericane della morte, e la credenza negli inferi. Queste risalgono all’epoca precolombiana e ai culti delle popolazioni autoctone mesoamericane, annichilite dalla conquista e da tre secoli di dominio coloniale iberico, e ricostituitesi in seguito intorno a certi nuclei linguistico-culturali, rifluendo infine nella cultura nazionale messicana del secolo XX. Questo accadde dopo la Rivoluzione [1910-1917] quando nella nazione furono incorporati i popoli originari, o comunque una versione ricostruita della loro eredità culturale, e gli antichi messicani furono oggetto di una “re-invenzione romantica”. In tutte queste forme la morte, nella società attuale, è onnipresente. A questo si aggiunge la morte violenta, truculenta, riflessa nei media, e sistematicamente causata dalla cosiddetta guerra al narcotraffico, che altro non è se non un conflitto armato interno, per una serie di risorse, tra attori statali, parastatali e delinquenziali, spesso confusi tra loro. Anche questa morte è stata esportata, sia dai canali dell’informazione che dell’intrattenimento, specie attraverso la mediazione statunitense, suggerendo superficialmente che l’intero fenomeno narcos fosse caratterizzato da un ‘culto deviante’ della morte”.
(SB). “Tutto questo come si amalgama, e come potrebbe portare i messicani a filtrare gli eventi attuali e a scegliere un corso di azione rispetto ad un altro?”
(FL). “In generale, l’atteggiamento popolare messicano rispetto alla morte si potrebbe chiamare, semplificando un po’, ‘nichilista’, ‘fatalista’, o forse persino ‘menefreghista’, e potrebbe indurre a ignorare i rischi. Questo atteggiamento si fonde con la religiosità popolare, della quale ho già detto, e che potrebbe avere gli stessi effetti. In altre parole, si potrebbe essere portati o a minimizzare il rischio di morte con atteggiamento di ‘sfida’, o a pensare di godere di una protezione divina, andando in ogni caso contro le misure igieniche. Questa è una congettura, e potrebbe anche rivelarsi infondata. In giro, però, come dicevo in precedenza, ci sono segni di un comportamento di questo tipo.
Un’altra idea diffusa è che la morte sia ‘democratica’ (infatti tocca a tutti, e i fedeli della Santa Muerte la vedono come icona di giustizia proprio per questo). Sempre a livello popolare, allora, si potrebbe essere tentati di estendere questa concezione anche al virus, con il risultato di ignorare il fatto che, se è vero che nessuno è completamente al riparo dal contagio, il COVID-19 può falcidiare e far soffrire soprattutto le comunità più deboli (come già si è notato negli Stati Uniti), attuando una vera e propria pulizia etnica e sociale. C’è da temere per le comunità indigene, anche tenendo conto che i materiali informativi sulle pratiche di prevenzione non sono stati tradotti nelle lingue locali, per non parlare degli strumenti sanitari concreti, che scarseggiano persino negli ospedali di Città del Messico, quindi figuriamoci in Chiapas, nel Guerrero o nelle comunità rurali in cui gli ospedali nemmeno ci sono.
Tornando al presidente, López Obrador [nella foto, cortesia di Gob.Mx] conosce il ‘Messico profondo’: non solo quello indigeno ma soprattutto quello delle comunità rurali, che lui ha sempre visitato, e ha saputo captare tutti gli elementi che ho discusso. Se si tiene conto di tutto il contesto, si chiarisce senza giustificarlo, cioè si comprende in tutta la sua ambiguità, il discorso del presidente. Il richiamo al ‘resistere uniti’, se da un lato può suonare come un invito ragionevole, dall’altro, a uno sguardo approfondito, risulta essere una mistificazione della realtà, che è quella di un Paese non omogeneamente preparato e protetto rispetto al contagio e alle sue conseguenze, specie in considerazione del fatto che si è pragmaticamente scelto di non bloccare totalmente l’economia o tollerare la violazione delle misure d’isolamento, anche per non annullare l’economia popolare e “di strada”. C’è almeno un 50% di popolazione, su circa 125 milioni totali, in povertà. Chiudere tutto anche solo per una settimana significa rischiare di ridurre alla fame quell’immenso numero di messicani che lavorano senza contratti e garanzie, guadagnandosi il pane letteralmente giorno dopo giorno. Inoltre il 66% dei messicani, quindi anche chi non si trova in condizioni di povertà, presenta una qualche vulnerabilità sociale rilevante. Mancano, in particolare, di copertura assicurativa e il sistema sanitario è come l’ho descritto in precedenza. Se anche non si chiude tutto pur di salvare l’economia, nel caso in cui il virus dovesse infuriare, soffrirà molto chi è vulnerabile in termini di copertura sanitaria, o chi ha sì accesso a strutture ospedaliere, ma mal equipaggiate. Si capisce allora che tutti i discorsi sulla ‘protezione speciale’, sulla ‘sfida alla morte’, evangelici, cattolici o anche laici che siano, altro non rappresentano che un ‘far di necessità virtù’, che li si ritrovi in bocca al presidente o a un comune cittadino. Le famiglie svantaggiate non hanno scelta rispetto al resistere con pochi mezzi o al non prendere misure straordinarie, e, da qualunque parte la si guardi, la situazione è inquietante.
Tanto per farti un esempio aneddotico, la signora da cui compro abitualmente le verdure mi ha chiesto, un paio di settimane fa, se il virus è reale. Chissà se la domanda era spontanea, o se era influenzata da qualche discorso negazionista, veicolato da radio e TV. Il linguaggio del corpo, devo dire, non era quello di chi nega la malattia. Questo riesce difficile, ai messicani, vista la presenza di gravi malattie stagionali e tropicali su cui, a ogni ondata, si concentrano i discorsi. Eppure, paradossalmente, anche alla luce di questo fatto molto concreto (l’ortolana di cui ti parlo e suo marito novantenne, l’anno scorso, hanno avuto il dengue) può scattare un meccanismo volto a esorcizzare il COVID-19, se si arriva cioè a sostenere che malattie come il dengue e lo zika sono appunto reali e tipiche del Paese, mentre il coronavirus sarebbe proprio dei Paesi più freddi e quindi tutto sommato meno preoccupante. Questo è un discorso ‘eccezionalista’ che, non a caso, sempre López Obrador ha fatto suo e diffuso, almeno in una prima fase, peraltro senza precisare alcun dato scientifico sulla temperatura esatta che avrebbe fatto la differenza. Certo, nei deserti messicani c’è una notevolissima escursione termica, ma non ci sono le persone, il che rende ogni discorso al proposito, quand’anche fosse scientifico, non applicabile alle città, in cui al momento c’è un clima simile a quello del mese di maggio in Italia.
La signora ortolana, insomma, cerca di afferrarsi a questo o a quell’altro motivo come meccanismo di auto-rassicurazione per poter andare avanti. È vero che vende un bene essenziale, ma è anche vero che la natura del suo commercio, le condizioni igieniche dello stesso, e la sua età, la espongono al contagio, e comunque, finanziariamente, lei non può permettersi di chiudere così come non potrebbe permettersi cure adeguate. Purtroppo, in quella signora, si ritrova rappresentato, se non tutto il Messico, una sua grande parte”.
* L’intervista si è svolta attraverso WhatsApp tra il 7 e l’8 aprile 2020. Il presente adattamento è stato approvato da Fabrizio Lorusso, che ringrazio per la pazienza e la disponibilità.