di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975 con una introduzione inedita, Interno 4, 2020, pp. 352, 20 euro

“Cos’è un grimaldello di fronte a un titolo azionario? Che cos’è la rapina di una banca confronto alla fondazione di una banca? Che cos’è l’omicidio di fronte al lavoro?” (L’opera da tre soldi – Bertolt Brecht)

Credo sia giusto, in questo quarantunesimo anniversario del 7 aprile e del teorema Kalogero, tornare a parlare di un’opera giunta alla sua terza edizione. A quattro anni dalla seconda (2016) e a dodici dalla prima (2008). Un’opera, quella di Emilio Quadrelli, che non soltanto ripercorre la storia dell’autonomia operaia italiana, dai primi anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta, a partire dal conflitto e dall’iniziativa di classe che la fondarono e le diedero le gambe su cui marciare, ma che, in questa nuova edizione, aggiunge un dato di tutto rispetto: la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta uscito nel 1975, accompagnata da un’esauriente Introduzione a cura dello stesso Quadrelli.

Una rivista uscita in numero unico, con datazione di copertina luglio-ottobre 1975, che avrebbe preceduto di poco «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti», uscito poi in nove numeri tra l’autunno di quello stesso anno e il settembre del 1977, di cui si è occupato recentemente sempre Emilio Quadrelli per Red Star Press (qui) proprio per riportare alla luce un’esperienza di analisi e pratica politica militante troppo a lungo rimossa dalla ‘storia ufficiale’ di ciò che è entrato nella memoria collettivaa come Autonomia Operaia.

Azzeccatissimo appare subito il titolo del primo paragrafo dell’introduzione alla rivista, Fuori dalle linee, proprio perché quel numero unico oltre che allontanarsi dal discorso marxista o marxista-leninista imbalsamato nelle varie forme dei gruppuscoli e dei partiti, grandi o piccoli, che ancora a tali esperienze formali si richiamavano, così come l’esperienza dell’Autonomia Operaia aveva già messo in pratica, prendeva anche le distanze dalla stessa Autonomia così come si era andata definendo, organizzativamente e politicamente, in un contesto in cui le formulazioni dei più importanti intellettuali di quell’area e la pratica posta in essere si sarebbe allontanata sempre più dalla centralità dell’azione operaia opponendo a questa la ricerca di un nuovo, e mai completamente definito, soggetto politico.

Se gran parte dell’esperienza e del nuovo programma politico espresso dall’autonomia, così come si era andata formando intorno alla rivista Rosso, derivavano dall’esperienza già ‘eretica’ di Potere Operaio, Linea di condotta e, successivamente, Senza tregua avrebbero aggiunto a questa l’esperienza dei militanti fuorusciti da Lotta Continua dopo la svolta capitolarda, istituzionalizzante e filo-PCI della sua direzione proprio nel 1975 e che avrebbe portato al definitivo scioglimento di quell’organizzazione, avvenuto nel contesto del congresso di Rimini, nell’autunno del 1976. Proprio quel congresso che il leader di quella formazione ormai allo sbando avrebbe aperto con parole involontariamente profetiche: C’è stato un terremoto…

Entrambe le esperienze, quella di Rosso e di Linea di condotta, affondavano le loro radici in un rifiuto del lavoro salariato che all’interno delle frange più avanzate della classe operaia di fabbrica si era andato accompagnando al rifiuto di farsi Stato, così come invece proponevano il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, il partito che continuava a definirsi come il più grande partito comunista dell’Occidente e la CGIL, nel tentativo di separare non solo la classe dalle sue avanguardie più combattive, ma anche da una critica radicale delle condizioni di lavoro, produzione e riproduzione della vita che si era manifestata in maniera sempre più ampia e decisa non soltanto nel pensiero critico degli intellettuali militanti che avevano dato vita alle riviste più importanti degli anni Sessanta (Quaderni rossi, Classe operaia, Classe, Quaderni piacentini), ma che proprio a partire dalle manifestazioni di piazza e nelle lotte di fabbrica degli operai, da piazza Statuto in avanti, aveva trovato le gambe su cui marciare.

Veniva così nettamente alla luce uno scontro, voluto e gestito da una sinistra istituzionale sempre più coinvolta nella gestione dell’economia, della società e dell’ordine pubblico, in nome di un superiore interesse nazionale, destinato non solo a dividere la classe al suo interno e davanti al nemico, ma anche e soprattutto in nome di una presunta oggettività economicistica di ispirazione marxista, destinata a privare la classe di una delle sue armi più importanti e decisive: la teoria rivoluzionaria.

Paradossalmente non solo il PCI, che pur si richiamava ancora al marxismo e al socialismo di cui traboccavano ancora formalmente le pagine delle sue riviste e i discorsi degli intellettuali che ne avevano comunque da tempo sposato linea e strategia, ma anche i vari partitini di ispirazione trotzkista, stalinista, marxista-leninista filo-cinese e bordighista non erano riusciti a cogliere le novità insite nell’esplosione di lotte che avevano caratterizzato soprattutto il periodo compreso tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. Anzi, pur con modalità diverse e diverso intendimento, quegli stessi erano spesso diventati di intralcio allo sviluppo delle lotte di classe che si erano andate sviluppando nelle fabbriche, nei quartieri e nelle scuole.

