di Diego Leandro Genna

Se mi beccano sono fottuto! Ma posso… devo farcela!

Procedo lentamente, con cautela, non è facile con questo maledetto sacco in una mano e la pala nell’altra. Mi guardo intorno. Buio brutale. Non c’è anima viva.  E se avvistassero l’auto? Cammino con il cuore in gola, ricurvo, attento a dove metto i piedi. L’ombra della paura che m’insegue alza il passo e mi assale. Ho il terrore che una luce possa comparire improvvisamente dalle tenebre puntando su di me.  Ormai è quasi fatta, ma quanto pesa questo dannato…

Ok, qui va bene! Sono abbastanza lontano, questa scarpata nascosta dal terrapieno è perfetta, dalla strada non possono vedermi.

Lascio la presa, sacco nero e pala cadono ai miei piedi, tra le sterpaglie. Alzo lo sguardo. In lontananza il cielo sopra la città è arancione rancido. Il solito cielo tossico. Nuvole color rame vagano nella notte, raminghe come gatti nei vicoli fumosi. Le luci ristagnano sopra i palazzi, simili a strati di olio. Guardo questo scenario da oltre la periferia, dove la città si frantuma geometricamente in fabbriche, capannoni e piatti depositi, e poi in ampi spazi vuoti, dove non ci sono rumori. Ma anche il silenzio è infetto, forse grilli lontani, o rane, e soprattutto il mio pensiero, ruminato dall’ansia. Devo fare in fretta e tornare alla macchina prima possibile. Raccolgo la pala e comincio a scavare la buca. Scavo senza sosta, e all’affanno della fatica si aggiunge quello dell’orrore. Penso a tutti quelli che hanno fatto un gesto simile, e forse lo stanno facendo, adesso, da altre parti. Penso a quanti si sono trovati nella mia situazione e quanti sono stati scoperti, smascherati; penso alla fine che hanno fatto, inevitabile, ai fari della realtà che denudano il crimine, le dita puntate sul colpevole, l’affiorare delle prove, il corpo del reato, il processo immediato, la giustizia che piomba sulle loro teste… Sulla mia testa!

Quando mi rimetto in macchina nel cielo fluiscono rigagnoli di luce. L’alba è imminente.

Ce l’ho fatta?

 

La sveglia digitale segna le 17:22 di non so che giorno della settimana. Ho appena ricevuto un messaggio, dormo da ieri mattina. Sarà lei?

Da qualche tempo mi vedo con una tipa incontrata all’ufficio collocamento, è carina, sembra tranquilla, facciamo del buon sesso ma non voglio affezionarmi, e poi è meglio non fidarsi di nessuno. Si chiama Chiara. È lei. Leggo il messaggio: “Cmq meglio se ci vdm da te? Va bn x le 18:30?”. Odio quel modo di scrivere abbreviato che spreme e stritola le parole, spesso con il sacrificio delle vocali, gliel’ho anche detto ma è più forte di lei. Rispondo: “Ok ti aspetto.”

Faccio una doccia brevissima e mi vesto. Apro il frigorifero. Il vuoto. Solo una mezza bottiglia di vino solubile ormai andato a male. Verso il contenuto rosso sangue nel lavandino, sciacquo la bottiglia e la riempio d’acqua. Prima di rimetterla in frigorifero faccio un sorso, sapore di cloro e non solo. Devo cambiare il filtro da settimane ma non ho i soldi per farlo. Mi siedo sul tavolo vuoto. Osservo la stanza. È pulita. Ripenso a ieri notte. Aleggia ancora un puzzo acido, di marcio, forse solo nella mia mente, la corruzione dei corpi, la putrefazione della materia che prima di tornare polvere e cenere urla odori insostenibili, in un apice di furore nell’esalare la propria essenza.

Qualcuno bussa alla porta. Non può essere Chiara, è troppo presto!

Altri piccoli colpetti, ripetuti, nervosi. Mi avvicino senza fare rumore. Guardo dallo spioncino e vedo in tubolare lontananza una faccia arcigna e agitata. É mio cugino Django. Apro e con un balzo si catapulta dentro sbattendo la porta alle sue spalle.  Ha la stessa aria emaciata di sempre, i lineamenti aguzzati dal dolore e dal dissenso, ma qualcosa luccica nei suoi occhi.

-Che ti succede? Che cazzo ci fai qui a quest’ora? – chiedo infastidito.

-Non ti ci mettere pure tu! Ho fatto tardi perché la tangenziale era intasata e mi sono dovuto pure fermare a ricaricare le batterie dell’auto…

-Ma di cosa parli? Che ritardo?

-E no eh! Non far finta di niente, avevamo un appuntamento! Avevi chiesto l’aiuto del tuo cuginetto, non ricordi? Eccolo qui! – apre la cerniera della sua felpa e ne allarga un lembo per mostrarmi il contenuto.

