di Alessandro Barile
Un recente articolo di Stefano Portelli (Fare politica o fare ricerca, su “Lo stato delle città” n. 3/ottobre 2019) è tornato sull’ormai tedioso problema dell’uso della ricerca nelle scienze sociali: quale è il rapporto tra attività scientifica e militanza politica? Cosa farne e come divulgare la mole spropositata di indagini sociali che folle di ricercatori precari e sottopagati producono in forma tayloristica? Come combattere l’appropriazione privatistica di questa energia intellettuale mettendola in circolo laddove questa può davvero essere efficace, e cioè in quelle reti sociali e politiche da cui proviene una quota importante di questi giovani ricercatori?
L’articolo ha avuto il merito di generare un discreto dibattito, eppure le soluzioni immaginate non raggiungono l’altezza delle problematiche sollevate. La frustrazione intellettuale dei “giovani” ricercatori è un riflesso di una condizione più generale: se il carnet delle soluzioni viene pensato dentro il perimetro della ricerca, dei suoi centri di finanziamento, dei suoi enti preposti e riconosciuti, difficilmente si forzerà il circolo vizioso entro cui il ricercatore in questione è costretto a barcamenarsi pure se dotato di sincero entusiasmo. Curriculum di lotta e di lavoro oggi viaggiano in contrapposizione: se si vuole avanzare nel campo della ricerca ci si deve liberare dai retaggi ideologici dai quali si proviene; viceversa, se si rimane un militante (portando cioè dentro le ricerche un punto di vista di classe non asettico) le porte della “carriera universitaria” si chiudono velocemente, generando quel lamento che oggi si presenta come la cifra dell’approccio alla ricerca da parte del giovane in mezzo al guado. Vediamone i motivi.
L’interconnessione tra scienza e ideologia, e quindi di ricerca e politica, è una costante delle società moderne degli ultimi due secoli. C’è stato un tempo in cui (almeno riferendoci al caso italiano) questo groviglio di problemi aveva trovato un suo precarissimo equilibrio: le organizzazioni del movimento operaio – il Pci e la nuova sinistra – riuscivano a tenere insieme i due poli dell’analisi sociale, dotandosi di strumenti scientifici e divulgativi – riviste, case editrici, fondazioni e centri di ricerca, quotidiani – che erano al tempo stesso strumenti politici, ideologici e scientifici. Il risultato era sempre variabile e l’equilibrio, come detto, costantemente minato dalle ragioni della ricerca e da quelle della politica. Il rapporto tra intellettuali e comunismo nell’Italia del dopoguerra testimonia di questa estrema difficoltà: i primi rivendicando quella necessaria libertà d’indagine unico presupposto della vera ricerca scientifica; la seconda imponendo le sue ragioni contingenti, le sue necessità tattiche, piegando verità a opportunità. E nonostante ciò, nelle riviste summenzionate – dal Contemporaneo ai Quaderni rossi, da Società o i Quaderni piacentini a Critica marxista e via elencando, si è andata formando e testando più di una generazione di intellettuali e militanti politici. Gente seria, ideologicamente formata e politicamente discutibile, ma coinvolta in un processo organico che prevedeva anche la sottomissione alle ragioni della prassi politica. Chi questa sottomissione la contestava – vedi Vittorini, per fare un esempio tra i più scontati – trovava il fuoco di sbarramento di una comunità scientifica disposta a cedere – momentaneamente e parzialmente, come insegna la nostra storia culturale – quote di potere intellettuale storicamente sedimentato in privilegio di classe. Nulla a che spartire, questi intellettuali, col proletariato nazionale: eppure disposti, costretti o circuiti da un movimento di classe che sovrastava le singole carriere universitarie.
Nessuno dei partecipanti al grande dibattito politico-culturale del paese – almeno nell’area comunista – si chiedeva se tali riviste fossero “scientifiche” e di quale “fascia”; se la pubblicazione in questa o quella rivista d’area “facesse curriculum”; se una data mole di pubblicazioni facesse avanzare la propria carriera accademica. Non era un sistema esente da paradossi e opportunismi (figuriamoci…), eppure il comunismo italiano ebbe la forza di imporsi quale referente autonomo, costruendo da sé quegli strumenti di indagine, di studio della società, di ricerca e di polemica, che successivamente sono stati delegati a enti “terzi” e “imparziali”. Un contropotere intellettuale che ebbe per diverso tempo la forza di influire nella cultura “ufficiale” fin dentro le sue istituzioni più prestigiose: nel 1977, per dirne una delle mille che si potrebbero riferire, il preside della facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza era Carlo Salinari, dirigente culturale del Pci: potremmo pensarne ciò che vogliamo sulla natura del suo comunismo, del suo storicismo venato d’influenze crociane, ma a dirigere un’istituzione di prima importanza del paese era lo stesso che trent’anni prima aveva organizzato via Rasella e in seguito catturato e torturato dalla banda Koch prima di venire liberato dal carcere di via Tasso nel giugno del ’44. Una apprezzabile differenza con la neutralizzazione del rapporto tra politica e cultura subentrato successivamente.
