di Roberto Gastaldo
Such a shame to believe in escape
A life on every face
And that’s a change
‘Til I’m finally left with an eight
Tell me to relax, I just stare
Maybe I don’t know if I should change
Talk Talk – Such a shame – 1984
Era un anno prima, moriva Mark Hollis, e io sentivo questa sensazione che, in mancanza di una definizione migliore, descriverei come una malinconica e dolorosa rassegnazione, in fondo la stessa che suggerivano le loro canzoni. Nell’anno precedente erano morti Chris Cornell e Chester Bennington, e anche se istituire un collegamento logico tra questi avvenimenti può sembrare arbitrario la mia sensazione si ripresentava ogni volta che sentivo un pezzo dei Soungarden o dei Linkin. Sul momento la trovavo una di quelle sensazioni passeggere e prive di un reale significato che tante volte mi era capitato di avere, ma un anno dopo, quando la sensazione si ripresentò, questa volta collegata a fatti di molto maggiore impatto sulla mia vita, ripensai a quella di un anno prima come una premonizione.
Nei giorni in cui il coronavirus varcava i confini della Cina e poi dell’Asia, raggiungendo rapidamente un’Italia al solito impreparata alla novità, e più del solito in balia di aggressivi incapaci che per cercare di distogliere l’attenzione dalle loro colpe ingaggiarono un’assurda battaglia contro la libertà di movimento, iniziai a riportare sul mio blog un diario delle mie giornate. Oggi non ricordo più se lo feci con l’intenzione di sfogare la frustrazione che provavo, o per futura memoria, o per chissà quale altra ragione ancora, ma trovo che quelle pagine, a prescindere da quante delle cose che prevedevo o temevo si siano avverate, rendano ancora bene l’atmosfera di quei giorni
Lunedì 9 marzo
Mattina, rientro al lavoro, che giovedì e venerdì ho preso due giorni di ferie per cercare di gestire la chiusura della scuola materna di mio figlio Paolo voluta dal buon governatore che, nonostante in Piemonte non ci fossero ancora numeri rilevanti di contagiati, da perfetto novarese si sente più vicino a Milano che a Torino, e in fondo la geografia gli dà ragione. Rientrando trovo le palazzine semideserte, di qualche centinaio di persone che ci lavorano ce ne sono forse cinquanta, e i cinque colleghi del mio gruppo sono uno in malattia, per una normale influenza, e quattro in telelavoro. Due dei quattro mi contattano via skype e mi dicono di organizzarmi per iniziare anch’io il telelavoro da domani.
Lì per lì, superati i problemi tecnici e burocratici, mi sembra una buona notizia, certo con Paolo che mi gira attorno lavorare non sarà semplicissimo, ma almeno risparmieremo i soldi della babysitter. Tutto sommato mi sembra una soluzione vantaggiosa, ma in questo ragionamento non tengo conto di un’altra informazione che arriva solo in serata: l’annuncio dell’estensione della zona rossa a tutta l’Italia.
Martedì 10 marzo
La mattina passa rapida, c’è la babysitter che non abbiamo voluto disdire all’ultimo minuto, e la cosa mi torna comoda perchè in realtà i problemi tecnici erano superati solo in parte, mi ci vuole tutta la mattina e un pezzo di pomeriggio per arrivare a connettermi e iniziare a lavorare. Però il resto fila tutto, Paolo passa una buona parte della giornata nel cortile condominiale, che fortunatamente è bello grande, e tutto si svolge senza intoppi, finito il lavoro passo anch’io una mezz’ora in cortile a tenerlo d’occhio. Mi mette comunque a disagio il fatto che in tutta la giornata non esco dal portone.
Mercoledì 11 marzo
Oggi mia moglie Claudia è a casa, prima che sapessimo del mio telelavoro aveva preso ferie, sempre per gestire la chiusura scuole, quindi di Paolo si occupa lei fintanto che io lavoro. Verso le sei esco persino e copro quasi trecento metri per raggiungere il macellaio, più altrettanti al ritorno.
Giovedì 12 marzo
Primo giorno a regime. Paolo è molto collaborativo. Gioca, colora, chiede e ottiene una razione supplementare di cartoni animati, la connessione pur con qualche caduta ogni tanto funziona, insomma tutto abbastanza bene. Anche oggi esco dal portone, cinquanta metri per andare a buttare il sacchetto dell’organico, ritorno compreso. Sarà ridicolo ma quei pochi metri mi fanno sentire un po’ meno colpevole di essermi autorecluso.
Venerdì 13 marzo
Giornata simile a ieri, con la differenza che Paolo comincia a dare segni di insofferenza per l’isolamento, e soprattutto per il fatto che io sono in casa ma, dovendo lavorare e anche recuperare il ritardo causato da due giorni di ferie e quasi uno intero di mancata connessione, non posso dargli retta. Hai voglia a trovargli un gioco che possa fare da solo, o a chiedergli di scegliersene uno, dopo cinque minuti è sempre di nuovo seduto vicino a me a parlarmi. Per questo io e Claudia decidiamo che da lunedì chiederemo alla babysitter di venire un paio d’ore al mattino, così potrà giocare un po’ con lei.
La sera, quando Claudia è tornata dal lavoro, riesco persino a fare una corsetta. È da ottobre che mi è ripresa la fissa della corsa in montagna, da allora vado ad allenarmi abbastanza regolarmente due volte alla settimana e, finché il governatore col nome di un pelato non chiuderà i parchi come ha annunciato di voler fare, ho intenzione di continuare.
Da casa al parco vado in bicicletta, un paio di chilometri di cui uno persino di pista ciclabile, che trovo interrotta due volte, uno da scavi e uno da un’auto parcheggiata in stile casa delle libertà: almeno in questo non c’è nulla di diverso dal solito. Di macchine in giro ce ne sono poche, forse un decimo del normale, le persone a piedi sono anche quelle diradate ma la riduzione è decisamente minore. Pedalo con un po’ di ansia perché non mi è così chiaro se sono autorizzato o meno a fare quello che faccio, ma tre settimane (per cominciare) sigillato in casa non le sopporterei. Arrivato al parco lego la bici a un lampione perché i posti riservati alle due ruote sono tutti occupati, la cosa potrebbe sembrare normale, dato che sono solo quattro per uno dei parchi più grandi di Torino, ma di solito non è così.
