di Giovanni Iozzoli
Giovanni Iozzoli, Il Mostro di Modena. Otto femminicidi ancora irrisolti, Edizioni Artestampa, Modena, 2020, pp. 208, € 18,00.
[È uscito in libreria Il mostro di Modena, sesto romanzo di Giovanni Iozzoli. Si tratta di una trasposizione narrativa delle drammatiche vicende che insanguinarono Modena tra il 1985 e il 1995: otto femminicidi, presumibilmente riconducibili allo stesso ambiente criminale se non, addirittura, alla medesima mano omicida. Il Mostro di Modena è un romanzo con un suo sviluppo narrativo che prescinde dalla cronaca pur essendo stato scritto ricorrendo alla consulenza preziosa di Pierluigi Salinaro, vecchio responsabile delle pagine di “nera” della “Gazzetta di Modena” e primo a ipotizzare, quasi in solitudine, la verità che tutti, anche gli inquirenti, per alcuni anni provarono a esorcizzare: tra i viali notturni della “piccola città”, per un decennio, si aggirò un killer seriale freddo e spietato. Una verità scomoda, che costrinse la città a guardarsi dentro, a interrogarsi sulle sue zone d’ombra, le sue disperazioni silenziose. Il Mostro colpiva solo giovani donne del circuito eroina-prostituzione: il risvolto notturno di una città troppo impegnata a decantare le sue eccellenze diurne, i suoi successi civici, i suoi fatturati. Fu infatti la marginalità sociale delle vittime, a giustificare per anni il carattere raffazzonato e inconcludente delle indagini.
Un invito a non ignorare le ordinarie “mostruosità” che anche oggi la provincia padana riesce a celare tra le sue pieghe perbeniste. Di seguito si propone un breve estratto del capitolo “Il mostro nella testa” – G.I.]
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Non aveva mai smesso di pensare a Lui. Per trent’anni. Non era riuscito a lasciarselo dietro, chiuso nei cassetti della sua scrivania in redazione, quando era andato in pensione. Non era riuscito, Salinaro, a sommergere il killer nel mucchio dei ricordi di tutta la cronaca nera che aveva infestato la provincia e la sua carriera. Certo, i promemoria, negli anni, non erano mancati: qualche trasmissione televisiva lo aveva convocato, qualche commemorazione giornalistica lo aveva citato, qualche collega giovane continuava ad interpellarlo come illustre esperto del caso; ma non si trattava solo di quello – esercizi di memoria o lezioni di mestiere. Il Mostro stava dentro la sua testa, dentro la sua storia, dentro il suo presente. E il motivo principale di questa persistenza, è che il killer non era mai stato scoperto. Non era mai passato dalle pagine della cronaca nera a quelle della giudiziaria. Nessuno aveva mai visto i suoi polsi ammanettati, nessuno aveva mai visto la sua faccia sgomenta al momento dell’arresto, nessuno l’aveva mai interrogato. Questo lo rendeva raro, interessante, come certi esemplari animali di cui si favoleggia ma che nessun etologo è mai riuscito a catturare. Un killer seriale che ammazza con regolarità per un quarto di secolo senza lasciare tracce apprezzabili dietro di sé. E poi sceglie di inabissarsi, consapevolmente, dimostrando un potente autocontrollo: non era un disperato che cercava di essere scoperto, come molti colleghi assassini; questo era un uomo che voleva preservare se stesso, la sua libertà, la sua identità sociale. Non era un reietto, un uomo dei margini, che vedrebbe la galera come una specie di fine della sofferenza. Questo era uno che aveva sfidato la società e la morale, ma con freddezza, per vincere la sfida, senza altri doppi fini che la affermazione di sé, il trionfo solitario della sua volontà.
– Ma chi era, anzi chi è, stó canchero di assassino? Ed è ancora in giro? È vivo? È anziano? Si è pentito? Può essere che un giorno racconterà la verità: a tutti, alla città, alla legge, a se stesso?
Anche Salinaro, professionista predigitale, aveva un suo archivio cartaceo dove andava ogni tanto a razzolare. Faldoni, fogli, appunti. Quasi tutti dedicati al mostro. Li sfogliava raramente, soprattutto quando aveva bisogno di riconnettersi lucidamente a quelle storie.
– Ma se lo conoscessi? Potrebbe essere benissimo. Conosco mezza Modena – conoscevo galeotti, prostitute e marchesi; niente di più normale che abbia anche stretto la mano, di questo signore. Non impossibile che anche oggi io stia continuando a stringerla, quella mano. Potrebbe essere chiunque, dai sessanta in su. Potrebbe essere un poveraccio o un professionista altolocato, un muratore in pensione o un avvocato di grido.
Non riusciva a contemplare l’idea che fosse morto, gli sembrava banale come epilogo.
– Morto di che? Di vecchiaia? Di malattia? Un suicidio anonimo, magari dopo molti anni, per tacitare una coscienza lacerata?
No. Decisamente questo mostro modenese non era il tipo da rimorsi o ripensamenti. E in qualche modo sentiva anche che Lui era ancora in circolazione, mescolato all’esercito della brava gente, perfettamente mimetizzato, difeso dal tempo che affievolisce i ricordi e stinge il desiderio di giustizia negli uomini.
Negli anni in cui Salinaro – più o meno dopo terzo omicidio – aveva battuto con forza la pista del killer seriale, qualche segreta inquietudine aveva cominciato invaderlo. Forse l’assassino non aveva piacere che si montasse un battage giornalistico intorno alle sue gesta; forse non voleva che le indagini si orientassero in un senso ben preciso; forse questo Salinaro poteva risultare indigesto, al mostro della via Emilia. Era il caso di preoccuparsi? Era il momento di pensare anche alla sua famiglia, solitamente trascurata eppure così preziosa? Se il mostro avesse deciso di vendicarsi dell’acume e della caparbietà di Salinaro? Se avesse provato a infilarsi Lui nella vita dell’indagatore?