Venute meno le lotte di classe (guarda caso), nel campo della ricerca si è prima imposto l’Osservatorio per la valutazione del sistema universitario; poi, dal 2006, il funesto Anvur. Che tutto decide e tutto valuta, investito dal ceto accademico del paese del potere massimo di decretare sulla ricerca e sui ricercatori. Il discorso regge finchè ad essere valutate sono le scienze “dure”; ma le scienze sociali? Queste condividono sì, con le prime, una metodologia d’indagine rigorosa e standardizzata. Ma l’oggetto dei loro studi, e cioè la società e l’uomo che la costruisce, possono essere “laboratorizzati”? Non si definiscono sociali proprio perché diverse – qualitativamente difformi – dalle scienze che hanno per oggetto lo studio della natura? In base a quali criteri è possibile valutare i prodotti di questa ricerca? Questi criteri non possono che essere – in ultima analisi – ideologici: fanno riferimento cioè alla visione del mondo che uniforma i valutatori, e costringe ad uniformarsi anche i valutati.
Oggi un giovane ricercatore è costretto – non consigliato: costretto – se vuole avanzare nella propria carriera universitaria, a pubblicare unicamente su determinate riviste: quelle della famigerata “fascia A”. Cioè le riviste dei dipartimenti universitari, affollate di comitati direttivi ed editoriali in cui campeggiano ordinari e associati d’ogni risma purché accomunati dall’essere interni e complici di quel sistema di valutazione che dall’Anvur discende verso i dipartimenti e le facoltà universitarie. Riviste che vivono di finanziamenti pubblici, e che le case editrici fanno a gara per pubblicare, perché per l’appunto ripagate da fondi elargiti da quei dipartimenti che gestiscono le suddette riviste. Un circolo vizioso, come detto: il dipartimento X finanzia la rivista Y di cui è direttore il professor Z che dirige il dipartimento X. Riviste che non hanno pubblico né mercato, che non hanno costitutivamente come obiettivo quello di farsi leggere da qualcuno, semplice interessato o esperto che sia. Che linguaggio, che temi e che modello genereranno questi strumenti di potere universitario? L’autore – cioè il ricercatore – dovrà adeguarsi ad un linguaggio preordinato, che non deve “divulgare” nulla, quanto attenersi a format prestabiliti che soli consentiranno l’agognata pubblicazione; dovrà selezionare i temi da trattare e il modo in cui sarà possibile trattarli: intellegibili al sistema di peer review e incomprensibili al resto della comunità umana; dovrà piegarsi autonomamente a dei referenti che ne garantiranno il futuro (eventuale, sempre promesso e quasi mai raggiunto) prestigio, a scapito della funzione sociale dei prodotti della ricerca e del ruolo di ricercatore; e, massimamente: evitare qualsiasi generalizzazione o teorizzazione. Il particulare è la vera cifra della ricerca sociale in Italia.
Un soggetto così educato potrà allora mantenersi in equilibrio tra le ragioni della ricerca e quelle della militanza? O non sarà costretto alla completa scissione di sé: inappuntabile accademico in fieri di giorno, barbaro polemista di sera, su quei siti, riviste autoprodotte, blog, social e quant’altro che gli consentono – quantomeno – di esprimersi con più libertà, con l’accortezza – anche qui, ça va sans dire – di non farsi riconoscere troppo dal “mondo di sopra”, quello in cui cerca di entrare con dosi smisurate di pluslavoro intellettuale? E dunque: che uso sociale e progressivo può ricavarsi da ricerche e linguaggi che apriori vengono normate e normalizzate con l’obiettivo di non generare moltiplicazioni virtuose fuori dai circuiti accademici?
La questione è complessa è la sempiterna eccezione – il ricercatore disallineato “che ce la fa” – viene brandita ad esempio dell’onestà del sistema. Il sistema accademico e valutativo è marcio, ma non è trasformabile dal di dentro, e questo i “giovani” ricercatori farebbero bene a comprenderlo il prima possibile, onde evitare approcci sbagliati e conseguenti frustrazioni esistenziali. Come riferito nell’esempio dell’Italia che fu (e del comunismo che fu), o abbiamo la forza di ricostruire i nostri percorsi di ricerca, le nostre istituzioni, comunicando su di un piano di parità con la cultura “ufficiale” del paese, quella prestigiosa che ancora permane nonostante tutto, oppure saremo costretti ad adeguarci lamentandoci, o rifuggendo nell’ideologia dozzinale, che non interpreta più il mondo ma si limita a glossare referenti politico-intellettuali sepolti dal travaglio della contemporaneità. Ma è una reazione che dovrà prodursi altrove: una vera nuova cultura potrà darsi solo sulla scorta di vere nuove lotte di classe, e di vere nuove istituzioni politiche in grado di rielaborare il nesso incandescente tra ricerca scientifica e militanza politica.