Inizio a correre. Intorno di gente ce n’è parecchia, forse un po’ meno del solito ma non una grossa differenza. Cerco di passare abbastanza lontano dalle persone, più per non innervosirle che per non contagiarle, a volte però non è così semplice perché alcuni crocchi sono decisamente numerosi, e spesso posizionati nei passaggi più stretti, come il ponte sulla Dora. Inoltre quando corro, dopo uno sforzo un po’ più intenso, per esempio una salita, spesso tossisco, se lo facessi oggi penso che mi attirerei qualcosa di più di un’occhiataccia, e quindi cerco in ogni modo di evitarlo, ma non è così facile. Fortunatamente sembra che la gente che circola nel parco abbia un livello di preoccupazione decisamente sotto la media.
Arrivo nella parte solitamente più vuota del parco, quella in cui non ci sono giochi per bimbi, né panchine, né chioschi bar, né laghetti con anatre e tartarughe, però stavolta è persino più popolata dell’altra. (forse la gente ha cercato di distribuirsi il più possibile?). Ci sono persone che camminano, una buona parte di loro spingendo passeggini, qualche rara bicicletta, sia di adulti che di bambini, il pratone dove spesso vedo in corso partitelle di calcio invece è vuoto.
Continuo a girare, il sole tramonta, la luce inizia a calare e la gente ad andarsene, più o meno come in qualunque altra sera prima del coronavirus. Anche per me è ora di tornare a casa, tra l’altro non mi sono portato le lucine per la bici e il traffico di Torino è pericoloso anche senza problemi di visibilità. L’ultimo pezzo di strada lo faccio con le luci dei lampioni già accese, e mi accorgo di una cosa che non avevo notato all’andata: i negozi sono quasi tutti chiusi. Molti hanno comunque le vetrine a vista (forse per questo non l’avevo notato prima), ma ora che servono le luci, e che sui primi cento metri del corso solo la banca e l’edicola le hanno accese, l’effetto è piuttosto spettrale.
Un’ultima svolta poi rientro nel portone, ricomincia l’apnea.
Sabato 14 marzo
Piove. Ce n’è bisogno, anzi, ne servirebbe molta di più, che la siccità quest’estate sarà un grosso problema, però in questo momento vuol dire che Paolo non può nemmeno andare in cortile. Noi già li temiamo normalmente i giorni di pioggia nel weekend, con questo pregresso e senza possibilità di andare in un qualunque posto, cinema o teatro o museo, o di fare qualunque altra cosa, la situazione è pesante. In compenso io esco ben due volte, una per andare al supermercato (e son quasi cinquecento metri per la sola andata) e una per buttare spazzature. Essendoci anche del vetro sono cinquanta metri in più per arrivare alla campana, e me ne concedo altri cinquanta per andare a vedere se l’automobile è ancora dove l’ho parcheggiata, che le strade deserte favoriscono chi preferisce agire senza testimoni, che siano ladri o squadracce. L’auto è sempre al suo posto..
Domenica 15 marzo
Non piove più, ma a terra è un po’ bagnato e fa freddino, forse per questo nessuno degli altri bimbi (di quelli che i genitori non hanno recluso in casa per essere più realisti del re) è in cortile, e Paolo si rifiuta di scendere da solo. Appassiamo tutti e tre davanti a “La storia infinita”, che il piccolo non apprezza, direi piuttosto ovviamente visto quanto sia diversa la velocità rispetto ai cartoni che guarda di solito. Persino la velocità con cui parlano i personaggi è di un altro ordine di grandezza. Sono un po’ spaventato dal vedere quanto non sappia fare a meno di questo ritmo alto, non mi sembra per niente una cosa promettente.
La giornata si trascina lunga e pesante, il momento migliore è l’uscita per getto rifiuti.
Lunedì 16 marzo
La nostra babysitter è una nonna. Stamattina arriva all’orario previsto, intrattiene Paolo fino a mezzogiorno, poi torna a casa, però la vedo molto sulle spine. Ne parlo con Claudia che parla con lei e scopre che si sente a disagio perchè una sua cugina è positiva al tampone. A malincuore tutti e tre insieme decidiamo che non venga più nei giorni successivi, e noi ci ritroviamo nella situazione di venerdì. La sera esco di nuovo a correre, stavolta un allenamento abbastanza impegnativo. Prima di questa delirante situazione avevo intenzione di correre un paio di trail durante l’estate, ora chissà… Comunque faccio un riscaldamento, in parte andando al parco, trentacinque minuti abbastanza spinti, defaticamento tornando verso casa, totale un’ora e venti. Allenamento fatto, però i tempi al chilometro sono lenti, le gambe non girano come dovrebbero; può essere semplicemente un giornata non buona, ma io inizio a pensare che comincino a farsi sentire gli effetti della reclusione. E siamo solo alla prima settimana.
Martedì 17 marzo
Io e Paolo ormai abbiamo quasi stabilito una routine. Al mattino si sveglia abbastanza tardi, verso le nove, con calma fa colazione, si lava, si veste, poi viene un po’ al tavolo dove lavoro a disegnare e colorare; verso le dieci, dieci e trenta fa merenda, poi in genere scende a giocare in cortile fino verso mezzogiorno. Alle dodici e trenta io stacco dal lavoro, cucino qualcosa di veloce, mangiamo, poi gli accendo i cartoni animati, lavo i piatti e riprendo a lavorare. Verso le tre, tre e mezza lo stacco dai cartoni, gioca un po’ per conto suo, fa merenda, dopo le quattro scende di nuovo in cortile, io lavoro fino alle cinque poi lo raggiungo fino a quando inizia a fare buio, che lasciarcelo senza che ci sia io o la mamma non è una cosa che mi piaccia, anche se con la finestra del balcone aperta e il volume di voce esagerato dei bimbi lo sento benissimo.
