di Marc Tibaldi
Mikkel Bolt Rasmussen è un teorico politico che ha scritto vari saggi, tra cui Hegel after Occupy e After the Great Refusal, ma è anche uno storico dell’arte, che ha analizzato le avanguardie estetico-politiche del ‘900 e dei nostri giorni, e un attivista politico che fa riferimento alla tradizione rivoluzionaria della sinistra comunista, dei situazionisti e di diversi filosofi marxisti o postmarxisti. In La controrivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia (Agenzia X, 150 pp., € 14,00) è proprio da questi punti di vista che analizza l’elezione e la presidenza di Trump, che definisce una controrivoluzione preventiva il cui scopo è stato impedire la formazione di un movimento di protesta anticapitalista negli Stati Uniti. Occupy and Black Lives Matter, ma anche, più ambiguamente, #MeToo, nonché Shooting Generation e We Believe Survivors, hanno rappresentato una potenziale sfida per la classe dirigente americana. Trump è una protesta contro le proteste. Un tentativo contraddittorio di nazionalizzare e razzializzare una crisi iniziata 40 anni fa, durante la quale l’economia americana ha continuato a ridursi. Trump – sostiene Rasmussen – è una soluzione di crisi che con una nuova politica dell’immagine sostituisce una nascente coscienza di classe al disprezzo e al razzismo. La differenza tra Trump e Reagan è che Trump non è un attore che diventa politico. C’è una vera e propria continuità tra la sua rappresentazione massmediatica e quella politica.
L’analisi di Rasmussen si appoggia al pensiero di Benjamin e a quello Debord, ma non si accontenta di trovare delle legittimazioni, vivifica le teorie dei due pensatori analizzando il capitalismo contemporaneo con la stessa attenzione con cui Benjamin analizzò la riproducibilità tecnica e Debord la società dello spettacolo. L’originalità di questo libro non è data solo dall’analisi della “politica dell’immagine” e del “tardocapitalismo fascista” di Trump (e di politici a lui simili per tattiche e strategie comunicative: Salvini, Orban, Bolsonaro…), ma anche dalla proposta di rimettere in questione la democrazia liberale. Rasmussen scrive che “la democrazia nazionale sta lentamente trasformandosi in fascismo, la crisi capitalistica necessita di questo cambiamento. Sotto la pressione di una crisi sistemica come quella che viviamo oggi, la forma politica del capitalismo può dunque facilmente scivolare dalla democrazia al fascismo, poiché la cosa più importante diviene salvaguardare la proprietà privata, rinforzare gli interessi del grande capitale” e continua “in questo modo la democrazia liberale e il fascismo non sono l’una l’opposto dell’altro: i loro tratti comuni sono più importanti dei loro punti di divergenza”, è quindi importante “stabilire la possibilità di una doppia critica, sia del fascismo sia della democrazia nazionale, a favore di una diversa organizzazione post-capitalista del mondo.
Se è ancora difficile prevedere la forma che prenderà questa alternativa, dovrà comunque passare per l’abolizione della democrazia nazionale e della sua intrinseca possibilità fascista”. Marcello Tarì – che ha tradotto questo libro – nella interessante prefazione ci ricorda che “d’altra parte Giorgio Agamben aveva notato già alcuni anni fa che le leggi d’eccezione promulgate dalle democrazie a noi contemporanee siano anche più liberticide di quelle del fascismo storico”, e giustamente aggiunge: “non si capisce come ancora oggi sia possibile credere che questa democrazia in cui viviamo da settanta anni possa salvare la Terra dalla catastrofe in corso”.
In alcuni capitoli sembra che Rasmussen riprenda e trasformi l’analisi del “capitalismo come religione” di Benjamin, sostituendo il capitalismo con democrazia. La democrazia (“la migliore idea del mondo”, come è stata definita in un referendum televisivo) come pura religione cultuale; durata permanente del culto; culto che genera colpa. Insomma la democrazia come mito, come superstizione inestirpabile che abolisce ogni possibilità non solo di realizzare ma anche di immaginare forme di organizzazione sociale che permettano maggiori e più concrete libertà e uguaglianze. Questo obiettivo ovviamente non si può raggiungere con un semplice atto di volontà ma intessendo le relazioni di movimenti diversi. La critica strutturale al razzismo avanzata da Black Lives Matter deve incontrarsi con quella al capitalismo americano e al modo di produzione capitalistico in generale. Così come la rivolta dei Gilets Jaunes deve incrociarsi con quella dei movimenti sul clima.
Marcello Tarì sottolinea – a proposito del Gilets Jaunes – che “la regola del politico vuole che se non si porta l’attacco in profondità, con ogni probabilità potrebbe essere il fascismo a usare la forza accumulata da quel movimento, che, rammentiamo, non è ‘puro’, tanto ideologicamente quanto a composizione sociale (ed è con questo genere di movimenti che ci troveremo sempre più ad avere a che fare nell’immediato futuro). Se, come scrive Rasmussen, il fascismo non è l’opposto della democrazia ma nasce, cresce e trionfa nel suo stesso seno quando una crisi esige di restaurare l’ordine e prevenire l’emergere di vere alternative, è necessaria un “rivoluzione” che “accadrà quando la critica della democrazia – il processo di destituzione – sarà combinata con quella del capitalismo”. Se è vero che c’è bisogno di proposte che non si limitino a una semplice e democratica risposta antifascista all’ondata nera neurocapitalista (direbbe Bifo), questo libro ce le mostra, in maniera intelligente, disincantata, radicale.