di Nino Buenaventura
[Da poco rientrato in territorio italico e al momento senza un’assemblea dove discutere]
Dal 4 maggio siamo entrati nella fase due. Alcuni meme ironizzavano: “Sarà come la fase 1, ma con le maniche corte”. A giudicare dal meteo non tutta la penisola le ha sfoggiate e, intanto, da qualche giorno siamo entrati nella fase 2.0, un altro passo in direzione della normalità che però, ci ripetono fino alla nausea, “non sarà mai come prima”. Abbiamo finora preso atto che la pandemia da COVID-19 è un fenomeno serio, da non prendere sotto gamba e che rischia di mettere a dura prova le nostre società del capitalismo senile, ma attenzione: non possiamo credere che un virus possa dar il colpo di grazia al capitalismo e farlo crollare. Le crisi economiche, come quella che seguirà, sono sintomi delle contradizioni fondamentali, ma servono al sistema solo per riorganizzarsi e perpetrarsi. Si può riconoscere una difficoltà dei rapporti sociali di produzione capitalistici di ampliare la propria base materiale e quindi di riprodursi a un tasso sufficientemente alto da far cadere qualche briciola dal tavolo dei ricchi, ma lasciamo queste riflessioni a più validi analisti.
Insieme all’operaismo italiano, credo che l’unico limite al capitale è la resistenza della classe operaia, il proletariato, insomma, come scrisse Renato Panzieri nei Quaderni Rossi [1]. E allora possiamo chiederci in questa precisa contingenza: cos’è in gioco che attiene alla classe proletaria, tanto come strategia, che come tattica, in un momento in cui gli interessi del capitale mettono in pericolo la riproduzione stessa della vita, come sempre d’altronde, ma oggi con la mortalità della relazione capitale-lavoro peggiorata dal Coronavirus. Sembrerebbe che la dicotomia sia “produciamo e moriamo o conserviamoci e viviamo”. Ma a questo punto potremmo domandarci: cosa conserviamo? Cos’è la vita? Da cosa è composto il soggetto?
Il governo, Confindustria e Confcommercio, come ha sottolineato il collettivo di scrittori Wu Ming [2], considerano la conservazione della vita secondo il trittico dei sacramenti imposti alla classe proletaria “produci-consuma-crepa (con moderazione)”. Quel “crepa con moderazione”, non significa che la classe borghese è realmente interessata alla vita del proletariato e preoccupata per chi dovrà vivere un lutto. La borghesia è preoccupata per la forza lavoro di cui noi siamo portatori e che la nostra capacità di consumo si restringa. Non pensano nemmeno per un momento di dividere valore della forza lavoro dalla capacità di consumo giacché la seconda dipende dalla prima: figuriamoci se la classe borghese può permettersi di retribuire (con salario o reddito che sia) un lavoratore al di sopra del suo valore senza tradire il suo ruolo sociale, ovvero senza ridurre il profitto grazie al quale riproduce il suo dominio sulla società. In più, “crepa con moderazione” gli è necessario a non perdere la governabilità della società che, a fronte di una selezione naturale scellerata, potrebbe richiedere la testa del Re. A tutto ciò, con l’avvicinarsi della attesissima normalità 2.0, si è aggiunta al coro delle voci bianche anche Confagricoltura che candidamente ha richiesto una legalizzazione dei braccianti agricoli migranti giacché “con il reddito molti preferiscono stare a casa” [3]. Benché la regolarizzazione dei e delle migranti sia auspicabile e terreno di lotta dal basso, Aboubakar Soumahoro (USB) ha giustamente fatto notare che “non vanno regolarizzate le braccia, ma gli esseri umani. Il decreto Rilancio contiene un provvedimento di regolarizzazione delle braccia e non della salute delle persone” [4]. Come dire che, con l’obiettivo di regolarizzare la merce-forza lavoro, per paura non sia sufficiente, loro malgrado, devono regolarizzare anche i suoi possessori, ovvero i migranti.