Mercoledì 18 marzo
Stamattina Paolo non è sceso in cortile, non ne aveva voglia, forse perchè sotto c’era solo un bimbo molto più piccolo di lui, ha giocato un po’ in camera per conto suo. Verso le tre è arrivata a casa la mamma, che il mercoledì fa il continuato ed esce presto, e lo ha ‘preso in carico’ lei. Come al solito verso le quattro Paolo è sceso in cortile, stavolta accompagnato, ma dopo pochi minuti ho iniziato a sentire un bordello incredibile, mi sono affacciato al balcone e ho visto parecchie persone, tra cui Claudia, che urlavano, qualcuna in cortile qualcuna dai balconi. A quanto pare alcuni genitori ci accusano dicendo che siccome Paolo e altri tre-quattro bambini sono spesso in cortile i loro non possono scendere mai. Tralasciando il fatto che al mattino il cortile era vuoto e loro non sono scesi lo stesso, stiamo parlando di uno spazio di tre-quattromila metri quadri, possibile che, anche mantenendo le distanze di sicurezza, non ci stiano dieci bambini con altrettanti genitori? Ovviamente no, ma la paranoia da coronavirus in quanto paranoia è refrattaria alla logica. La conclusione della lite è che ci si accorderà su dei turni di fruizione del cortile, con un massimo di due famiglie alla volta. Questo per noi vuol dire che Paolo potrà scendere due, forse tre volte la settimana, per noi è un disastro.
Giovedì 19 marzo
Nei giorni scorsi erano arrivate un paio di comunicazioni dell’amministratore che, in spregio oltre che del buon senso anche delle delucidazioni della presidenza del consiglio dei ministri, che autorizzano esplicitamente l’attività motoria all’aria aperta, vietava qualsiasi utilizzo del cortile. Dal contenuto delle comunicazioni era evidente che queste erano state richieste a gran voce da uno o più condomini, evidentemente anch’essi terrorizzati dall’allarmismo dei media, reso ancora più efficace dall’isolamento (auto)imposto. Queste comunicazioni non avevano avuto molto effetto, quindi sicuramente le segnalazioni sono state reiterate ed oggi ne è arrivata una nuova, ancora più patetica nei contenuti e minacciosa nei toni. In risposta ad una domanda ai vigili urbani ci è stato fatto capire che, sebbene dal loro punto di vista il nostro comportamento, qualora vengano rispettate le distanze di sicurezza, sia perfettamente corretto, non è detto che gli appartenenti ad altre forze dell’ordine non considerino la stessa situazione in modo diverso. Il loro consiglio, non sapendo chi sarebbe potuto intervenire, è stato quello di non rischiare.
Insomma le conseguenze di un decreto malscritto (ad arte?) sono di lasciare il cittadino in balia dell’arbitrio del controllore. Più nel piccolo le conseguenze della orrenda campagna stampa in atto, che mi ricorda tanto l’Albanesiano ministro della paura, combinata con la predisposizione molto italiana (oserei dire molto cattolica) al “preferisco togliere a te che ottenere io”, è che cortile diventa off limits per i bambini, tutti, e anche per quegli adulti che ci andavano a fare ginnastica, e che ora probabilmente continueranno la loro attività nel parchetto che si trova una cinquantina di metri oltre il portone, con un vantaggio per la collettività che mi è davvero difficile immaginare e un danno per i bambini, reclusi in casa per chissà quanto, sicuramente più di un mese, che è invece facilmente immaginabile.
Venerdì 20 marzo
Prima giornata di reclusione totale anche per Paolo. Tutto sommato con l’aiuto di alcuni videogiochi online, che per lui sono una novità assoluta, la giornata passa abbastanza bene, bisognerà vedere per quanto regge la novità.
Verso mezzogiorno ricomincia a circolare la voce di un’ordinanza del governatore del Piemonte per chiudere i parchi, io controllo compulsivamente gli aggiornamenti, sperando di riuscire almeno a fare l’ultima corsa stasera, ma alle quattro e mezza sulla chat della mia scala una vicina posta il decreto, dicendo che è già operativo e con efficacia IMMEDIATA, scritto proprio in maiuscolo. La vicina ha un lavoro in ambito giudiziario, quindi le credo, mi incazzo e metto via l’abbigliamento da corsa che avevo già preparato. E faccio male, perchè era un bluff, quella che ha fatto circolare era una bozza da approvare, non ancora valida. Io pensavo che i delatori fossero i soliti vecchiacci che non hanno mai sopportato la presenza in cortile dei bambini, ma forse mi sono sbagliato.
Quando scopro che la notizia è falsa il mio ottimismo (il peggior compagno che un essere umano può avere) mi fa dire che pazienza, correrò domattina, che tanto è sabato e non lavoro. Peccato che in serata ci pensi il ministro della salute ad emanare un decreto sostanzialmente identico, ma questa volta effettivo. Insomma, vogliono che quando il virus ci raggiungerà ci trovi nelle peggiori condizioni fisiche possibili, altrimenti rischiamo di sopravvivere.
Sabato 21 marzo
Ufficialmente il ‘lockdown’, come amano definirlo politici e media (chissà poi perchè si tende ancora a considerarli due entità separate) è previsto fino al tre aprile, nessuno sano di mente però pensa che quella sia la data vera; i più ottimisti pensano si possa ritornare a uscire non prima di inizio maggio, io stavolta per fortuna non sono tra loro. Per questo con Claudia ci troviamo subito daccordo con il fatto che dobbiamo pensare anche ad una soluzione per fare un po’ di moto, che abbiamo entrambi superato abbondantemente i quaranta, e abbiamo la tendenza a prender peso, soprattutto nei periodi di stress: è necessario che ci procuriamo uno strumento con cui fare un’attività aerobica anche in casa. Il primo pensiero è un tapis-roulant, ma quelli decenti costano uno sproposito e occupano uno spazio che nel nostro alloggio non abbiamo, quindi dopo un’ora di inutili ricerche ripieghiamo su una cyclette, più accessibile nel prezzo e meno voluminosa. Ovviamente ordiniamo online, che al negozio non ci si può andare, e con poca sorpresa scopriamo che i tempi di consegna in questa situazione si sono estremamente dilatati, la data prevista è tra dieci-quindici giorni. Se non altro abbiamo fatto passare la mattinata, ma ignorando quasi del tutto Paolo.
