di Jack Orlando
Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro
È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo?
Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista a chiunque, salvo poi scendere a patti con le peggiori figure del tempo, salvo agire dispositivi legali degni di una zelante camicia bruna. Eppure all’alba di questi tesi anni Venti è d’obbligo una riflessione seria e fuori da schemi stantii, non solo su quali siano le forme del fascismo contemporaneo, ma anche sulle traiettorie che esso disegna nella grande politica grazie all’azione di personaggi politici che, evidentemente, deviano dal solito registro a cui è abituata l’assise delle democrazie rappresentative. Un’assise che oggi, come non mai, rivela tutta la sua ipocrisia e fragilità.
L’analisi che Rasmussen, docente di Arte e studi culturali presso l’Università di Copenaghen e autore anche di Hegel after Occupy (2018), fa del fenomeno Trump cade allora nel momento opportuno, fornendo un’agile quanto complessa prospettiva sul nemico di oggi, quello che sta generando le nuove forme dello Stato e della politica.
Attorno al grottesco presidente degli Stati Uniti, si condensano alcuni dei nodi che si possono cogliere, mutatis mutandis, in tutti gli esponenti e i movimenti del cosiddetto sovranismo contemporaneo di ogni latitudine.
Trump non è Mussolini, né Hitler, non è un fascista classico con la divisa che saluta marzialmente le truppe armate del suo partito, eppure è un fascista; un protofascista, o un fascista Pop, se vogliamo. Le forme e i contesti sono cambiati radicalmente dagli ultimi anni Venti, ma alcuni elementi cardine permangono nella loro invariabile sostanza.
Anzitutto siamo davanti alla contestazione della contestazione, ovvero la messa in forma di quel bisogno securitario che innerva la vita della classe media in decadimento e che, incapace di vedere il suo carnefice nel capitalismo, che stesso l’ha generata, si rivolge rabbiosamente verso chi quel capitalismo lo ha attaccato, ad esempio con l’imponente ondata di proteste del biennio 2010-2011: i contestatori dell’ordine, al pari delle minoranze, dei devianti, sono la minaccia da cui difendersi, i nemici della Nazione, esattamente come lo sono le banche e i politici corrotti. È una visione paradossale e contraddittoria questa della middle class al collasso, preda di una crisi della presenza che solo un grande taumaturgo è in grado di curare. Ed è qui che emerge, dal fondo delle narrazioni democratiche, l’uomo forte, il salvatore, il riparatore dei torti.
Così si è presentato Trump al popolo: come il vincente, l’uomo di successo in grado di fare soldi a palate e tenere in riga dipendenti e famiglia, l’inviato della provvidenza giunto a fare pulizia dentro casa, giunto da fuori delle stanze dell’enstablishment e quindi pulito, non ancora corrotto dalle meschinità di palazzo.
Tra le macerie della crisi e gli appelli alla calma e all’interesse generale, che poi non fa mai bene a nessuno, si è piazzato al centro del palcoscenico, gambe larghe e petto in fuori, per dire che lui non è il presidente di tutti, che è il presidente solo degli americani buoni, lavoratori, onesti (e bianchi, etero e cristiani ovviamente) e andassero a quel paese i neri, i messicani, gli arabi, le lesbiche, i comunisti! Poche parole chiare, in mezzo a fiumi di delirio, che disegnano una linea invalicabile tra sé e l’altro, l’invariabile nemico, quello da abbattere per ritornare ai fasti d’un tempo. Per rendere l’America great again. Come lo era negli anni ‘50, con le fabbriche in città, gli operai disciplinati, le mogli ubbidienti, i comunisti spezzati e i neri bastonati nelle loro catapecchie. Con la macchina pulita, il mutuo della casa, la TV in salotto, le cimici dell’FBI nel telefono e le guerre sporche in Sud America.
È stato rimesso in gioco l’immaginario rassicurante di una società che o è andata perduta del tutto o, più probabilmente, non è mai esistita se non nelle soap opera. E attorno a quel rassicurante e depresso focolare domestico si è ricostruito il mito fondativo di una società ideale, di un popolo eletto, si sono mobilitate le pulsioni affettive, irrazionali (se proprio vogliamo definire irrazionale la voglia di un cantuccio caldo e comodo) e le si sono elevate a programma politico. Trump, ma non solo lui, ha compreso che un sogno forte è un’arma ben più potente di qualsiasi pacato e complesso programma elettorale.
Attorno al sogno, al mito, ha saputo ricreare la sua comunità nazionale, la cosiddetta comunità di destino, quella che trascende la popolazione anagraficamente data ed i territori stabiliti di diritto. Una comunità che si pone sul piano epico e metastorico: non gli Stati Uniti delle istituzioni, ma l’America dei grandi racconti, la terra del latte e del miele, la potenza che incute terrore ai suoi nemici; non gli statunitensi stretti nella morsa della crisi sistemica, ma gli americani delle réclame della Coca Cola, i Padri Pellegrini, John Wayne e Humphrey Bogart.
Terra, Popolo, Nazione, Comunità, Destino, questi sono gli ingredienti della ricetta di Trump, quella per essere grandi, per dominare il mondo, per schiacciare i nemici. E non servono tanti a argomenti razionali a confutare o sostenere il piano; d’altronde è talmente evidente! Talmente forte! Chi, se non un nemico malvagio e perverso, può essere contro la Nazione e il suo destino di tornare essere grande?