Pensieri segreti, paure, sensazioni – e quello strano invisibile filo che Salinaro sentiva essere, all’altro capo, connesso con il killer.
Fortunatamente l’assassino non lo cercò mai, non gli lanciò segnali o minacce. Non era il tipo.
– Non bisognerebbe mai mollare le indagini. Con tutta la tecnologia di oggi si potrebbe fare molto. Ma ci vorrebbe la volontà: investire tempo, risorse, metterci la faccia. Qualcuno in Procura ha voglia di farlo sul serio? Non credo. Il tempo non sarebbe un problema. Ci sono stati dei casi che hanno richiesto anche trent’anni, per essere sbrogliati. Allora la gran parte delle indagini fu fatta a cazzo di cane. E chissà quanti reperti sono stati smarriti. O occultati.
Stava passeggiando da solo, lungo uno dei corridoi luminosi del Grandemilia, Salinaro, gettando occhiate distratte a questa o quella vetrina.
Non ricordava quasi più cosa fosse venuto a comprare, quei posti lo avevano sempre disorientato e irritato. La gente imbambolata o nevrotica, le luci esagerate, gli echi striduli di pianti di bambini, risate di ragazzini, recriminazioni di vecchi che questionano con i dipendenti. Tutto come un eco attutita, ovattata, fuori sincrono, rispetto ai suoi sensi.
In questi periodi di ricordi arrembanti, non faceva altro che sovrapporre il presente alle memorie passate, come tutti gli anziani nelle loro giornate di malinconia.
– Qua era tutta campagna. E non era neanche zona di prostituzione. Forse qualcuna di quelle povere ragazze fu portata proprio qui, in mezzo ai rovi, agli sterpi, ai casolari abbandonati che si affacciavano sulla via Emilia. Forse qualcuna di loro è stata ammazzata qua, dove siamo adesso, per essere trasportata poi nei luoghi prescelti per il ritrovamento.
Lo sfavillio della plastica, le alte volte del centro commerciale, non potevano fargli dimenticare che sotto i suoi piedi, più giù, sotto le grandi mattonelle lisce, oltre i locali caldaie e i depositi interni, ancora più sotto, c’era la terra nera, fredda, dura, sporca. Sotto le bugie del presente c’è un fondo ignoto, oscuro, arcaico. E ci camminiamo sopra.
– Perché quella messa in scena delle siringhe? Non era un depistaggio, sarebbe stato troppo banale, troppo facilmente smascherabile. Era un segnale, un codice, un simbolo? Quel pazzo voleva ripulire Modena dalle sue tossiche, dalla droga, dalla sporcizia, dal degrado? Era un killer moralista, un epuratore, uno che voleva tornare ai bei tempi andati, quando questo era un paesone senza droghe e senza forestieri? Ce n’erano di tipi così, in giro per Modena. Odiavano i meridionali, che erano parassiti e portavano la delinquenza. Odiavano i giovani, che erano ribelli e pronti al buco. Le puttane non le odiavano – perché quei tizi lì sono i clienti più assidui; ma quell’attività andava regolata e nascosta, non esibita sulla pubblica piazza. Quando a Modena cominciano a girare davvero dei soldi – meccanica, tessile, ceramiche, alimentari –, quando Modena comincia a diventare una città moderna, parecchia gente subisce questa cosa come uno stupro. Anche quelli che ci stanno facendo i soldi. E allora? Che c’è di più naturale che andare ad ammazzare ragazzine tossicodipendenti che battono? Sono la quintessenza della modernità. Sono l’esempio lampante, agli occhi dei moralisti, di quello che Modena non sarebbe mai dovuta diventare.
Però questa spiegazione non ha mai convinto Salinaro. Troppo facile. Il movente qua sarebbe quasi ideologico – una specie di Ludwig in salsa emiliana. Ma questo killer gli sembra più sottile, più contorto, meno decifrabile. Non si è mai tolto dalla testa, Salinaro, l’idea che ci fosse una ritualità, nella disposizione dei cadaveri. È per quello che il filo elettrico tra lui e l’assassino è rimasto teso e sotto carica: perché non è mai riuscito a capirlo.
Ogni cosa, anche la più turpe, deve avere le sue ragioni. Istinti, pulsioni e tutto il campionario psichiatrico non lo hanno mai soddisfatto: Salinaro è uomo da 2+2. Qual è la storia di questo assassino che sta invecchiando in santa pace, dopo essersi lasciato una scia di sangue giovane alle spalle? Perché lo faceva? Cosa pensava di ricavarne?
Salinaro si ritrova nell’aria un po’ fumosa di una delle uscite posteriori, è arrivato fuori quasi senza accorgersene. Non ha comprato nulla, non gliene frega niente. Davanti a sé ha la via Emilia, rattoppata e stanca – trafficata come sempre.
– Forse quel figlio di buona donna era lì dentro, insieme a me a fare la spesa. La faranno anche i mostri la spesa, no? In questi 25 anni non avrà vissuto d’aria. Avrà avuto una vita normale – buongiorno dottore buonasera signora –; gli amici a cena nella tavernetta il sabato sera, il prato da tagliare la domenica mattina, mentre i vicini lo salutano rispettosi. Questa è l’essenza della faccenda: la normalità modenese, il tran tran quotidiano sotto il cielo di piombo, quest’aria avvelenata che ci soffoca, che ci sta uccidendo tutti mentre continuiamo a dire – buonasera signora, i miei rispetti dottore – e dietro l’allestimento di scena c’è il mostro, silenzioso, placido, che guarda e sorride, sornione.