Fino alla settimana scorsa acquistavamo le verdure nel negozio di una signora che abita nel nostro condominio. La signora aveva già deciso di lasciare il negozio a giugno, non so per quali motivi, e vista la situazione ha deciso di anticipare la chiusura per poter restare a casa con i suoi figli, il più piccolo dei quali ha la stessa età di Paolo. Con questo noi ci siamo trovati a dover cambiare fornitore in un momento in cui non era così facile sceglierne uno buono, e abbiamo optato per un negozio di sfuso da cui compravamo già riso, pasta, detersivi ed alcuni altri prodotti. Oggi pomeriggio ci hanno fatto la prima consegna, io e Claudia siamo scesi in cortile a prendere le cassette. Siamo scesi in due un po’ perchè erano pesanti, ma soprattutto perchè si sfrutta ogni occasione buona per mettere il naso fuori dalla porta. La ragazza del negozio è entrata nell’androne e ha appoggiato le cassette su un gradino, mentre noi rimanevamo a distanza, poi ci siamo parlati per un paio di minuti, sempre a cinque metri uno dall’altro, per accordarci per le prossime consegne, costretti ad un volume di voce alto che obbligatoriamente divulgava i fatti nostri a tutto il palazzo. Mi ha fatto un effetto sgradevole vedere la cura con cui lei manteneva le distanze, ed il disagio che sembrava provare nel doversi trattenere quel poco tempo in più in quell’androne.
Verso sera esco a fare la spesa con Paolo, quei quasi cinquecento metri a me, che non ho attraversato il portone da lunedì sera, sembrano quasi una manna. Al supermercato ovviamente non si può entrare subito, si fa la coda fuori, prima di noi ci sono dodici persone e l’attesa dura una ventina di minuti, durante i quali trattenere Paolo dal saltellare sui piedi della gente diventa progressivamente sempre più difficile. Rimediamo parecchie occhiatacce ma nulla di più, fortunatamente a sei anni si dispone ancora di un po’ di benevolenza da parte degli adulti, anche se decisamente meno di quando di anni ne aveva due o tre. Alla fine entriamo e facciamo i nostri acquisti senza grossi problemi, solo di yogurt e budini c’è un po’ di scarsità, ma in una misura tutto sommato normale per un sabato pomeriggio.
Domenica 22 marzo
La domenica sarebbe un giorno non lavorativo, eppure Claudia passa metà della giornata al telefono con i suoi due capi che non riescono a mettersi daccordo se farla passare al telelavoro oppure no, e quindi continuano a darle istruzioni contrastanti. Nell’attesa della cyclette io seguo un mini programma di allenamento da venti minuti suggerito da una climber famosa che seguo su instagram. Dev’essere un buon programma perchè alla fine sento tirare alcuni muscoli che evidentemente non alleno di solito.
Nel pomeriggio Claudia porta Paolo a prendere un po’ d’aria, e fanculo i divieti, mica possiamo farlo morire soffocato per seguire le istruzioni emanate da qualcuno che evidentemente non ne sa nulla, visto che tutti i medici sostengono che un’uscita all’aria aperta, senza contatti con estranei, non possa far che bene. I dati dicono che siamo la nazione con più morti al mondo, e non siamo quella con più contagiati ufficiali probabilmente solo perchè si fanno pochi tamponi (pare non ce ne siano a sufficienza). E’ acclarato che la strategia di contenimento non sta funzionando, che, in modo analogo a quanto succede con la crisi ecologica, stiamo accelerando verso un muro, ma i governanti urlano che terranno la barra dritta. Fino allo schianto.
Lunedì 23 marzo
Oggi entra in vigore una ulteriore stretta. Chiuso tutto il non essenziale, a Torino chiusi anche i mercati all’aperto di alimentari, così ci si ammassa nei supermercati e ci si ammala meglio. Divieti, divieti, divieti, quasi nessuno dei quali, a sentire gli esperti, di una qualche utilità, almeno rispetto agli obiettivi ufficialmente dichiarati. Qualche giorno fa scrivevo che le strade deserte sono ideali per ladri e squadracce, al momento sembra che a prevalere siano le seconde, in genere in divisa. Su molti blog iniziano ad apparire denunce di persone a cui viene impedita anche la semplice passeggiata sotto casa che le leggi consentono, alcune addirittura denunciano di essere state malmenate dalla polizia o dai militari, in alcuni casi ci sono anche dei video come prova. In Italia, come credo quasi ovunque, la storia degli abusi delle forze dell’ordine è lunga e a tratti sanguinosa, ma qui pare che ci sia un incremento esponenziale dei casi. Ovviamente i media ufficiali questi casi non li riportano, preferendo interviste agli eroici militi o ai politici che, esplicitamente o implicitamente, autorizzano i loro abusi. Da qualche anno in rete si discute su se si viva o meno in uno stato di polizia, almeno in questa fase la risposta è evidente.
Alle cinque stacco dal telelavoro e porto Paolo a fare il suo giro. Da ieri abbiamo avuto la buona idea di farlo uscire con il monopattino, lui si diverte molto di più e fa anche più esercizio, spingendo come un pazzo sui marciapiedi gruviera di Torino. Dalla crisi del debito postolimpico di tredici anni fa la manutenzione delle strade è stata drasticamente ridotta, per usare un eufemismo, comunque lui non si lamenta, anche quando deve scendere e spingere a mano. Ci sta mettendo tanta pazienza, povero cucciolo, però si vede che gli pesa, l’altro ieri ha fatto un mese dall’ultima volta in cui è andato a scuola, e oggi per la prima volta mi ha detto che gli mancano i suoi compagni.
Martedì 24 marzo
Stamattina Claudia inizia il telelavoro. A quanto pare i due capi sono riusciti a trovare un punto di accordo, anche se oggi pomeriggio però dovrà andare allo studio, perchè il più recalcitrante dei due ha detto che deve ancora mettere a punto alcune cose. Dato che non le hanno fornito un computer con cui collegarsi le tocca usare il nostro privato, e la cosa fa nascere qualche conflitto con Paolo che non può usare i videogiochi mentre lei lavora, nel pomeriggio sondo internet in cerca di soluzioni al problema senza trovarne nessuna che mi convinca del tutto. Cercherò ancora, tanto la sera al ritorno di Claudia scopro di avere più tempo per farlo: uno dei due capi ha cambiato idea un’altra volta e non è più daccordo sul telelavoro.
