di Piero Cipriano
Questo scritto ha per oggetto il virus e ha per titolo un libro di Roberto Bolaño. La storia inizia quando il virus ancora non era epidemico, ancora si poteva uscire di casa, fare la spesa, correre nei parchi, ancora non era iniziato il trattamento sanitario obbligatorio con obbligo di dimora a casa per chi una casa ce l’ha, e possibilità di uscire solo se i motivi sono con-provati.
Erano i primi di marzo, e andavo come sempre in ospedale, il luogo perfetto per lasciarsi incubare dal coronavirus, l’ospedale dove ancora non era arrivato ma di lì a poco sarebbe arrivato, era questione di giorni, ore, e il nosocomio dove lavoro vivo penso dormo mangio parlo impasticco – pensavo – diventerà un lazzaretto che regalerà, anche a me, la peste del nuovo millennio, quel giorno andai e per fortuna dormii fino alle sei del mattino. Un’insolita calma come sempre è calmo prima della tempesta. Alle sei del mattino quando pensavo di averla ormai scampata chiama il pronto soccorso, era Edvige, l’infermiera altissima, altera, diceva c’è uno venuto con otto poliziotti. Era già venuto cinque giorni fa, legato sedato poi ci avevo parlato l’avevo fatto sciogliere se n’era andato. Ora ritornava. Diceva il poliziotto che di continuo era lì intorno al Vaticano, per incontrare il papa, deve convincerlo, non si sa di cosa. Ci parlo. Gigantesco. Esaltato. Pazzo. Dice dio mi è venuto in sogno mi ha detto cosa fare in trenta minuti ho scritto centotrenta pagine che ho consegnato a un sacerdote del Vaticano, ho una missione, nessuno mi fermerà. Lei è un incapace, pensa di sapere quello che ho in testa, ma sono io che so leggere tutto quello che lei ha nella testa, lei sarà licenziato da questo posto, io riformerò gli ospedali, riformerò la polizia, riformerò lo stato, riformerò il mondo. Lo lascio fare. lo lascio sfogare. Lo lascio insultare. Lo lasco delirare. Poi gli dico. Per uno che ha visto dio, lei è poco gentile. Anche io ho visto dio, per questo la tratto con gentilezza. Perché lei è un figlio di dio. Io pure sono un figlio di dio. Lei deve essere comprensivo, con me. Non sono perfetto, come non lo è lei. Abbiamo entrambi visto dio, dovremmo essere entrambi più sereni. Io pure so quello che lei ha nella testa. Lo leggo. Come lei legge me io leggo lei. Ora lei farà queste analisi, prenderà questi farmaci che inietterò nelle vene. Farà un breve ricovero. Chi lo decide? Lo decido io. Con la grazia di dio.
E così è stato.
Finito l’intervento attraverso il lungo corridoio del pronto soccorso dove quella notte è entrato il primo paziente in questo nosocomio infettato di coronavirus, il virus è nell’aria, si sente, attraverso l’aria dove goccioline di Flügge invisibili orbitano come pianetini impazziti intorno alla mia scia sopra questi pianetini c’è questo virus che si considera il piccolo principe di questo suo pianetino detto Flügge, lui pensa di essere davvero un principe, lo sa di avere poche sequenze di DNA lo sa di essere poco meno che vivo eppure non immagina di essere diventato l’incubo di questi esseri viventi che si ritengono quasi divini, noi, gli umani, così intelligenti eppure adesso così spaventati, attraverso questa galassia di goccioline di Flügge nlasciate dal paziente infetto in isolamento eppure non contraggo l’infezione oppure sì, non lo saprò mai, non lo saprò mai perché gli operatori sanitari come me, anche in prima linea, se sono asintomatici e afebbrili non potranno mai fare il costoso tampone, test neppure sicurissimo ma meglio che niente, non siamo mica calciatori o politici noialtri, per avere il tampone. Insomma non mi infetto, ancora.
Passano i giorni. Ogni giorno arrivo nel nosocomio. L’Italia ha paura di morire per un virus. Il mondo ha paura dell’Italia. Ho il cercapersone. Il cercapersone suona. Non l’ho disinfettato. Mi lavo spesso le mani.
