di Marta Collot
È difficile immaginare un diritto più universale di quello alle cure. Data la scarsità di memoria storica che permane in questo paese, è sempre bene ricordarsi che tale diritto, garantito dalla Costituzione (art.32), è frutto di una storica avanzata del progresso – ennesima parola svuotata di senso ormai, di cui però dobbiamo riappropriarci – che in Italia si è concretizzato con le lotte operaie e studentesche degli anni Settanta. Parlando con chi si occupa di sanità, ritorna spesso un modo di dire alquanto sconfortante, secondo il quale i governi hanno iniziato a smantellare il Servizio Sanitario Nazionale (1978) il giorno dopo averlo istituito. In effetti la legge 833/78 è informata sui principi di “universalità”, “uguaglianza” ed “equità”, ma è evidente che la sua ragione sociale sia andata perduta.
Come altri segmenti dello stato sociale, anche la sanità pubblica è entrata nel tritacarne dell’austerità, attraverso il costante definanziamento pubblico, ed è stata lentamente sostituita dalla sanità privata, alla quale stato e regioni elargiscono miliardi di euro per sostenere le spese, in nome dell’infausto principio di ”sussidiarietà”. La stessa funzione centralizzata del Ministero della Salute è venuta a mancare attraverso la riforma del titolo V della Costituzione, che ha innescato il processo di regionalizzazione che l’autonomia differenziata sta portando alle sue estreme conseguenze.
In questo modo il diritto universale alle cure è divenuto una merce qualunque, anzi, una merce di lusso, perché la difficoltà ad accedere alle cure sanitarie ha portato ormai milioni di persone a rinunciarvi, a causa delle interminabili liste d’attesa, del costo dei farmaci, dei ticket, della riabilitazione e dell’assistenza sociosanitaria. Secondo l’ultimo rapporto Rbm-Censis, quasi venti milioni di persone (19,6) sono costrette a pagare di tasca propria le prestazioni sanitarie essenziali. Chi non può, non si cura, chi può si rivolge alle strutture private. Considerata poi la tendenza generale alla precarizzazione del lavoro, che rende problematico anche un solo giorno di malattia, vediamo che prendersi cura del proprio stato di salute è un lusso che sempre meno persone possono permettersi.
L’aziendalizzazione delle strutture sanitarie, l’ingresso dei privati nella sanità pubblica sta comportando il saccheggio della ricchezza sociale drenata dal basso verso l’alto, il tutto sulle spalle dei cittadini che pagano due volte, e del personale sanitario che ha carichi di lavoro sempre maggiori, anche per le carenze degli organici, alla luce del quale risulta ancora più squallido l’odio di classe espresso dalla Lega quando parla a sproposito di estendere gli orari di apertura delle strutture ospedaliere in Emilia-Romagna.
Nel contesto nazionale fin qui delineato, spicca in positivo la sanità emiliano-romagnola, quasi come un’oasi nel deserto. Resta da vedere se, al di là dei proclami, il retrobottega sia ordinato e presentabile come la scintillante vetrina che l’amministrazione regionale tiene a mostrarci.Malgrado Bonaccini continui a tentare di distinguere il proprio progetto come imperniato sul pubblico, la tendenza alla privatizzazione è palese e incentivata da molto tempo proprio da chi come lui governa e ha governato la nostra regione.
Quella che mediaticamente viene classificata come una regione “ricca” (senza che si tenga conto delle sacche di povertà reale che include) dopo aver costruito in decenni un modello di servizi interamente pubblico, in nome della razionalizzazione e della sussidiarietà sta lasciando sempre più spazio ai privati, che, per loro natura, guardano al profitto. Lo si vede ad esempio nelle esternalizzazioni dei servizi di mensa e di pulizia, che creano non pochi rischi legati al rispetto degli standard igienici (la pulizia di un corridoio non è assimilabile a quella di una sala operatoria).