Mercoledì 25 marzo
Giornata normale, niente di particolare, la temperatura è calata di colpo, da quasi venti gradi a meno di dieci.
Giovedì 26 marzo
Altra giornata normale. Sto notando che dall’inizio del lockdown Paolo sembra molto più collaborativo nei nostri confronti, superando una conflittualità che nell’ultimo periodo andava crescendo. Ovviamente ne sono contento, ma mi chiedo se questo cambiamento sia dovuto davvero un superamento o a rassegnazione. Nel secondo caso sarebbe preoccupante.
Ci ha scritto il sito da cui abbiamo comprato la cyclette dicendo che non è più disponibile e entro sette giorni ci renderanno i soldi. Ne ordiniamo un’altra da un diverso fornitore, i tempi slittano di altri dieci giorni.
Venerdì 27 marzo
Altra giornata normale, con Paolo abbiamo fatto il giro settimanale di acquisti al supermercato. La coda fuori stavolta era di quindici persone, date le distanze da mantenere sul marciapiede girava oltre l’angolo, nella via perpendicolare. Attesa per entrare nel negozio: venticinque minuti.
Sabato 28 marzo
Ma la stronzata che al supermercato non si possano comprare pennarelli matite e fogli al ministro chi gliel’ha suggerita? Ma se non ha mai avuto un bimbo in casa non poteva chiedere a qualcuno che avesse un’idea della materia su cui deliberava? Tra un po’ avrò una crisi di panico appena si scarica un pennarello…
Forse qualcuno potrebbe trovare troppo criptica l’ultima affermazione se non si ricorda che in un primo momento fu vietata la vendita di pennarelli e colori in genere. Nei supermercati che ne disponevano ampie porzioni di scaffale erano interdette da una scritta “non in vendita” di cui in tempi diversi avrei probabilmente apprezzato l’ironia.
Dopo le prime tre settimane persi la regolarità di scrittura, anzi, per essere sinceri persi proprio l’abitudine di annotare gli avvenimenti. La troppa vuota ripetitività degli eventi non mi sembrava meritasse di lasciare traccia, nemmeno un segno di penna, seppur virtuale. Solo nei rari casi in cui avveniva qualche evento degno di nota tornavo a pubblicare un post, ad esempio domenica 5 aprile scrivevo:
Gli effetti della campagna stampa contro chi osa uscire di casa mezz’ora al giorno per respirare non tardano a vedersi. Sono ormai un paio di settimane che mio figlio esce una o due volte al giorno, appunto per una mezz’ora, accompagnato da me o da mia moglie (come ho già raccontato prima gli era concesso il cortile, ora grazie all’intelligenza di alcuni vicini può andarci solo molto raramente), quasi sempre esce in bicicletta o col monopattino. Un paio di volte avevamo incrociato vetture di polizia e carabinieri e nessuno aveva mai avuto niente da ridire, mezz’ora fa invece sono stato fermato e ho avuto un lungo battibecco con un carabiniere il quale, dopo avermi chiesto per che motivo ero fuori casa ed essersi sentito rispondere che facevamo attività motoria nei pressi dell’abitazione, in sequenza mi ha rimproverato per le seguenti ragioni
– non tenevo la distanza prescritta. Ho provato a fargli notare che essendo mio figlio piccolo ancora gli pulisco il culo quando caga, a questo punto si è indispettito, mi ha detto di moderare il linguaggio e aspettare che finissero con l’altra signora di cui si stavano occupando, e nel frattempo di preparare un documento.
– una volta terminato con la signora mi ha detto che attività motoria non comprendeva insegnare a mio figlio ad andare in bici, gli ho risposto che mio figlio sa andare in bici, e che gli avevo messo la mano sulla spalla per attraversare la strada perchè non lascio che lo faccia da solo (OT, sarò un genitore troppo apprensivo?)
– allora mi ha spiegato che però così la gente non capisce e diamo il cattivo esempio, e che poi quelli che devono uscire e che rischiano sono loro (e qui ho cercato di soffocare una risata ma non credo di esserci riuscito molto bene), al che gli ho chiesto se secondo lui dovevo far uscire mio figlio da solo
– a questo a punto ha detto che dobbiamo stare in casa, gli ho risposto che un bimbo di sei anni non può stare ventiquattrore al giorno in casa, e loro in coro mi hanno chiesto se non mi sentivo in colpa ad esporre mio figlio ad un rischio simile, gli ho chiesto quale rischio dal momento che nessun bimbo sotto i dieci anni è morto per coronavirus nel mondo
– questo ha indispettito ulteriormente i carabinieri che mi hanno chiesto se ero un dottore, gli ho risposto che no, ma che i dati si trovano. “Dove, in internet?”, mi hanno chiesto strafottenti, gli ho risposto che guardo il sito dell’istituto superiore di sanità (anche se ho sbagliato, perchè quello ha solo i dati italiani, non mondiali).
Dopo quest’ultima risposta hanno deciso che era inutile insistere con me, hanno registrato i miei dati, verificato la distanza da dove si trovavano a casa mia nella speranza di potermi multare, ma purtroppo per loro hanno scoperto che il mio portone era a centocinquanta metri, e quindi se ne sono andati. Tutto senza conseguenze, ma se fossi stato anche solo cento metri più in là (e sfido chiunque a camminare per mezz’ora con un bimbo senza allontanarsi più di duecento metri dal punto di partenza) magari mi trovavo una contravvenzione da quattrocento euro. Temo che aprile sarà un mese ancora più lungo di marzo
Con l’ultima frase ero stato facile profeta. La reclusione per sua natura si fa di per sè più pesante di giorno in giorno, quando poi le sue condizioni vengono continuamente aggravate, per di più senza alcun motivo logico se non l’additare capri espiatori per distrarre l’attenzione dai ripetuti fallimenti dei governanti, il peso diventa ancora maggiore. E lo diventa ancora di più in casi come questo, in cui il confronto con altre nazioni, nemmeno troppo distanti, è così impietoso.