Mentre ammantano il decreto di lotta al caporalato agiscono con il terrore che una scarsità di forza lavoro migrante riduca l’offerta di mano d’opera e siano addirittura costretti ad aumentare i salari, tanto a quelle braccia italiane rubate all’agricoltura tornate per l’occasione, quanto, ancor più inaccettabile per la mentalità coloniale, alzare i salari anche agli stessi migranti. La regolarizzazione offerta dal decreto Rilancio, così ristretta numericamente, non è altro che uno specchietto per le allodole e una freccia in più all’arco del caporalato per attirare forza lavoro stagionale e controbilanciare il possibile squilibrio tra domanda e offerta.
In questo momento, giacché l’alternanza tra lockdown e normalità 2.0, per come è stata architettata fin ora, non salva vite, ma rallenta la morte, l’unico obiettivo che realmente ci tiene tutti sulla stessa barca è, quindi, crepare con moderazione e, dunque, vivere poco. Vivere poco in termini di restringimento della vita, nei termini di una astinenza dal piacere, dai desideri e dalla socialità, compresa la repressione del diritto politico alla comunità.
Con l’annuncio della fase 2 è stato declamato il quarto sacramento di classe “riproduci la sacra famiglia”. Elementare, la riproduzione della forza lavoro grazie alla salvaguardia della vita biochimica dei soggetti non è comprensibile senza quella riproduzione, operata principalmente dal lavoro non retribuito delle donne, tra cui spiccano le badanti migranti anch’esse magnanimamente legalizzate con il disonesto meccanismo di cui sopra, che permette di ampliare la base della classe sfruttabile dal capitale. In che misura la possibilità di andare a trovare i famigerati congiunti serva effettivamente riprodurre la classe lavoratrice non ci interessa: è la logica sottesa che informa questi decreti adottati all’interno del sistema capitalista-patriarcale che mi sembra avvincente. Nella fase 2.0 apriranno alla possibilità di tornare a frequentare le amicizie, ma sempre senza assembramenti. Da notare come manchi, nella teleologia istituzionale, il ritorno alla possibilità di manifestare il proprio dissenso. Sembra piuttosto che l’obiettivo sia quello di mantenere la popolazione su un “chi va là” generalizzato pronti a gettare sull’indisciplinata popolazione la responsabilità di nuove chiusure delle attività non economiche. Una sorta di potere pastorale che mima “in piedi, a sedere” delle panche cattoliche.
Tornando alla quadruplice trinità, il soggetto è preso in considerazione come contenitore biochimico di forza lavoro, da salvaguardare sotto vetro, quando non deve adempiere a uno di questi quattro sacramenti. In quel caso può rischiare, e molto, di ammalarsi. Vita (ri)produttiva si, vita improduttiva no. D’altronde l’estrazione di dati da parte delle piattaforme continua a ritmo sostenuto, con riders che pedalano, consegne a domicilio che vedono Amazon diventare sempre più grande e una intensa attività su social e su piattaforme di streaming da parte dei quarantenati. L’obiettivo della comunicazione è stato spostare la causa dell’aumento dei contagi dal frangente del tempo produttivo (andare a lavoro) a quello improduttivo, durante il quale scellerati runners si prendevano cura del proprio corpo e dei propri nervi andando a correre o, grazie a truffaldini video di Repubblica.it [5], gli incauti passeggiatori dei Navigli di Milano che, registrati con lenti che schiacciano le distanze, appaiono come un’orgia di vicinanze e birre in orario aperitivo.
La fase due ha evidenziato che la società borghese si assume il rischio statistico di tenere aperte le infrastrutture produttive e di perpetrare il profitto, che ovviamente è di proprietà solo di alcuni, ma non concepisce il rischio-necessità di concedere spazi di riproduzione di desideri, emozioni e forze psicologiche, se non quelli minimi per non far saltare in aria la pentola a pressione.
