di Paolo Patuelli
[Nonostante sia cosa abbastanza insolita per Carmilla, viene ripreso qui di seguito un breve ed efficace intervento sulle elezioni in E.R., già comparso on line nella rubrica Il rovescio del sociale a cura di Paolo Patuelli. S.M.]
Dopo il voto emiliano romagnolo, imperversano le analisi. Naturalmente tutte sbagliate e tutte corrette in quanto frutto di riflessioni su qualche cosa che non si mostra e mai potrà mostrarsi alla luce del sole: il nome e cognome sulla scheda elettorale sulla quale il cittadino votante ha lasciato il suo segno. Di lui non si può dire: vaga anonimo e indisturbato per le strade tra la via Emilia e il West.
In questi giorni in ufficio, dal negoziante e negli spogliatoi del calcetto del venerdì sera reciprocamente gli sguardi si sono fatti indagatori: tutti insieme a cercare di capire dove il collega, l’amico e il compagno di giochi abbia tracciato il suo segno domenica 26 dello scorso mese. La questione interessa perché in questa tornata elettorale o si era pro o si era contro. Più che di una elezione (con i programmi, le proposte, le soluzioni…) si trattava di un plebiscito per salvare la patria dal nemico. Quindi niente sfumature, nessuna possibilità di deviare dal compito: o di qua o di là.
Quel che allora qui, lungo la via Emilia, unisce l’analista (del voto altrui) e l’analizzante (il votante) è il setting: l’immaginario padano (con la p minuscola, per non scomodare i miti e i riti…).
Entrambi avvolti nella nebbia gelida come in una scena di Amarcord, gli analisti-opinionisti reali (imperiali a volte) strapagati e il resto del mondo civilizzato-analizzante, costantemente impegnato a spiare le mosse dell’altro sui social network, vagano alla ricerca della verità su ciò che è accaduto qui nella regione che unisce, a prescindere dal trattino che le divide, l’Emilia e la Romagna, la piadina e la mortadella, i cappelletti e i tortellini.
La verità non la sapremo mai. A questa tornata elettorale, la verità non si è vestita delle ideologie da sventolare in piazza assieme alle tessere in tasca da agitare senza vergogna al bisogno, ma si è travestita nell’adesione all’attualità imposta da chi qui governa (saldamente al centro del palcoscenico, guardando a destra e a sinistra) il discorso di oggi. E il discorso di oggi è: “O con Salvini o contro Salvini”.
Quindi se volete partecipare (la partecipazione, quella dei manuali più tristi di sociologia) e stare al passo con i tempi, scegliete di stare nell’attualità dell’imposto. State fermi, tenete la posizione. Accettando però la possibilità, probabilissima statisticamente, che nell’imposto ci stia nascosto l’imposto-re, un re per forza (di cose).
Nel 2005 l’inglese Mark Fisher si esprimeva così a riguardo del voto ai New Labour di Tony Blair come baluardo contro i conservatori:
“C’è ancora qualcuno che ama illudersi che un’amministrazione conservatrice sarebbe molto peggio del New Labour, al punto che degnarsi di votare per chiunque altro costituirebbe un lusso. Scegliere il meno peggio non significa soltanto prediligere questa opzione in particolare, ma anche scegliere un sistema che ti costringe ad accettare il meno peggio come il massimo in cui tu possa sperare. Naturalmente i difensori della dittatura dell’élite, forse ingannando addirittura se stessi, fanno finta che quello specifico cumulo di menzogne, compromessi e lusinghe che ci stanno spacciando è solo temporaneo. Che in un qualche definito momento del futuro le cose miglioreranno se sosteniamo l’ala progressista dello status quo. Eppure una scelta tra prendere o lasciare non è una vera scelta, e l’illusione del progressismo non è un vezzo psicologico, ma l’illusione strutturale su cui si fonda la democrazia liberale”.
Quindi per la politica, quella vera, bisognerà superare la logica imposta del (dal) meno peggio. In fondo qui, in terra emiliana, oggi non ci si può lamentare, o meglio ci si lamenta in tanti, ma con la speranza (la certezza) che qui c’è sempre e sempre ci sarà un piatto di tortellini da offrire a tutti, per chi ha fame e per chi semplicemente ha appetito.