Non c’è dubbio, siamo di fronte ad una operazione politica di primissimo ordine, gli elementi chiave del fascismo poi ci sono tutti: l’uomo forte, la comunità (il trittico terra/popolo/nazione), il nemico da abbattere e l’antico ordine da restaurare. Eppure c’è un problema: abituati, come si è, a pensare il fascismo nelle sue forme solenni, storiche ed inquietanti, si perde la misura della sostanza e si finisce per guardare con una miope e ottusa sufficienza soltanto alle forme di questo nuovo fascismo in salsa pop.
Perché anziché sgorgare dalle caserme, dalla guerra, dai proclami solenni, questo nuovo fascismo è giustamente figlio del suo tempo, sgorga dalla realtà che lo circonda (come potrebbe essere altrimenti, d’altronde?) e assume le forme della televisione trash, dei talk show imbarazzanti, dei tweet, dei post fb, dei meme e della merda delirante, contraddittoria e no sense che ci inonda dagli schermi a ogni ora del giorno e della notte. È molto più facile e al passo coi tempi blaterare in continuazione sui social network piuttosto che arringare una folla inquadrata, dire che gli arabi sono ladri violenti e vengono da “paesi di merda” è più attuale che parlare del complotto giudaico. Eppure il senso ultimo rimane lo stesso, gli effetti i medesimi.
That’s the show now! E che vi aspettavate voi, i plotoni di SS che fanno il passo dell’oca in centro città? Un’idea un po’ poco originale, diciamocelo.
Sia quel che sia, ma ciò che è certo è che Trump (o qualunque altro sovranista al suo posto, ricordiamolo) con la sua ricetta di etnonazionalismo xenofobo, securitarismo violento, protezionismo economico e deregulation ha trovato la sua soluzione alla crisi. Le formule ci sono, la narrazione pure, i simboli e i registri funzionano e vengono urlati a piena voce in un teatro che ha perso qualsiasi altra attrattiva, dove le voci degli altri attori sono fioche, sbiadite e noiose repliche di uno spettacolo già fallito.
Questo è il volto della nuova politica, l’unica che appare vincente d’altronde, cosa vogliamo fare per abbattere questo nemico allora? Chiamare alla difesa della democrazia? Diffondere la cultura della tolleranza? Cantare inni per la pace o firmare petizioni on-line per approvare misure contro l’odio?1 Ottimo. Tanto quanto spararsi nelle ginocchia prima di competere alla maratona di New York.
Svegliamoci da quest’illusione della democrazia buona minacciata dal fascista cattivo!
È questa democrazia che produce i suoi mostri. O, per caso, questi sovranisti vincono le elezioni a forza di colpi di stato?
La democrazia rappresentativa, i suoi registri, le sue funzioni, di fronte all’incedere del mercato onnipotente, si fanno sempre più obsoleti, serve un Leviatano adesso, un sovrano che sappia tenere ordine col pugno di ferro nel guanto di velluto. La cultura della tolleranza e dei diritti umani non è stata, per due decenni, l’ipocrita scusa della socialdemocrazia per legittimare quella globalizzazione mortifera di cui oggi vediamo gli effetti? Non è possibile prendere un vecchio e liso canovaccio e pensare di utilizzarlo come bandiera solo perché il nemico ne usa uno diametralmente opposto. E si può chiedere allo Stato di approntare dispositivi verso il nostro nemico pretendendo che essi non colpiscano, di riflesso, pure noi? Se proprio si vuole demandare il conflitto, allora ci si ricordi della lezione del vecchio Hobbes: a parità di diritto vince la forza.
Tagliamo la questione senza ulteriori tentennamenti. Fascismo e democrazia non sono che forme politiche, contingenti e mutevoli, volte al medesimo scopo: la conservazione dell’esistente, la garanzia del soggetto dominante di continuare il suo processo di accumulazione, sfruttamento e dominio senza tanti intoppi. Il contrario di fascismo non è democrazia, ma Rivoluzione.
E se c’è da imparare qualcosa, oltre che le forme del nemico ovviamente, è che se si vuole vincere non basta l’analisi fine, il calcolo millesimale delle possibilità della fase e certo non serve la grande piazza, né la grande alleanza. È l’universo simbolico che dobbiamo interrogare, dobbiamo scomodare il mito affinché ci assista nel produrre la narrazione soggettivante che crea il popolo, quello degli oppressi sul piede di guerra, che taglia il mondo in due tra chi è amico e chi no. Non possiamo limitarci alla pura estetica del conflitto ma nemmeno accontentarci di una fredda scienza che parla solo agli addetti ai lavori e che, per di più, spesso nemmeno conosciamo. È nei simboli e nel linguaggio che un grande progetto può fiorire, replicarsi e generare la forza comune che permette di muovere l’assalto.
Offrire un mondo a chi ha perso ogni certezza, costruire soggettività dove ora vi è il deserto. Elaborare un piano e trovare le forme più deflagranti con cui farlo salire sul palco della storia. Questo è il battito profondo dell’epoca, per chi sa ascoltare.
Magari attraverso la proposta, degna della peggior censura totalitaria, di un’identità digitale obbligatoria per chi frequenta social e web e relativo provvedimento di espulsione (DASPO) “per chi non rispetta le regole della convivenza civile in rete” come proposto dal leader della nuova maggioranza silenziosa Mattia Sartori. https://www.repubblica.it/politica/2020/01/18/news/sardine_daspo_social_polemiche-246080730/?ref=search ↩