Mentre la Svezia consigliava anzichè imporre, e molte altre nazioni europee, pur prescrivendo un distanziamento fisco tra le persone non vietavano l’attività all’aria aperta, ma anzi spesso la incoraggiavano, come d’altronde consigliava la stessa organizzazione mondiale della sanità, in Italia così come in Spagna venivano imposte misure assurde, come il divieto di allontanarsi più di duecento metri da casa. I politici quando non riuscivano a schivare i paragoni con l’estero giustificavano questa differenza con il più alto numero di morti, scambiando così causa ed effetto, chissà se in modo consapevole o meno. Certo, c’erano anche nazioni in cui era andata ancora peggio, in Ungheria e Slovenia la destra approfittò dell’emergenza per mettere a segno dei golpe soft, nel senso che almeno avvennero senza spargimento di sangue, in Polonia invece il lockdown fu utilizzato per ripresentare una legge antiabortista che quando era arrivata per la prima volta in parlamento era stata ritirata a seguito di oceaniche proteste di piazza. Ma anche se innegabilmente il confronto era a nostro favore, bastava uscire per pochi minuti nelle strade vuote, tra i palazzi di otto piani irrealmente silenziosi, perchè la sensazione soppraffacesse il confronto razionale. La vista delle bandiere impolverate, rimaste esposte qua e là anche quando si erano spenti i cori di patriottico autoincoraggiamento, e quella dei cartelloni disegnati da bambini con la scritta “andrà tutto bene” facevano correre dei brividi lungo la schiena.
E intanto le persone morivano, a migliaia, e se è vero che secondo i dati ufficiali si trattava soprattutto di anziani già affetti da altre malattie (a metà aprile l’età media dei morti per coronavirus in Italia era di settantotto anni), era evidente che i dati ufficiali erano falsati dal numero assurdamente basso di test effettuati e dalla povertà delle cure, per cui spesso i casi inizialmente non gravi venivano lasciati a se stessi, non di rado aggravandosi, e chissà quanto spesso giungendo alla morte. Morte che, non essendo stati effettuati i tamponi e dunque non risultando la positività, non veniva attribuita al covid.
Noi all’inizio, pur intuendo che la politica di contenimento era insensata, ci limitavamo a cercare di tener duro aspettando che la situazione si sbloccasse. Il nostro principale problema era Paolo: normalmente consideravamo una disgrazia una sua influenza, non per la malattia in sè ma per la fatica di contenerlo in casa per una settimana, ora sapevamo di doverlo fare per almeno due mesi. Fummo costretti a cedere sull’uso della televisione, più che raddoppiandogli la dose massima consentita di cartoni, e gli comprammo una console per videogiochi, cosa che avevamo sempre cercato di evitare, ma d’altronde non potevamo certo passare la giornata ad intrattenerlo visto che lavoravamo entrambi, seppur da casa (e Claudia da casa solo in parte, alla fine i suoi capi avevano optato per un cinquanta per cento di telelavoro).
Per non essere troppo duro con me stesso devo dire che ci sforzavamo anche di fargli mantenere qualche abitudine sana, non sapendo ancora leggere ogni giorno lo facevamo disegnare o colorare, e ogni giorno gli facevamo fare almeno un’uscita, inizialmente nelle strade attorno a casa, poi, dopo il decreto che limitava a duecento metri la distanza massima consentita da casa, ritornammo ad utilizzare il cortile, dal momento che anche solo facendo il giro dell’isolato avremmo violato la norma e che l’incontro con i due carabinieri ci aveva chiarito che non era il caso di aspettarsi comprensione. In pratica tutte le nostre energie erano destinate a cercare di mantenere per Paolo una vita il meno malsana possibile, e ne rimanevano davvero poche per fare altrettanto per noi. Se si escludono due-tre sedute di cyclette alla settimana da mezz’ora l’una non facevamo altro.
Sul blog continuavo a scrivere, anche se con frequenza molto minore. In mancanza di fatti pubblicavo abbozzi di riflessioni sulla situazione. Abbozzi inutili, se non altro perchè già presenti in chissà quanti altri nodi della rete, ma non riuscivo ad astenermi da quel minimo esercizio mentale, anche se rileggendoli il pessimismo che li pervade mi pare così totale che dubito che quelle scritture mi abbiano dato alcun giovamento.
Nel frattempo anche il clima ci irrideva. Aprile in piemonte è storicamente un mese piovosissimo, tant’è che i picnic di pasquetta si risolvono spesso in spiacevoli docce, ma nel duemilaventi tra marzo a aprile ci furono due sole pioggie, discretamente intense ma della durata totale di soli due giorni, e a pasquetta dal nostro balcone due metri e mezzo per uno fissavo con rabbia un meraviglioso sole ed un termometro che indicava venti gradi. Rabbia ancora accresciuta dalla notizia, arrivata il venerdì precedente, che il lockdown era prorogato fino al tre di maggio compreso. Come ho già detto non si trattava di una sorpresa, il conteggio giornaliero ufficiale dei contagiati e dei morti rimaneva sostanzialmente stazionario, tanto che perfino Confindustria, dopo molto insistere, dovette rassegnarsi ad accettare il prolungamento delle misure che imponevano la chiusura di alcune aziende. E poi nel periodo di prolungamento cadeva il venticinque aprile, quale migliore occasione per sopprimere, anche se solo temporaneamente, la ricorrenza, dando un’altra spallata alla già fragile memoria degli italiani? No, questo prolungamento non era nulla di sorprendente, direi anzi che data la situazione era inevitabile, eppure fu proprio quella la goccia che fece scattare in me la terribile consapevolezza dell’inutilità della mia attesa. Tutti quanti aspettavamo un dopo che non ci sarebbe mai stato, perchè l’evento che cambiava definitivamente il corso delle nostre vite era quello già avvenuto, la decretazione del lockdown e la passiva, in molti casi grata, accettazione dello stesso.
Ho detto che fece scattare in me quella consapevolezza, ma non è esatto, è più corretto dire che sulle prime si trattava solo di un timore, che mano a mano si rafforzò. Alla fine di aprile ero già certo che al quattro maggio non avremmo potuto tornare a circolare, e che se non si fosse riusciti ad organizzare una protesta, cosa che in quelle condizioni capivo essere oggettivamente difficile, il governo avrebbe prolungato il lockdown anche oltre il trentun luglio, data in cui ufficialmente sarebbe dovuto terminare lo stato di emergenza decretato a gennaio.