Il processo che sta portando allo smantellamento della sanità pubblica in Emilia-Romagna, ha avuto sinora diverse direttrici. La prima riguarda la cosiddetta “medicina di gruppo”, nata negli anni Novanta inizialmente come una collaborazione tra medici per tenere aperti gli ambulatori il più a lungo possibile, garantendo un servizio continuativo. Nei fatti è diventata uno strumento amministrativo. I medici assumono il ruolo di dirigenti, con tutte le funzioni attinenti a questo inquadramento, compresa la gestione del budget. Nella medicina di gruppo l’obiettivo è ridurre progressivamente le prescrizioni dei farmaci e della diagnostica di laboratorio e strumentale, per ottenere così maggiori entrate. Ne consegue di fatto il taglio delle prestazioni sanitarie.
Oggi i medici dedicano una gran parte del loro tempo a compilare pratiche perdendo competenze professionali, e la pratica medica, intesa come senso di responsabilità della diagnosi, viene meno. La medicina non è sempre e solo eroica ma è soprattutto quella che s’interessa delle persone per tutta la vita con passaggi graduali che producono progressi duraturi. Questo per noi è vero progresso.
Altro vettore della privatizzazione è stato il progressivo smantellamento dei poliambulatori, a struttura pubblica, a favore delle cosiddette “case della salute”. Si tratta di istituti che dipendono del dipartimento delle cure primarie dell’AUSL, a partecipazione pubblica e privata, presentate come più vicine al bisogno dei territori. Possono avere diverse dimensioni e offerta di servizi. Le piccole corrispondono alla medicina di gruppo, con l’aggiunta di medici specialisti. Le medie e grandi accolgono anche delle funzioni ospedaliere come la dialisi, i prelievi del sangue, la radiografia.
Nelle case della salute i medici sono formalmente liberi professionisti, ma non operano come soggetti autonomi, piuttosto come una partita IVA alle dipendenze dell’AUSL, con una serie di regole che li obbligano a pratiche dirigenziali, come l’assunzione di infermieri e personale di segreteria.
Queste nuove “aziende” sanitarie sono per la maggior parte costruite attraverso la finanza di progetto (project financing), una operazione di finanziamento a lungo termine garantito dai flussi di cassa previsti dalla attività di gestione o esercizio dell’opera stessa. Il coinvolgimento di soggetti privati nella realizzazione, nella gestione e soprattutto nella presa in carico totale o parziale dei costi delle case della salute, è ovviamente finalizzato agli introiti. La finanza di progetto permette ai privati di porre restrizioni sui bilanci delle strutture finanziate, a prescindere dal fabbisogno reale. Inoltre queste “aziende” non figurano indebitate perché, attraverso le cooperative o i consorzi, investono una quota annuale che riguarda spesso e volentieri la manutenzione, senza che nel loro bilancio figuri l’investimento complessivo. Nella realtà negli anni ricavano gli interessi, con una manutenzione a risparmio e di bassa qualità.
È molto facile, davanti a questo stato di cose, rifugiarsi nel “pragmatismo”, termine di recente usato da Maurizio Landini per giustificare la resa di CGIL-CISL-UIL di fronte all’espansione del welfare aziendale e della sanità integrativa, che vanno a sottrarre miliardi alla sanità pubblica, oltre a creare lavoratori di serie A e di serie B. In questo caso “pragmatismo” fa rima con “opportunismo”, quello di chi ha fatto proprio il punto di vista del padrone, di chi dice che bisogna “far quadrare” i conti pubblici mentre si arrotondano esponenzialmente quelli privati con la ricchezza sottratta a milioni di persone.
Nessun appello al “realpoliticismo” tanto caro alle nostre classi dirigenti potrà nascondere che un sistema sanitario pubblico, accessibile a tutti, libero dai vincoli di bilancio dell’Unione Europea che gravano su Stato e regioni, e libero dalle finalità di lucro delle aziende sulla salute delle persone, è parte integrante degli interessi popolari. Lo è tanto quanto il riparo da uno dei più grandi fattori di rischio per la nostra salute: povertà e disagio sociale. Un sistema sanitario degno dei principi costituzionali, mai effettivamente applicati, come già si è detto, è la sola cura a quella malattia sociale che si chiama ricerca del profitto a ogni costo.
Marta Collot è candidata per Potere al Popolo alla presidenza della regione Emilia Romagna