Adesso siamo già al 20 di marzo e tutti i giorni di questa settimana appena trascorsa e di quella precedente sono uscito di prima mattina, arrivato in ospedale mi sono cambiato, ho indossato divisa bianca camice e mascherina – io che mi fregiavo di essere un medico basagliano senza il camice mi sono ritrovato intabarrato come un chirurgo in sala operatoria – catapultato in prima linea in pronto soccorso a gestire gli arrivi di pazienti intossicati ubriachi agitati eccitati tagliati suicidati eccetera quel tipo di pazienti i meno pazienti perché vai a spiegare a loro che dovrebbero indossare la mascherina perché potrebbe esserci un virus infido eccetera c’è chi ti dice che il virus non esiste chi ti dice che l’ha inventato lui chi ti dice che lui è dio quindi immune dal virus chi ti dice che l’hanno messo in circolo gli americani anzi i cinesi anzi quelli dei vaccini anzi gli extraterrestri eccetera e non è detto che una di queste tesi non possa essere quella giusta, in ogni caso la mascherina non se la tiene e quindi fare attenzione a che non venga legato perché la pazienza degli operatori è al minimo e non vogliono rischiare di infettarsi e se quello non rispetta le regole si espone al rischio della contenzione e insomma tutta la settimana va avanti così.
Iniziano a questo punto le chiamate telefoniche. Sono uno psichiatra più o meno conosciuto per la cosiddetta riluttanza ai manicomi. Qualcuno se ne ricorda e mi chiede lumi. Come ci comportiamo adesso che c’è il virus? C’è chi mi chiama al numero dell’ospedale chi mi chiama sui social chi perfino al telefonino ma come ha fatto ad avere il mio numero? Oppure mi chiama qualche paziente che ho avuto anni fa e che si ricorda di me adesso che è agli arresti sanitari.
Dottore, lei mi disse che correre era meglio degli antidepressivi, vivo in Campania, come faccio adesso che il governatore De Luca ci spara se usciamo?
La prima chiamata degna di nota però è quella di Caltabellotti, l’uomo che ricoverai perché voleva a tutti i costi parlare col papa. Dopo dimesso, il giorno in cui il papa uscì a spasso con la scorta per andare a baciare il Cristo degli appestati a cui chiese di salvare il mondo dal virus con la sua mano, mi chiama: è il dottor Cipriano? E’ proprio lei? Sicuro di essere lei? Non posso dirlo ad altri che a lei. Credo di essere io, parli pure. Era quello che volevo dire al papa, non ci sono riuscito ma lui mi ha ascoltato lo stesso. Ha fatto ciò che andava fatto, recarsi al Cristo degli appestati e chiedere la grazia, lui doveva farlo, adesso siamo salvi, il virus, almeno questo virus, non sarà lui che ci farà fuori. Per un po’ siamo al sicuro.
Attacco. Chi era? Fa la mia collega. Caltabellotti. Quello che avevo ricoverato. Dice che grazie a lui il papa ha capito e è andato a implorare la grazia di Cristo. Ora siamo salvi.
La mia collega fa: ma il papa ce l’aveva l’autorizzazione per uscire? Come dici? Ce l’aveva il comprovato motivo? Era un motivo di lavoro la sua uscita? Di salute? Di necessità? Perché è uscito? Beh, le dico, possiamo farlo entrare nei motivi di lavoro, se ci pensi esercitava il suo ministero, intercedeva con Dio per la nostra salvezza dal virus. Non l’ho convinta. Avrebbe secondo me fatto il TSO pure al papa.
Le chiamate poi sono continuate. Messe in fila, in sequenza, le chiamate telefoniche di questi giorni, casuali, sincroniche, compongono tante tessere di un puzzle che diventa narrazione. Teoria. Spiegazione. Soluzione. Vediamo un po’… chi ha chiamato.
Ah, dicevo, quel mio vecchio paziente fobico della Campania. Mi chiama per lamentarsi che in Campania questo governatore dal piglio autoritario si rammarica perché in Cina hanno i mezzi (repressivi che lui non ha) per governare l’epidemia. Dice che il governatore campano ha dichiarato in un video di voler fare un’ordinanza per impedire alla gente di muoversi per strada. Chi viene trovato a passeggiare o se ne sta seduto su una panchina dovrà stare in quarantena per quindici giorni e se non viene rispettata la quarantena avrà un processo penale.