Facemmo anche qualche tentativo di piccola infrazione, tra l’altro in modo stupido rispetto al rischio contagio, perchè per fare una chiacchierata con una coppia di amici anzichè trovarci in un parco, soluzione meno rischiosa ma vietata, preferimmo organizzare una cena a casa loro. Ovviamente anche questo era vietato, ma c’erano molte meno possibilità di venire scoperti. Contattammo quindi l’unica coppia di amici che abitava ad una distanza tale da permetterci di raggiungerli senza essere fermati, anche se in realtà anche con loro sforavamo i duecento metri di percorrenza (avevo misurato la distanza su una mappa ed era quasi il doppio, ma trattandosi di strade secondarie era una distanza ancora percorribile senza grossi problemi), e per ridurre ancora il rischio viaggiammo separati, dato che era in ogni caso vietato uscire assieme ad altre persone, anche se conviventi, con la sola esclusione dei figli piccoli. Claudia e Paolo andarono assieme, io li seguii dopo cinque minuti. Fu una serata abbastanza piacevole, anche se la sensazione di tutto quel periodo non poteva certo sparire d’incanto, Paolo giocò volentieri col figlio dei nostri amici nonostante questo avesse tre anni in meno di lui, e un po’ prima di mezzanotte, sempre scaglionati, tornammo a casa, un po’ sollevati.
Il sollievo però si esaurì in fretta. Due settimane dopo ri-organizzammo la cena, stavolta da noi, per tutta la serata le cose andarono bene ma, come venimmo a sapere il giorno dopo, nel ritorno a casa i nostri amici vennero fermati, e oltre ad una lunga sfuriata di un poliziotto rimediarono ognuno una multa da quattrocento euro, bambino escluso. Questo pose fine a quella nostra piccola attività illegale, e forse in fondo fu un bene, perchè anche se ci sollevavano un po’ il morale quelle piccole violazioni non smuovevano minimamente la situazione, e quindi contribuivano a perpetuarla.
La rabbia si accumulava in piccole isole circoscritte, che comunicavano tra di loro attraverso siti web ma non più nella realtà, separate dai pattugliamenti ossessivi eseguiti con sempre maggiore dispiego di uomini e mezzi: oggi aggiungiamo le telecamere, oggi gli elicotteri, oggi i droni… la rabbia si accumulava in piccole isole circoscritte e non riusciva ad irrompere negli spazi aperti.
Passò silenzioso anche il venticinque aprile. I soliti social network, ormai unici messaggeri capaci di attraversare il vuoto siderale tra abitazione ed abitazione, riportavano notizia di alcuni luoghi in cui piccoli gruppi autorganizzati si erano riuniti davanti ad un monumento per deporre un fiore, o di cori di Bella Ciao rimbalzanti tra balconi, ma nel mio alloggio non era arrivato nessun suono diverso dagli altri giorni.
Il trenta aprile i miei timori trovarono una prima conferma. Forte del calo dei decessi giornalieri sotto le cinquecento unità, il governo emanò un nuovo decreto che riduceva ulteriormente gli obblighi di chiusura delle aziende (che comunque già prima erano così laschi da permettere di mantenere aperte perchè essenziali le fabbriche di armi), ma confermava la chiusura di tutti i luoghi di ritrovo, il divieto di frequentazione dei parchi e i limiti alla circolazione delle persone fino al tre di giugno; le regioni che avevano imposto limiti di distanza da casa per le brevi uscite consentite li mantennero, il Piemonte in prima fila tra questi.
In casa mia la situazione si aggravava di giorno in giorno, l’umore di Paolo prevedibilmente continuava a peggiorare, e le sue reazioni si facevano sempre più rabbiose o assenti, ogni tentativo di avvicinarlo per cercare di spiegare la situazione o di consolarlo si infrangeva contro un muro di “niente”, che era ormai la sua risposta standard per un numero sempre crescente di domande. Altrettanto ovvio che il suo malumore contagiasse anche me e Claudia, come se l’isolamento non facesse già abbastanza in questo senso. Ormai avevamo anche smesso di tentare di mantenerci sani fisicamente, e la cyclette rimaneva sempre più a lungo inattiva, nonostante i sensi di colpa che provavo ogni volta che entrava nel mio campo visivo.
A Torino maggio fu ancora un mese assolato, dalla mia improvvisata postazione di lavoro vedevo l’erba in cortile diventare ogni giorno più gialla per la siccità, ed immaginavo che l’isolamento avesse su di me un effetto simile. Consultavo compulsivamente il web sperando o nella notizia di qualche riapertura o nel montare di un’impetuosa ribellione a quell’insostenibile stato di cose ma nessuna delle due rispondeva alla chiamata. Tutto rimase immutato fino alla fine di giugno, quando arrivò il prevedibile disastro.
Sui luoghi di lavoro erano state stabilite delle profilassi per evitare il contagio, e dove erano rispettate queste probabilmente raggiungevano in buona misura il loro scopo, ma molte aziende non le rispettavano, inoltre le misure previste per i mezzi pubblici li rendevano di fatto inutilizzabili in quando riducevano del novanta per cento la capienza, e il tanto decantato aumento delle corse in nessuna città raggiunse il venti per cento. Dopo pochi giorni di questo funzionamento Confindustria comprese che questa volta non poteva imporre agli operai di rispettare gli orari, ordinò al governo di allentare le restrizioni, e così fu fatto, riportando l’affollamento sui mezzi pubblici negli orari di punta al limite della capienza. Difficile averne conferme scientificamente valide, ma probabilmente furono queste, insieme alla necessità di far interagire i bambini con persone diverse, visto che le scuole restavano chiuse e i genitori non erano più in casa, le ragioni della nuova impennata del numero di contagi, e di morti. Inizialmente il governo non volle tornare alla situazione di blocco precedente, e come aveva già fatto la prima volta anche in questa occasione si decise solo quando il numero di morti al giorno tornò a superare i cinquecento, e prima che le misure facessero effetto questa crescita scavalcò quota mille. A quel punto, si era i primi di luglio, vennero ripristinate le misure precedenti, inizialmente fino al trentuno del mese, data in cui scadevano i poteri eccezionali concessi al governo per l’emergenza; prima di tale scadenza però l’eccezione venne prorogata fino a fine anno, ed il lockdown fino alla fine di agosto.