Sostanzialmente stare a casa, e la riduzione della vita non economica, permette di tenere aperte le fabbriche al costo del sacrificio della parte improduttiva del soggetto, quella parte fatta di desideri, socialità e affetti. Con la decretazione complessa e confusionaria, lo ha riassunto bene il fumettista ZeroCalcare nel penultimo episodio del suo volume Rebibbia Quarantine: “Non sai mai se quello che stai a fa’ lo potresti fa’ o no, così devi sta’ sempre in tensione e non te poi mai inflaccidì”. Se invece stai andando a lavoro? Quello non solo lo “puoi” fare, ma lo “devi” fare. Rischiamo, con i prossimi focolai, che renderebbero probabili nuovi lockdown, una criminalizzazione dei desideri e di appiattirci in un braccio di ferro infinito per non-lavorare, dove, ripetiamolo, l’alternativa rimarrebbe “casa o lavoro”. Per tutti e tutte quelle che sono andati a lavorare in fase 1 e in fase 2 è risultato significativo: vai a lavorare, ma poi dritto a casa. Puoi rischiare di contagiarti per il profitto, non per te stesso o per la tua comunità affettiva, almeno che essa non sia consacrata da Dio o dallo Stato.
Se pensiamo alla cura dell’infanzia che è scaricata sulle famiglie, spesso disfunzionali, spazi di violenza di genere, insomma, insicuri non solo per l’infanzia, la cosa si fa ancor più grave. L’infanzia e l’adolescenza subiranno un duro colpo, ma ciò non è preso in considerazione, se non nella misura di permettergli di aggiungere valore alla loro forza lavoro attraverso le lezioni online. I bambini hanno necessità altre rispetto alla mera educazione ed hanno strumenti razionali meno sviluppati per poter elaborare una situazione di così grande pressione, ma chiedere al sistema politico neoliberale di una società senile di interessarsene è come chiedere mele a un pero. D’altronde i e le minorenni non votano. Un ultimo riferimento necessario è poi a chi una casa non ce l’ha e chi dalla strada tira fuori il suo sostentamento quotidiano e non è direttamente produttivo per il capitale: quella è vita contenitrice di una forza lavoro avariata, pericolosa, sprecabile. Le strade sicure le fanno le persone che le abitano e adesso, per tutti e tutte quelle che sono obbligate a starci, sono molto più pericolose che nella mal chiamata normalità. La pericolosità deriva proprio dal mancato controllo democratico dell’operato delle forze dell’ordine. Non eravamo là e forse ci saremo ancora poco, ma i poliziotti si! E senza freni, se non la loro spesso fallace coscienza.
Di fronte a questa situazione il lockdown e i richiami alla responsabilità sembrano indiscutibili, se non per mettere in campo importantissime azioni di mutualismo e solidarietà che hanno la meravigliosa capacità di generare realmente un tessuto solidale e autonomo dal basso. Si parla, per esempio, di collette alimentari per tutti quei singoli e famiglie a cui l’emergenza e le scelte del governo, che hanno priorizzato la borghesia industriale, ha lasciato senza un ingresso sufficiente.
Mi domando, però, che conseguenze ha non criticare e rompere questi arresti domiciliari di massa? Anche se prossimamente ci permetteranno di andare nei bar e ristoranti, ben distanziati, e vedremo i prezzi salire per assorbire la riduzione dell’offerta, dato che per decreto i ristoranti potranno servire solo un certo numero di clienti in base ai metri quadri che hanno a disposizione, sarà pur sempre un recupero della socialità mediata dal consumo. Chi potrà permettersi di andare al ristorante? Corriamo, dunque, il rischio che la socialità e quelle necessità umane non direttamente economiche saranno ancor più assoggettate, attraverso lo stretto imbuto dell’emergenza, alla sfera del consumo.