-Merda Django! Me ne ero dimenticato! E adesso come cazzo facciamo? Sono a secco!

-Non dire stronzate, lo so benissimo che non hai i soldi! Eravamo d’accordo che lo avresti pagato a piccole rate, appena trovi un lavoro. Non puoi tirarti indietro, ho rischiato il culo per portartelo fin qui! È pieno di posti di blocco, sbirri e infami là fuori, lo sai bene, non lo riporto indietro con me!

-Django non ti sto dicendo che non lo voglio più, è solo che l’avevo dimenticato, ho passato una nottataccia!

-Beh, se è così adesso ti faccio riprendere io! Non appena vedrai questa meraviglia in funzione…- estrae dalla felpa l’oggetto tenendolo delicatamente con due mani, come se avesse tirato via un cucciolo dal suo nido. Mi guarda con occhi sgranati e muove in continuazione la testa su e giù.

-Guarda che spettacolo, compatto, silenzioso, di ultima generazione! È il top che circola nel mercato nero! – ruota il piccolo oggetto tra le mani.

–Dai proviamolo subito? – i suoi occhi brillano di furia e follia. Io non so cosa fare e cosa dire. Non ho soldi e non ho come provarlo.

-Ok Django, lascialo pure qui ma non c’è tempo per provarlo, sta arrivando una mia amica…-

-Ma ci mettiamo pochissimo! Rimarrai a bocca aperta…

-Ti ho detto non ora!

Django è mezzo matto. È sempre irrequieto e non sta un attimo fermo. La volta scorsa c’eravamo incontrati al bar della stazione, avevamo bevuto e parlato a lungo, poi lui aveva pianto, di rabbia e rancore, come ogni volta che si ubriacava e ricordava i suoi genitori e il fratello.  Era rimasto da solo. Come me. Tutti morti di malattia. Suo fratello aveva sei anni. Malattie terribili. Mia sorella ne aveva nove…

Da allora Django è diventato un ribelle, vive ai margini della clandestinità e prova in ogni modo a evadere leggi e tasse. Quel giorno, in stazione, mi disse che era entrato in un grosso giro, gente con le palle che faceva un mucchio di affari. Riciclaggio. Gli spiegai la mia situazione e disse che sarebbe riuscito ad aiutarmi. Per lui, qualsiasi tipo di lotta all’ordinamento, era un modo per riscattarsi da questa pattumiera di mondo.

-Chi è questa tua amica? La tipa dell’ufficio…-

– Adesso è meglio se vai Django, quando racimolo qualche soldo ti chiamo. – Lo spingo verso la porta.

-Ok, tranquillo, vado! Quanta fretta… Ti stai innamorando per caso?

-Non dire fesserie, lo sai come la penso.

-Tieni, questo è tuo!  Stammi bene e goditela!

-Ok, grazie… Ci sentiamo! – richiudo la porta con il piede.

Sospiro guardando l’oggetto che mi ha lasciato tra le mani. Sembra potentissimo. Vado verso l’armadio, meglio nasconderlo. Mi chiedo: è giusto quello che sto facendo? È giusto quello che ho fatto ieri notte? Ce la farò a venirne fuori pulito?

Mi siedo sul letto. Un nitido silenzio pervade la casa. Guardo l’orologio. 18:16. Aspetto Chiara, immobile, refrattario al tempo che cola. Un tempo sterile, gocciolio di minuti vuoti e trasparenti, senza pensieri, 18:17, uno stillicidio d’istanti, muto divenire, il battito, il sangue che scorre, il respiro, biologico involontario fluire, 18:18…

E poi l’esplosione. È un attimo, un’onda di collera che straripa dal silenzio, la porta si spalanca, irrompono uomini armati, in divisa d’assalto, invadono la casa, non ho il tempo di realizzare, mi colpiscono sul volto, con violenza inaudita, perdo i sensi. Non sono ladri, riconosco lo stemma dell’IRA.

 

No. Non ce l’ho fatta! Lo sapevo. Immaginavo che sarebbe finita male. Mi hanno scovato, imprigionato e torturato.  Mi hanno fatto parlare, ammettere la colpa, sputare fuori il rospo, il reato, il mio crimine. Hanno metodi atroci e infallibili. Non ho resistito, ho confessato tutto. Hanno trovato la casa pulita, senza un minimo avanzo, non un pezzetto di plastica, non un sacco di organico, niente di niente. E persino il tritarifiuti illegale che Django mi aveva appena consegnato, ancora vergine. Mi hanno fatto il lavaggio del cervello. Non avevo scontrini di rifiuti con me e non pago il canone inquinamento da tre mesi.