Così anche l’estate si trascinò, scontenta e sempre più nervosa. Ad agosto tanto io che Claudia prendemmo il minimo di ferie a cui i nostri capi ci obbligarono, cercando per quanto possibile di non farle coincidere. In fondo, pur essendo razionalmente convinti che non sarebbe stato possibile, ancora speravamo di poterne utilizzare una parte a settembre o ad ottobre, almeno per qualche passeggiata o picnic sulle montagne più vicine. Come ovvio però la ragione aveva ragione, e a settembre la possibilità di uscire di casa fu riaperta solo per recarsi al lavoro. Aziende ed enti locali concordarono degli orari di apertura scaglionati, in modo da ridurre l’affollamento delle ora di punta e poter ripristinare delle norme per l’utilizzo dei mezzi pubblici, anche se meno severe delle precedenti, e la nuova apertura portò ad una nuova crescita di contagi e decessi, anche se meno impetuosa della precedente. Stavolta però si decise di tornare indietro, e contemporaneamente però di non andare avanti, il ripristino della libertà di circolazione fu rimandato al duemilaventuno.
A quel punto qualcuno decise che era troppo. Ovviamente già prima molti, soprattutto se vivevano in piccoli centri, cercavano di eludere il blocco per quanto era loro possibile, ma ad inizio ottobre alcune realtà organizzate, soprattutto alcuni centri sociali, decisero che non si poteva più tollerare oltre questo tenere in conto il profitto delle aziende così tanto di più delle libertà delle persone, ed iniziarono ad organizzare uscite collettive alla luce del sole, rispettando rigorosamente il distanziamento e utilizzando le protezioni consigliate, ma violando apertamente la norma. In tutti i casi la polizia intervenne con la sua abituale rudezza, anche se in più di una occasione gli agenti dimostrarono di preferire idranti e lacrimogeni sparati ad alzo zero al manganello, forse credendo così di mantenersi lontani dal contagio, ignorando il fatto che erano a comunque contatto tra di loro. Ovunque i manifestanti furono identificati e multati, e in alcune città anche incriminati con l’accusa di diffondere intenzionalmente l’epidemia. I movimenti insistettero, replicando più volte queste iniziative, ma alla fine furono costretti a desistere, più che dall’accumulo di sanzioni e accuse sulle loro spalle dal fatto che si resero conto che, per quanto sempre più insofferenti della assurda gestione della situazione (oramai, ad eccezione degli Stati Uniti, tutti gli altri paesi avevano drasticamente ridotto le limitazioni, e la circolazione era libera quasi ovunque, anche se nella maggior parte degli stati rimanevano l’obbligo di mantenere le distanze e quello di indossare le mascherine) solo pochissimi erano disposti a seguirli nella rivendicazione dei propri diritti. Col fallimento di questa minima ribellione le città italiane divennero sempre più simili all’incubo della Torino sognata dagli Agnelli, una città che vive solo per il lavoro, e che dedica ogni istante libero da esso al riposo, in modo da poter essere più produttivi nella giornata lavorativa seguente.
A metà ottobre le scuole formalmente erano rientrate in funzione, con uno strano sistema che prevedeva la presenza in aula a turno, in piccoli gruppi, un giorno alla settimana per ogni bambino, ed il resto delle lezioni a distanza. Questo ovviamente causava molti problemi ai genitori che non potevano lavorare da casa, fortunatamente a me questa possibilità era concessa ed avevamo quindi un problema in meno, ma ne restavano comunque molti altri. In primo luogo la didattica a distanza è tanto più praticabile quanto più è alto il livello degli studenti, tutto sommato è abbastanza ragionevole in un’università, lo diviene sempre meno passando alle superiori, alle medie, alle elementari. Paolo nell’autunno duemilaventi iniziò la prima elementare. Nei quattro giorni a settimana in cui rimaneva a casa facevo tutto il possibile per farlo studiare, ma le mie conoscenze di didattica erano scarse, e inoltre il tempo da dedicargli, rubato al lavoro che dovevo svolgere, sarebbe probabilmente stato insufficiente anche per un insegnante esperto, di conseguenza i suoi progressi erano molto lenti, anche se in linea con quelli dei compagni di classe.
Oltre alle difficoltà scolastiche bisognava considerare anche quelle psicologiche. Il controllo dei vicini sulle attività in cortile nel corso dell’estate si era fatto meno feroce, ma comunque la possibilità di utilizzarlo era limitata a più o meno un’ora al giorno, e i bambini potevano utilizzarlo solo in piccoli gruppi, e con la necessità di richiamarli continuamente a mantenere tra di loro le distanze di sicurezza. Inoltre era impossibile fargli svolgere qualunque attività all’esterno, fargli praticare un qualunque sport, ed erano ormai sei mesi che non usciva non solo dalla città, ma da un raggio di mezzo chilometro attorno a casa (anche sui duecento metri di limite qualcosa nella pratica si era riusciti gradualmente ad erodere, anche se formalmente il limite restava lo stesso). Tutto questo lo portava ad un’alternanza di periodi di supina accettazione, costellati di pianti inspiegabili, ad altri di conflitto feroce su ogni dettaglio di ognuna delle sue richieste, quasi tutte così chiaramente inattuabili da far pensare che le avanzasse solo per poter accendere la miccia di uno scontro.
Arrivò l’inverno, gli alberi non avevano più foglie come al solito, ma era l’unica cosa uguale agli anni precedenti. Nel guado tra rassegnazione e rabbia cercavamo faticosamente di non affogare, mentre ordinavamo online regali di natale che non avremmo mai visto dal vivo perché sarebbero stati consegnati direttamente a destinatari che chissà se e quando avremmo potuto reincontrare. Oggi è il ventuno dicembre, e in rete è apparsa la notizia che il governo ha ottenuto un’ulteriore proroga di sei mesi per l’emergenza, e proclamato una di tre per le limitazioni alla circolazione, anche se la distanza consentita da casa fu aumentata a cinquecento metri, adeguando la legge alla prassi. Quando lessi la notizia della proroga ho pianto, è l’unica reazione di cui sono stato capace.