Piccolo racconto horror bolognese.
di Mauro Baldrati
Appena intravide la fila, lunga, cattiva, che usciva dal cinema Rialto e continuava sul marciapiede, Mauro si scoraggiò. Provava un’insofferenza, forse un vero e proprio terrore per le file, alle poste, alle casse, le code in autostrada. Ebbe l’impulso di fare dietro front e tornare a casa. Ma era uscito apposta per non restare solo, in quel sabato sera di fine gennaio. Non era accaduto nulla di particolare, Lucilla era andata a giocare a carte con le amiche, e quando questo accadeva lui guardava Netflix. Ma non quel sabato sera.
Il viaggio non era stato semplice. A piedi non se la sentiva, erano dieci chilometri dal suo paese della Città Metropolitana di Bologna. In auto sarebbe stato assolutamente impossibile parcheggiare. Per cui aveva scelto un itinerario ibrido, cinque chilometri a piedi e il resto in autobus.
Come temeva, quando raggiunse la cassa erano rimasti solo pochi posti in prima fila. Disumano. C’era da spaccarsi il collo. Che fare, a quel punto? Erano quasi le dieci. Non c’era tempo per raggiungere il Lumiere, dall’altra parte della città, dove proiettavano 1917, l’unico film vedibile in quella cacofonia di blockbuster, commedie e horror per adolescenti.
Uscì dal cinema. Sostò sul marciapiede, mentre gli ultimi aspiranti spettatori si affrettavano, illudendosi di trovare qualche posto libero. Hammamet. Ma erano tutti nostalgici craxiani, come quelli che andavano a Predappio? No. Era la pubblicità. Qualunque fosse il taglio del film, negativo o positivo, Craxi funzionava come icona. D’altra parte lui stesso, che aveva odiato il craxismo, non era uscito di casa per assistere a quella proiezione? Per quale motivo, se non l’attrazione malata che esercitavano quei personaggi mediatici border line?
Comunque ora bisognava prendere una decisione. Si trovava in un punto della città che, a quell’ora, non era raggiunto da nessun autobus. Forse poteva chiamare un taxi. Per dove? Per Casalecchio, 20 euro? Niente da fare. In quel periodo lui e Lucilla erano massacrati dalle spese. Per il centro foodizzato, nelle osterie strapiene, coi ragazzi sui marciapiedi con la birra in mano? Tra l’altro lui non era più un ragazzo. E poi che fretta aveva?
No, non c’era che una soluzione: tornare a casa. La sola idea di passeggiare da solo nella città invasa di grida e di risate lo deprimeva. Avrebbe impiegato almeno mezz’ora per raggiungere a piedi la prima fermata di un autobus. Una volta a casa avrebbe guardato un’oretta di Netflix, poi a letto. Fino al ritorno di Lucilla.
Imboccò Via Castiglione e si trovò sul viale di circonvallazione. Doveva camminare fino a Via Saragozza, per prendere il 20. Non era una prospettiva allettante. I viali erano sovraccarichi di traffico.
Iniziò la marcia. Teneva un ritmo sostenuto, ma non troppo. L’aria era di pessima qualità. Si sentiva la puzza di smog. Imboccò un paio di sottostrade che fiancheggiavano il viale, per cercare un’aria più respirabile. Intanto avanzava, guadagnava terreno.
Lo scenario era spettrale. Le auto correvano, le ville dei signori, che dal dopoguerra si erano ritrovate un’autostrada come panorama, avevano le finestre e le porte sbarrate, dietro ai cancelli alti due metri. Un pezzo di città morta. Abbandonata. Aveva un suo fascino. Il fascino della desolazione.
Quando era arrivato circa a metà del tragitto tra Porta Castiglione e Porta Saragozza, notò, davanti a lui, una figura claudicante che sembrava camminare con difficoltà. Col suo passo la raggiunse rapidamente. Era una donna, molto anziana, che zoppicava, appoggiata a un bastone. Aveva una corolla di capelli biondi, chiaramente tinti, una faccia truccata, non pesantemente ma con rossetto rosso, occhi azzurri. C’era come una strana giovinezza in quel viso rugoso e cascante.
“Signora, va tutto bene?” chiese. Mauro era così. Provava degli slanci verso le persone disabili, indifese. “Oh” rispose la donna, guardandolo. Gli occhi erano vivaci, nel viso immobile. “Il ginocchio, sa. E’ malandato. Mi ero illusa di uscire per una passeggiata …”
Una passeggiata sul viale. Un posto orribile. Infatti non c’erano pedoni. Solo qualche sparuta bicicletta. “Dove abita?” chiese. La donna indicò un punto davanti a sé. “Laggiù. Sono quasi arrivata….” Mauro le offrì il braccio. “Vuole appoggiarsi? Posso accompagnarla?” La donna sorrise. Sembrava non solo ammirata, ma anche divertita da lui. “Davvero? La ringrazio moltissimo. In effetti temevo che il ginocchio avrebbe ceduto.” Lo prese sottobraccio. Mauro sentì il suo peso, si inclinò leggermente per sostenerlo.