Sempre che tu non possa permetterti di vivere in una di quelle oasi fortificate, in una città foresta progettata per essere autosufficiente, a impatto mimino e canoni da superricchi, non puoi vivere senza sporcare. Lo sanno bene questi bastardi. Alla finanza ecologica non sfugge nulla. Sei vuoi sopravvivere devi consumare, e consumare significa che devi poi smaltire tutto, a caro prezzo. Paghiamo ciò che mangiamo e beviamo, e paghiamo gli involucri, le confezioni, gli incarti, le scatole, gli imballi, le bottiglie e le lattine che lo contengono. Paghiamo l’energia che consumiamo, i costi di produzione e quelli di smaltimento. Paghiamo per avere ogni cosa e nello stesso tempo per liberarcene. Paghiamo tasse e imposte per tutto ciò che consumiamo. Paghiamo ogni necessità e ogni residuo, persino i nostri bisogni fisiologici, basta tirare lo sciacquone e il contatore segna tutto, invia ai capi, e a fine mese arriva la bolletta. Il cesso è il tassametro delle nostre deiezioni… Che mondo di merda!

I cassonetti sono blindati, funzionano solo a pagamento, con sbirri piazzati ininterrottamente a controllare che tutti sborsino anche solo per il mozzicone di una sigaretta. Inserisci la moneta e torni a casa con la coscienza pulita e le tasche svuotate. Quando mio nonno era ancora in vita mi raccontava della piccola somma di denaro che ricevevi per il vuoto di una bottiglia o di una lattina. Mi diceva che il mondo era diverso, che ai suoi tempi si poteva persino fare il bagno in mare! Altri tempi.

Adesso a buttare piccoli rifiuti illegalmente si finisce in carcere e abbandonare sacchi di spazzatura per strada o nei campi significa rischiare l’ergastolo. La gestione dei rifiuti è militarizzata, è una questione di sicurezza internazionale, controlli nelle isole ecologiche ventiquattrore su ventiquattro, repressione violenta di chi eccede nel consumo, contingentamento delle acque, controlli a tappeto e rastrellamenti nelle case… Ecco in che mondo viviamo! Sommerso dai rifiuti, con squadre speciali in continua attività di disinfestazione, bonifica e quarantena. Un mondo di epidemie, di malattie e paure, con la gente che va in giro dentro le mascherine protettive e le creme a protezione totale sulla pelle. Un mondo marcio, radioattivo, che convive con la metastasi del proprio sistema, causa ed effetto dell’inquinamento.

Chiara… Quella troia! Sarà stata lei, ne sono sicuro, lo avevo capito da come scrutava la casa ogni volta che veniva a trovarmi, con quell’aria di finta vaghezza e disinteresse, ha fatto la spia, si è accorta che non c’erano rifiuti, sapeva che ero senza lavoro e si sarà chiesta che fine facevano i miei scarti. Chi non arriva a pagare i rifiuti alla fine del mese deve tenerseli a casa, fino a quando non avrà la possibilità di coprire le spese. La stronza avrà spifferato tutto all’ufficio delle imposte ambientali, e i bastardi hanno mandato quelli dell’IRA, le squadre “Impegno Recupero Ambiente”, corpi speciali dediti a stanare gli evasori ecologici e rintracciare il traffico illegale di macchinari per lo smaltimento privato. E questa volta è toccato a me. Preso, picchiato e arrestato.  Adesso è la fine. Anzi, è l’inizio della condanna.

Che ne sarà di me? È tutto buio. Dove mi hanno rinchiuso? Cosa mi aspetta? Mi lasceranno in una di quelle isole di plastica e spazzatura galleggiante, alla deriva in mezzo all’oceano, in esilio, rifiuto tra i rifiuti, oppure mi costringeranno ai lavori forzati nei campi di riciclaggio, nelle discariche, negli impianti di compostaggio, nelle cave di scorie e scarti chimici, mi faranno marcire nelle budella della rete fognaria. Per i criminali come me c’è una ferrea legge del contrappasso e il mio girone infernale sarà quello dell’implacabile giustizia ecologica.  Sento già il rovente calore degli inceneritori sulla pelle, mi bruciano gli occhi, la gola, mi sento soffocare, non respiro, mi scoppia la testa, aiuto! Qualcuno mi aiuti! Abbiate pietà di me!

 

Mi sveglio di soprassalto, in un bagno di sudore. É stato un brutto sogno. Un terribile incubo! Guardo la sveglia digitale, le 18:16, prendo il telefono poggiato sul comodino, un messaggio ricevuto, Chiara: “Cmq meglio se ci vdm da te? Va bn x le 18:30?”. Quella troia!

Salto giù dal letto, 18:17, mi vesto in un attimo e scappo via dalla scala antincendio. Non si sa mai.