Così, invece, non era stato, come nota giustamente Quadrelli nella sua ricostruzione, per i due raggruppamenti che più si erano smarcati da qualsiasi richiamo alla tradizione formale dei partiti di derivazione cominternista, ovvero Potere operaio e Lotta continua. Entrambi coinvolti fin dal loro primo apparire nelle lotte prodotte spontaneamente dal basso; sia che si trattasse dalle lotte in fabbrica che dell’occupazione di case, di riduzione degli affitti e delle bollette oppure delle rivolte popolari come quella di Reggio Calabria, indicata fin da subito, tranne che per i due gruppi in questione e dai situazionisti, come manifestazione di stampo fascista da tutti gli altri.

In questa differente interpretazione della realtà delle lotte giocava non tanto, come i principali rappresentanti del marxismo ‘ortodosso’ avrebbero fin da subito affermato, l’avventurismo delle nuove formazioni politiche, ma piuttosto una più corretta e consona ai tempi interpretazione della capacità di analisi dialettica contenuta nelle formulazioni di Marx e di Lenin. Troppo spesso citate mnemonicamente e/o opportunisticamente dalle altre forze politiche e troppo spesso stravolte oppure semplicemente non comprese nella loro essenza.

Si può affermare, come fa Quadrelli, che la prassi rivoluzionaria riprese spunto in quegli anni non tanto dagli archivi polverosi, dai testi salvati dalla critica roditrice dei topi o dalla novella intellighentsia formatasi nelle scuole di partito o nelle università, ma direttamente dalle lotte nate spontaneamente dalle condizioni di lavoro e di vita con cui si barcamenavano gran parte dei lavoratori (occupati e non), dei giovani (studenti e non), delle donne (lavoratrici e non), in un momento di grandi trasformazioni socio-economiche che avevano accompagnato o erano derivate dal cosiddetto boom economico.

Un boom economico che aveva visto, come sempre, accumularsi una gran parte della ricchezza socialmente prodotta nelle mani di un’imprenditoria audace e aggressiva, a discapito di un proletariato di fabbrica o marginale che aveva potuto accedere a ben pochi vantaggi sociali, pagati con uno sfruttamento del lavoro sempre più intenso e allargato anche alle sfere dell’esistenza quotidiana. Così come l’allargamento dell’istruzione superiore a fasce giovanili sempre più ampie era stata accompagnata dallo sviluppo di istituzioni scolastiche sempre più destinate alla formazione di una manodopera maggiormente alfabetizzata ma indirizzata a una specializzazione lavorativa che più che altro avrebbe contribuito ad una più generale abitudine al lavoro alienato, e domato preventivamente, dall’abitudine alla disciplina dell’orario e dell’obbedienza.

Tutto questo era però esploso, non in grazia di una preventiva azione comunicativa e di formazione condotta dai partiti e partitini di sinistra all’interno delle differenti frazioni di classe, ma proprio a causa di una realtà sociale che aveva finito con lo spingere al parossismo le contraddizioni di un modo di produzione che aveva fatto delle sue esigenze di accumulazione ed estorsione del valore il metro di misura di qualsiasi attività umana: lavorativa, intellettuale, collettiva, individuale, artistica o sessuale e riproduttiva che fosse.
Così proprio chi stava in basso aveva saputo raccogliere la sfida e ribellarsi.

Potere operaio e Lotta continua seppero far proprie le lezioni di chi dal basso aveva iniziato a ribellarsi e liberarsi e, per un breve e intenso periodo, farsene portavoce. Ricreando quella dialettica tra spontaneità dell’azione delle masse, teoria e prassi politica che sola poteva servire a confrontarsi vittoriosamente con il capitale e i suoi funzionari. Il partito rivoluzionario insomma tornava idealmente, ma non soltanto, a rinascere proprio là dove non era stato direttamente teorizzato o non aveva tratto ispirazione dalle forme mummificate del passato terzinternazionalista e non.

Tornava a rinascere ma non a formarsi, poiché le varie componenti dei due movimenti finivano col favorire un altalenarsi di tendenze ora allo spontaneismo ora all’organizzativismo e ora all’istituzionalizzazione, quest’ultimo aspetto soprattutto per quanto riguarda la leadership di L.C., che non permisero il formarsi di una organizzazione politica capace di trarre linfa e capacità direzionale dalla indicazioni che pur provenivano in tal senso dalle lotte proletarie e dal basso e neppure dalle trasformazioni in atto a livello di riorganizzazione industriale, finanziaria, amministrativa e giuridico-militare dell’apparato economico e statuale capitalistico.

Fu proprio questa difficoltà a portare alla fine delle due esperienze con una, quella di Pot Op, che avrebbe però costituito la componente ‘teorica’ più importante della fase politica successiva, mentre l’altra, quella di L.C., avrebbe fornito, proprio in virtù dell’essere stata l’organizzazione militante più diffusa all’interno del proletariato metropolitano e di fabbrica fino al 1975, la principale componente operaia e proletaria di un’esperienza politica, militante e, successivamente, militare che non ebbe eguali nel resto del mondo occidentale.