Credo che, anche sotto la bandiera del rifiuto del lavoro, ci potrebbe essere una ricaduta nella visione lavorista della vita. Rivendicare la chiusura totale del comparto produttivo per salvaguardare prima la salute biochimica delle persone è molto più che condivisibile, ma se non è accompagnato da una rivendicazione forte dell’ampliamento della base sanitaria, così da poter permettere il godimento di tutta quella parte di vita che non è direttamente produttiva, non si rischia per caso, anche se in forma di negazione, di riaffermare la centralità dell’elemento lavoro nella concezione del soggetto? Mi spiego meglio: chiudere le fabbriche perché non vogliamo vendere la nostra forza lavoro al prezzo della possibilità di ammalarsi è una lotta fondamentale, ma da sola è un po’ come riaffermare che quel che conta è solo l’astensione dal lavoro, anche a costo di stare a casa e rinunciare alla propria vita non produttiva. Per negazione si riafferma un soggetto quasi esclusivamente portatore di forza di lavoro, affine, anche se antagonista, alla logica borghese. Niente di più lontano dall’assalto al cielo. Anche se pare, nell’euforia per l’avvicinarsi della “normalità 2.0”, che il dibattito chiuso/aperto sia stato superato, la sua logica ci accompagnerà fin quando non scopriremo cosa “non sarà più come prima” con il superamento dell’emergenza oppure in altri probabili lockdown.
Rompere la logica del profitto e rifiutare il lavoro dovrebbe essere, in opinione mia, la rivendicazione politica della completezza del soggetto al di sopra della sua sfruttabilità, della trasformabilità della forza lavoro in merce. Stessa critica potrebbe essere mossa alla richiesta di un reddito, a meno che non sia accompagnata dalla rivendicazione di spazi e tempi per godere di quel reddito, dentro e fuori la sfera del consumo. Prendersi cura degli e delle altre, anche dal punto di vista epidemiologico, dovrebbe stare alla base di una apertura al soggetto non produttivo, e non un tendenzioso “in sicurezza e siate responsabili”. Dobbiamo dunque darci la possibilità di ripensare seriamente le nostre pratiche di cura, perché se esse venissero meno in concomitanza degli allentamenti della vigilanza dello Stato, mettendo nuovamente a rischio la comunità allargata, non sarebbe altro che la triste riprova che quella vigilanza è tuttora necessaria.
Chi in questo periodo, tra i soggetti politici che finiscono più facilmente sotto i riflettori, ha fatto i richiami più forti ad aspetti del soggetto che non siano lavoro o non lavoro? Triste da riconoscere: la CEI, ovvero la parte reazionaria della chiesa italiana. Nel richiedere di tornare alla “santa” messa si incaricano (con il fine di alienarlo, ovviamente) dell’aspetto spirituale del soggetto. Perché stare in un edificio a pregare dovrebbe essere una richiesta comprensibile (ancorché costituzionale), mentre partecipare a un’assemblea o frequentare i propri affetti con le dovute misure sanitarie di cura, no? La società non è forse fatta di rituali (laici o religiosi) che cimentano le comunità? Non vorrei lasciare l’onere esclusivamente alla Santa Chiesa di occuparsi del lato comunitario dell’umano.
Allora non possiamo non considerare che si sta impoverendo il soggetto fino a ridurlo ancora una volta a mero lavoratore (o non-lavoratore), commettendo il consueto errore novecentesco che, con eccezione dell’area anarchica, recentemente schifosamente repressa in via “precauzionale” a Bologna, con una sorta di profilassi sociale, consiste in dimenticarsi l’esistenza di soggetti che, vivendo al margine delle relazioni di classe, sono colpiti più violentemente dalla crisi e dallo Stato, non essendo “a pieno” portatori/portatrici di forza lavoro da mettere a produzione e che banalmente non possono astenersi dal lavoro.
Potrebbe essere il momento di chiedere la chiusura di fabbriche e posti di lavoro, ma con il fine di diffondere una cura integrale del soggetto, ovvero liberare il tempo libero o riappropriarsi del tempo improduttivo, e dei soggetti, ovvero dare voce a tutti e tutte quelle che questa crisi, emergenza, pandemia, la soffrono più degli altri, compresa l’infanzia. Non sarebbe però un’operazione piana: smascherare la violenza insita alla trasformazione della forza lavoro in merce e combatterla è anch’esso un atto violento.