Gregorio da Pescara, non lo conosco, non so che problemi abbia, ha letto un paio dei miei libri, mi scrive: ma non gli basta la lezione delle carceri? Detenuti ammassati in spazi troppo stretti sedati da psicofarmaci e oppiacei – almeno metà dei detenuti assume psicofarmaci, il carcere, ha ragione lei dottore, è indistinguibile da un manicomio – che esplodono si ribellano protestano assaltano le medicherie si uccidono con psicofarmaci e metadone. Ebbene io lo so che tra poco esploderanno le case gli appartamenti i condominii i monolocali trasformati in carceri in arresti domiciliari in obbligo di dimora. Tra poco, per uscire di casa, le persone avranno il comprovato motivo di doversi recare al pronto soccorso da lei, dottore, per ricevere antidepressivi ansiolitici e stabilizzatori dell’umore. Di questo passo tutti salvi dal virus ma tutti schizzati e sotto psicofarmaci, alé.
Carmine da Reggio Calabria. Un grave ossessivo che lava le mani cinquanta volte al giorno, timori di contaminazione continua, l’ossessivo, si dice, ha il Thanatos costantemente conficcato nel cranio e si difende dalla costante incombenza della morte coi suoi rituali, tra tutti domina il lavarsi. Dice dottore! (con quella parlata calabra aspirata) finalmente non mi sento più malato, qui tutti si lavano le mani nessuno esce nessuno si tocca si stringe le mani non ho più bisogno di giustificarmi, per me questa è la normalità.
Paolo da Milano. Pure lui mi chiama al numero del reparto ospedaliero. Dice ho letto Agamben. Tutti danno addosso ad Agamben. Il povero Agamben. Ma che vi ha fatto Agamben. Pecore che non siete altro. Mentre parla vado sullo smartphone a leggere ciò che ha scritto Agamben, ha scritto che: “L’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita”.
Ovvio, dice Paolo, una società materialista che crede solo nella vita e non sa niente della morte, non s’è mai interrogata sul morire, ovvio si attacchi alla vita quand’anche fosse vivere vegetativamente e basta, chi se ne frega dei rapporti sociali delle amicizie dell’amore basta che non si crepi poi va bene stare tutta la vita dentro agli arresti sanitari. Neppure dei morti, aggiunge, ci deve importare, tanto sono morti, non servono più alla nostra nuda vita, se muoiono saranno seppelliti in una fossa, il funerale non si usa più, sei matto? Sarà pieno di untori. Nuda morte per nuda vita.
Mi ha incuriosito, appena attacca mi vado a leggere altro del filosofo che di questo passo sarà arrestato per terrorismo: “Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi”.
Squilla di nuovo, è ancora lui. È impegnato? Posso dirle un’altra cosa? E continua, Paolo, il bipolare Paolo, anzi no, il ciclotimico Paolo, dice: Non stiamo combattendo un virus, dottore, qui stiamo combattendo noi stessi. Sa qual è la verità? La verità è che da un po’ tutti questi rituali ci avevano stufato ma non sapevamo come fare, il lavoro, la scuola, lo sport (soprattutto il calcio), le uscite, gli aperitivi, il cinema, il ristorante, le passeggiate, lo shopping, le amanti, gli amanti, i premi letterari, le presentazioni libresche, i festival, le sagre, le feste patronali, i carnevali, le olimpiadi, tutto, tutto, tutto questo assembramento di umanità, tutto questo obbligo di socialità, tutto questo consesso umano, tutte queste conoscenze, contatti, amicizie, like, tutto ci aveva strarotto i coglioni.
Per un po’ – continua, è in pieno trance apocalittico, lo lascio dire – continueremo nel virtuale, per un po’ anzi si accentuerà il consumo di internet dei social dei post dei like, poi, senza che il virtuale abbia una continuità reale nel mondo di fuori, senza che si possa toccare qualcuno, il gioco degli hikikomori, di questa umanità ridotta a una serie di monadi hikikomoriche, non reggerà a lungo. Inizierà la solitudine. Non rispondere a uno poi a un altro a un altro ancora. Finché il silenzio farà da prodromo alla follia. Tutti si ordineranno delle carabine con cui, dal nascosto del proprio balcone invece di cantare Azzurro o Fratelli d’Italia ogni tanto schioppetteranno all’untore potenziale che ancora osa uscire, passeggiare, correre, portare a spasso il cane. E dopo ancora, quando nessuno più uscirà, inizierà il tiro al piccione con fucili di precisione da una casa all’altra. Tutti prenderanno l’abitudine a non accendere le luci e a tenere basse le serrande e ordineranno porte antisfondamento e serrande a prova di pallottole. Il processo di autosegregazione, per i sopravvissuti, sarà completo. Fatto ciò, seguirà, senza più un nemico visibile fuori, l’accoltellamento del nemico interno: sgozzamenti, soffocamenti, precipitazioni, tra membri della stessa famiglia. Di cui ne resterà uno solo. A quel punto l’unico superstite di ogni famiglia, siccome neppure più le consegne a domicilio saranno possibili, dovrà per forza uscire, e le strade saranno popolate dai più feroci, i sopravvissuti che hanno già ucciso i propri famigliari, che vanno a caccia, sbronzi di furia omicida. La caccia è aperta. Il virus non ci ucciderà, dicevo, per infezione fisica, ma per infezione psichica.