Non bisogna infatti mai dimenticare che in Italia sono stati 20.000 gli inquisiti per i fatti di lotta armata; 4200 sono stati incarcerati a seguito dell’accusa di banda armata o associazione sovversiva; 300 hanno avuto pene con meno di dieci anni, oltre 3100 più di dieci anni, quasi 600 più di quindici anni, centinaia gli ergastoli. Questi dati, che se analizzati da un punto di vista sociologico vedrebbero altissima la componente proletaria tra coloro che furono inquisiti e altrettanto alta quella delle presenze femminili, ci dicono di un’irruzione nella Storia, di un autentico balzo di tigre all’interno di contraddizioni sociali altrimenti irrisolvibili, che proprio a partire dal 1975 ebbe inizio su una scala più vasta di quella già teorizzata e immaginata, con rigida logica partitica tradizionale (la coscienza instillata nella classe da un partito di militanti di professione), dalle Brigate Rosse.

Proprio al centro di queste fratture, esperienze politiche e organizzative e riflessioni teoriche si situa la cristallina esperienza di Linea di condotta, tanto ispirata dalla riflessione politica di alcuni militanti che si erano divisi dagli altri esponenti di Potere Operaio dopo la sua fine, quanto dalle energia, dalla rabbia e dalla delusione che aveva spinto alla ricerca di nuove modalità operative e organizzative una giovane classe operaia uscita fortemente delusa dalla precedente militanza in Lotta Continua, nelle sue strutture di fabbrica, territoriali e di servizio d’ordine.

Sfogliando le più di 160 pagine di Linea di condotta si osserva la presenza di una notevole mole di articoli: riflessioni teoriche e analisi marxiane destinate ad esplorare le trasformazioni dell’assetto politico-istituzionale italiano(con particolare attenzione al ruolo del PCI e della manovalanza fascista), la teoria del valore, lo scontro operante anche all’interno della crisi economica di quegli anni tra rivendicazioni della classe e volontà di ristrutturazione capitalistica, la ridefinizione dell’importanza dello scontro intorno al salario e la sua funzione politica ancor più che sindacale, oltre che i due documenti in cui l’ala più radicale degli operai di L.C. aveva detto addio alla formazione precedente, ormai impastoiata dalle paure e dalle scelte riformistiche della sua direzione, in aperto contrastato con la pratica militante degli anni precedenti.

Sono pagine che annunciano l’inevitabilità di una guerra civile, magari a bassa intensità, che avrebbe attraversato la società italiana e animato lo scontro di classe negli anni a venire. Un annuncio della necessità di un partito formale che, pur rimanendo sul filo del tempo, avrebbe dovuto saper interpretare una rivoluzione anonima e tremenda guidandola su traiettorie non ancora sperimentate. Proprio come dovrebbero fare ogni autentica rivoluzione e ogni autentico partito rivoluzionario, che per esser tale deve saper rivoluzionare anche le proprie forme, senza voler far rientrare le novità dello scontro di classe all’interno di forme già superate o sconfitte (probabilmente le due cose si accompagnano sempre) finendo col riuscire soltanto a castrare le iniziative e le indicazioni di lotta e organizzazione provenienti da una società in rivolta.

Indicazioni che proprio a partire dall’esperienza operaia ponevano al centro la questione del potere politico. Ma la “questione del potere” non poteva e non può che chiamare in cau­sa la “questione militare”. Se, infatti il “politico” presuppone sempre la messa in forma della guerra, la “questione militare” non poteva e non può essere altro che parte costitutiva del “politico” medesimo.

Una scelta che avrebbe visto ancora alcuni degli intellettuali presenti nei ranghi redazionali del numero unico allontanarsi negli anni successivi, ma che avrebbe dato i suoi frutti, magari immaturi e forieri di indicazioni per il futuro allo stesso tempo, nelle lotte degli anni successivi.
Una lettura che si rivela particolarmente utile ancora e forse soprattutto oggi, quando di fronte alla pandemia che ci avvolge, alla crisi economica e alla probabile guerra che verrà, l’assenza di prospettive è causa, per molti militanti antagonisti, di una condizione di impotenza e smarrimento cui le iniziative spontanee di lotta dal basso (dalle fabbriche alle carceri fino ai territori) iniziano a fornire modalità di risposta non ancora pienamente colte nella loro intima essenza.
Così come non è ancora stato colto in pieno l’assetto politico-militare che il capitale si è dato negli ultimi anni, in funzione di una guerra civile già annunciata e di cui la militarizzazione legata all’attuale crisi sanitaria ed economica non è che uno dei più prevedibili aspetti.

N.B.
Il testo è fin da ora disponibile on line in ebook e anche in cartaceo, sul sito dell’editore, su amazon, su ibs e per le librerie che vorranno ordinarlo presso il distributore (Messaggerie) che comunque anche se operativo a mezzo servizio avrà disponibile il libro.