Avanzarono lentamente, un passo dopo l’altro, con qualche sosta. Lei, che si presentò come Maria, ma per tutti era Mariolina, continuava a dire che era davvero gentile, e magari tutti i giovani fossero stati come lui. Invece era raro trovarne qualcuno che cedeva il posto in autobus…
Arrivarono davanti a un grande cancello spalancato. “Eccomi arrivata” disse Mariolina. “Non so come ringraziarla, Mauro.” Lui si offrì di accompagnarla in casa, sicuro che avrebbe rifiutato. Ormai c’era la psicosi dei ladri, dei rapinatori. Per i media la città sembrava assediata dal crimine e dal degrado. Lei sospirò, poi sorrise. “Guardi, in effetti devo salire cinque gradini, e la cosa mi preoccupa. Avrei bisogno di un monta scale, ma… il condominio, sa.” Sorpreso per la sua risposta, Mauro l’aiutò ad aprire il portone e la sostenne mentre saliva i gradini.
Mariolina aprì una porta blindata ed entrarono in un vestibolo scuro, con una vecchia carta da parati ingiallita dagli anni. Mauro sentì subito l’odore di chiuso, di muffa. O forse era l’odore della vecchiaia, un misto di cucina e di stantìo?
“Non esca più da sola, Mariolina” disse, accompagnandola in una cucina pulita e ordinata. Si stupì di vedere una poltrona e un tappeto coperti da fogli di plastica. Poi però ricordò che era un’abitudine diffusa anche al suo paese d’origine, nella Bassaromagna; la gente comprava i mobili e li teneva coperti di plastica, per non rovinarli.
“La prego, Mauro, si sieda. Posso offrirle qualcosa? Un tè? Pensi che in frigo devo avere addirittura una birra.” Lo disse con un tono divertito, come se si trattasse di un evento bizzarro. “Non si disturbi, Mariolina” disse Mauro. “E poi devo tornare a casa, con l’autobus, che di notte non passa mai!”
Marioloina gli indicò una delle sedie, di plastica scura. “Ma certo. Si fermi solo pochi minuti. Sa una cosa? Non ho molte occasioni di parlare con una persona giovane. Vivo qui isolata, e tra un po’ temo di ridurmi sulla sedia a rotelle.”
Di nuovo Mauro provò quello slancio di generosità e compassione. La vecchiaia era dura, e triste, se si era soli. Così si sedette, aprendo distrattamente la copia del Resto del Carlino, che giaceva sul tavolo, di plastica scura come le sedie. Sentiva Mariolina, alle sue spalle, che armeggiava col frigorifero, faceva scorrere acqua. Intanto sfogliava il giornale. Non ne comprava uno da anni. Li trovava illeggibili.
Poi, accadde qualcosa. Durò la frazione infinitesimale di un secondo, come il lampo di un flash. Eppure fu tutto incredibilmente nitido. Non poté mai ricordare quell’attimo, ma vide tutto, sentì tutto con un’intensità come non aveva mai provato in vita sua. Vi fu un colpo fortissimo, e una consapevolezza inaudita e disperata. Perché in quel milionesimo di secondo lui capì. E seppe. Senza possibilità di equivoco.
Si accasciò sul tavolo, mentre il buio calava su di lui e in lui. Crollò sul giornale, col cranio spaccato dall’accetta che Mariolina gli aveva conficcato con un colpo a due mani. Un colpo violento e preciso. Infatti le gambe erano malandate, ma le braccia erano ancora in perfetta efficienza. Il sangue, misto a materia cerebrale, si spandeva sul giornale, inzuppandolo, e colava sul foglio di plastica che copriva il tappeto.
La donna lo fissò. Era sempre stupita dalla loro immobilità. Non era lo stare immobile dei dormienti. Solo gli insetti e i rettili ne erano capaci. E un corpo senza vita.
Uscì dalla cucina, attraversò il corridoio, zoppicando, ma senza bastone, e si affacciò sulla porta della camera da letto. “Luigina!” esclamò, a bassa voce. Dal buio non arrivò nessun suono. “Luigina!” ripeté, alzando leggermente il tono. Allora arrivò una risposta, flebile e impastata: “Sì? Cosa c’è?” Un lamento. Un gemito. “Vieni, Lugina. Ne ho trovato un altro.”
Luigina, la sorella maggiore, 86 anni, 4 più di Mariolina, fece scricchiolare le molle del vecchio materasso. L’abat jour si accese. Luigina era seduta sul letto singolo, accanto a quello della sorella. Infilò i piedi nelle ciabatte di stoffa, indossò la veste da camera e si alzò con un sospiro, seguito da piccoli gemiti. A passi dapprima incerti, poi più decisi, la raggiunse. Aveva gli stessi capelli ricci della sorella, ma bianchi. E non ci pensava proprio a truccarsi. Ormai non usciva più di casa. Pensava a tutto Mariolina.