Ogni tanto ricevo dei messaggi whatsapp o sms, molto laconici.
Dottore: ma lei che studia la psicologia delle masse, l’ha capito perché le persone ai balconi cantano l’inno di Mameli?
No. Forse perché il virus gli ha già dato alla testa? Ma non glielo dico.
Intanto oggi 20 marzo sono andato a correre, voglio farlo prima che inizi il divieto anche per correre. Entro nel parco degli acquedotti e non c’è anima viva. Un parco immenso di 240 ettari percorsi da nemmeno mezza dozzina di runner quasi-fuorilegge, tra cui io. I romani tutti in casa. Io allungo. Dieci chilometri di libertà. Riempio il mio cranio della dose di endorfine che mi è necessaria. Che mi spetta. Che mi merito. Con cui, da quarant’anni almeno, mi drogo. Endorfine da corsa che da vent’anni prescrivo alle persone depresse o ansiose o incazzate per non dar loro antidepressivi o ansiolitici o stabilizzatori dell’umore e quasi sempre funziona. Ora però, dice il ministro dello sport – uno che finora lo sport sembra averlo visto solo in televisione – se le persone continueranno a correre dovremo proibire pure la corsa. Nuda vita, ripeto: è nuda vita questa. Se polizia o carabinieri non mi prenderanno – sento l’altoparlante del grande fratello che ripete: restate a casa restate a casa restate a casa – sarò ancora un efficiente psichiatra del Servizio Sanitario Nazionale italiano. Capace di trattare con la giusta calma pazienza gentilezza empatia gli agitati o i depressi. Se dovesse andar male, se mi prenderanno, ci sarà un criminale in più e un medico in meno sul suolo italiano.
Ci penso, mentre corro, solitario come un appestato o un appestatore, sono ora più che mai dottor Jekyll e Mister Hyde. Al mattino sono uno degli angeli – stucchevole contentino con cui ci prendono per il culo, mentre ci espongono a rischi senza maschere adeguate e senza tamponi, noi no ai calciatori sì – che salvano persone, in prima linea intabarrato in un pronto soccorso. Di pomeriggio sono un demone untore che siccome corre in un parco immenso e desolato può ungere il mondo.
Mentre sto per rientrare nei miei arresti sanitari una delatrice mi indica, con quel dito secco, la riconosco, è lo stesso tipo antropologico, lo stesso archetipo di essere umano che prima se la prendeva coi migranti o coi rom ora deve per forza – sobillata dalla televisione – trovare un nuovo capro espiatorio, e in questo momento sono io, dice, indicandomi agli altri in fila, è andato a core’, nullo capischeno che nun devono core’. I guardiani della nostra nuova dittatura sanitaria. Faccio un esperimento. Metto questa frase su Facebook. Voglio vedere chi abbocca. Come si divide la mia bolla. Anche gli insospettabili mi biasimano. Perfino una collega di buon senso mi scrive: “Il diritto o meglio la libertà del runner di correre non è meno importante della mia di passeggiare o di quella degli anziani di uscire e camminare all’aperto. Se tutti ci sentissimo liberi di fare altrettanto starebbero tutti in strada. Invece tu puoi continuare a correre perché la maggioranza si sacrifica in nome di un interesse che dovrebbe prevalere e cioè quello per la collettività!”.
Qui capisco che non ce la faremo. Ha ragione Agamben. In nome della nuda vita siamo disponibili a farci espropriare di tutto, tra poco anche dell’aria.
Le prove tecniche di dittatura sanitaria stanno andando benissimo. Non abbiamo speranza di farcela.