Entrarono in cucina. “Dove l’hai trovato?” chiese Luigina, con la voce ancora impastata dal sonno.
“Lì fuori. Ma è sempre più difficile, non passa quasi nessuno sui viali.” Intanto lo stava già frugando. Estrasse il portafoglio dalla tasca interna del parka e lo porse alla sorella. Subito Luigina iniziò a svuotarne il contenuto, posando gli oggetti lontano dal sangue che si era sparso sul ripiano. “Settanta euro” disse. “Una miseria.”
Mariolina tirò fuori un cellulare da una tasca laterale. “Ormai nessuno va più in giro col contante” disse, osservando il telefono. “Usano tutti quei bancomat… questo comunque è un iPhone.” Di nuovo lo allungò alla sorella. “Che modello è?” chiese Luigina. “Dovrebbe esserci un tasto… se fosse un 11, almeno un 10… naturalmente non si accende. Ci vuole il pin. Intanto bisogna rimuovere la batteria, per il localizzatore.”
Mariolina, che stava continuando la perquisizione, trovò il portamonete, o cattuino in bolognese, che conteneva 4 euro e varie monetine. Le posò sul tavolo, accanto alle banconote. Luigina nel frattempo aveva messo da parte una carta di identità vecchio modello e una carta di credito. “Quanto ci facciamo con questa roba?” chiese. Mariolina sbuffò. “Nella peggiore delle ipotesi il ricettatore ci darà duecento euro.” Poi si allontanò di un passo e squadrò il corpo con le mani sui fianchi. “Che ore sono?” Non guardò l’orologio a muro, che era appeso alla sua sinistra. A quello ci pensava Luigina. Lei comandava, la sorella eseguiva. “Le undici e trentadue.” Mariolina sembrò riflettere. Guardò in direzione del corridoio. “Possiamo farcela prima dell’alba. Col freddo il sangue si coagula prima. Magari lo immergiamo per mezz’ora nell’acqua gelida.” Quello infatti era il piano. Sempre lo stesso. Lentamente, faticosamente, quando il sangue si sarebbe in gran parte coagulato, lo avrebbero trascinato in bagno, dove c’era la vasca col paranco. Le due sorelle, in prospettiva di un peggioramento della disabilità, l’avevano fatto montare da un vicino umarell, uno di quei pensionati bolognesi tuttofare che non aveva chiesto un euro per la manodopera. L’avrebbero legato sotto le ascelle con una corda, issato col paranco e depositato nella vasca. Poi, con una piccola sega a mano, che non faceva rumore, sarebbero riuscite a tagliarlo in pezzi che avrebbero infilato in tre o quattro sacchi neri formato condominio. Quindi, con altrettanta fatica e lentezza, sarebbero scese nell’autorimessa, per caricarli nel bagagliaio di una vecchia Fiat Punto e, con Mariolina alla guida, si sarebbero dirette a San Donato, dove conoscevano una fabbrica abbandonata nel cui parcheggio c’era una cisterna interrata dalla quale sbucava una botola coperta da un tombino. Qui, con un piede di porco, con lamenti e gemiti di dolore, avrebbero spostato il tombino e gettato i sacchi nella cisterna, con smorfie di disgusto per l’odore rivoltante che fuoriusciva. Infatti ce n’erano altri tre là sotto. Prima o poi li avrebbero trovati, ma che importava. Erano attente, usavano guanti e cuffie di plastica, non lasciavano impronte né tracce biologiche. E nel loro condominio, tutto abitato da vecchi, nessuno usciva i notte.
“Sono stanca” disse Luigina, con una smorfia sofferente. “Ho mal di schiena. Possiamo farlo domani?” Mariolina scosse la testa. Ci provava sempre, la sorella. “No. Lo sai che non farei mai colazione con quello sul tavolo.” Luigina fece un “bah”, sempre lo stesso quando la sorella minore stroncava le sue proposte. “E poi” tagliò corto Mariolina, “tu dormiresti anche sotto le bombe, io non ce la faccio con quello lì. Sento dei rumori, mi vengono gli incubi ad occhi aperti. Ce ne liberiamo ora.” Luigina, con uno sbuffo, prese il soprabito di plastica dall’attaccapanni e iniziò a indossarlo. Era indispensabile per il lavoro di sezionamento, oltre alla cuffia e ai guanti. “Sono stanca” ripeté. “Stanca di lavorare tutta la notte per 274 euro.” Enfatizzò, forse di proposito, la sua gibbosità. “Certo” replicò Mariolina. “Io pure. Ma conosci qualche altro modo? La somma delle nostre pensioni non arriva a 900 euro. Abbiamo le bollette da pagare, quel dannato condominio, la tassa dei rifiuti, e a stento riusciamo a fare la spesa. E la maledetta commissione medica ci ha appena rifiutato l’invalidità.”
Questa volta Luigina non fece obiezioni.
Perché non c’erano obiezioni.
Quella era la realtà. La loro.
La dura, spietata realtà.