di Giovanni Castagno
Nonostante gli iniziali proclami di Pedro Sanchez e Pablo Iglesias, in Spagna i tentativi di formare un governo hanno incontrato molte difficoltà e a più di un mese di distanza dalle elezioni la situazione continua a essere enormemente ingarbugliata. Come mai?
Partiamo da alcuni dati, tanto per rinfrescarci la memoria e avere maggiormente presente quali sono le forze in campo: in Euskadi i partiti di destra restano quasi a bocca asciutta ed eleggono solo un rappresentante (del PP) e solo dopo un complesso riconteggio delle schede. L’inossidabile Partito Nazionalista Basco è al suo posto, ma a pochi voti dal Partito Socialista c’è Eh-Bildu che in parlamento porta ben cinque rappresentanti (se si somma quello eletto in Navarra ai quattro eletti nelle province basche). In Catalogna, l’indipendentismo anticapitalista della Cup che per la prima volta partecipa a una tornata elettorale dalla quale, per una vocazione municipalista, aveva sempre deciso di tenersi lontana, riesce a eleggere addirittura due deputati. La Sinistra Repubblicana Catalana di Junqueras, anche se con una leggera flessione in termini di voti, consolida la sua posizione e si conferma primo partito, continuando a staccare l’indipendentismo moderato cattolico di Junts per il si. In Galizia le cose non sono andate male per il Blocco Nazionalista Gallego, che elegge un deputato (dopo tre legislature in cui non c’era riuscito) e ritorna a raccogliere più di centomila voti, anche se il risultato molto positivo di Vox getta tinte chiaro scure su quel territorio la cui composizione sociale e politica merita alcuni distinguo rispetto alle altre due nazioni storiche dello Stato spagnolo.
In sintesi, la questione territoriale, al netto delle considerazioni che ognuno può fare sul senso, il portato, le prospettive che rappresenta, ha condizionato la campagna elettorale, come la precedente e determinato il definitivo tramonto del bipolarismo alla spagnola, restituendo a chi lo osserva uno scenario composito, plurale, diverso, non interpretabile se si utilizzano le categorie della scienza politica utilizzate fino a questo momento, destra e sinistra, ma anche quelle di élites e popolo. Sanchez sembra averlo capito anche se fare i conti con le istanze delle organizzazioni indipendentiste non si sta rivelando per nulla semplice in un quadro sociale e politico, ma anche economico, molto diverso da quello che aveva caratterizzato il rapporto tra governo centrale e partiti nazionalisti durante gli ultimi trent’anni.
Sanchez e Iglesias potranno stringere tutti i patti che vorranno, ma entrambi sanno perfettamente che da soli sommano numeri enormemente inferiori a quelli che servono per governare e che il piccolo contributo del Más País di Errejón e Carmena non basterà per governare.
Che passo daranno, entrambi, per affrontare l’evidente e progressivo tramontare del regime politico della transición e quale soluzione elaboreranno per superarlo con un nuovo patto sul quale edificare la Spagna del futuro?
Il punto 9 dell’accordo tra PSOE e UP sembra almeno a un primo sguardo insufficiente.
Lo stanno a dimostrare le mobilitazioni che continuano a riempire le piazze di Barcellona e di tutta la Catalogna.
Lo hanno chiamato Tsunami democratic, e considerata la quantità di appuntamenti che chi ne tiene le redini è riuscito a organizzare, lavorando nell’ombra, gabbando i tentativi della polizia di paralizzarne l’espressione, nome non poteva essere mai più appropriato. Basta iscriversi a un canale Telegram e quotidianamente si ricevono centinaia di comunicazioni. Appuntamenti ai quali partecipa un numero molto variabile di persone, da poche centinaia, a molte migliaia. Piccoli flash mob di quartiere o grandi manifestazioni come quella svoltasi nella piazza Urquinaona il 19 ottobre, il giorno dello sciopero generale contro le sentenze del Tribunale supremo contro i leader indipendentisti, quando i mossos hanno disperso i manifestanti distribuendo botte da orbi ed ammesso di aver usato pallottole di gomma. La Avenida Meridiana è ormai impercorribile, il Comitato di Difesa della Repubblica del quartiere di Sant Andreu la occupa sempre alla stesa ora, da oltre due mesi. Dopo aver paralizzato l’aeroporto di Madrid, quello di Barcellona, nei pressi di Junquera è stata chiusa la frontiera con la Francia e per evitare che il traffico si spostasse più a Ovest la stessa sorte è toccata all’autostrada numero 8, che collega la Francia ai Paesi Baschi. È stata bloccata la centralissima stazione di Sants, dove solo l’intervento dei Mossos ha permesso di ripristinare il servizio. Le accampate nelle principali piazze di Barcellona, come quella antistante l’università, sono state sgomberate solo recentemente dopo settimane di occupazione. Il “clásico”, Barça-Madrid, assediato da migliaia di manifestanti che hanno raccolto l’ennesima proposta di Tsunami Democratic e invaso il Camp Nou di decine di migliaia di cartelli chiedendo una soluzione politica al conflitto (la scritta “Span sit and talk” era ovunque dentro e fuori lo stadio). Anche il tradizionale concerto di Santo Stefano al Palazzo della Musica è stato, lo scorso 26 dicembre, interrotto dai manifestanti che scandivano slogan sui detenuti politici, sulla libertà d’espressione, sull’autodeterminazione, rinvigoriti dalla sentenza della Corte di giustizia europea che ha ammonito la Spagna per non aver lasciato libero Junqueras di occupare regolarmente il proprio posto come europarlamentare.
Non ci voleva proprio avrà pensato Pedro Sanchez. Ora anche le istituzioni europee, complici bisogna dirlo, fino a questo momento, hanno dovuto sollevare dei dubbi sull’azione dello Stato spagnolo nei confronti dei leader indipendentisti.
La sentenza, in realtà, a parte i diretti interessati, è stata accolta abbastanza tiepidamente, la società catalana si è ormai abituata ad agire in totale autonomia. Europa o non Europa, in Catalogna assistiamo ogni giorno a forme di partecipazione sempre più ampie, come se la determinazione della società civile catalana aumentasse invece di vedersi fiaccata, provata dall’impegno e lo sforzo profuso. E nonostante i più di seicento feriti, i duecento fermi, le decine di arresti (due proprio in occasione delle cariche contro i manifestanti fuori dal Camp Nou, il giorno della partita), sono rarissimi i casi, e immediatamente stigmatizzati, di reazione violenta alla repressione. La maggior parte del movimento indipendentista continua a utilizzare la disobbedienza civile come strategia di lotta, convinto come lo era il giorno del Referendum del 1 ottobre che proprio quella strada sarebbe stata la più proficua, l’unica capace di tenere uniti settori diversi, generazioni diverse, sensibilità diverse all’interno di un orizzonte di lotta comune.
Proprio mentre da anni si parla di una crisi della partecipazione politica, un po’ in tutte le democrazie occidentali, di un progressivo allontanamento delle nuove generazioni ripiegate su se stesse, molto più interessate a progetti di affermazione personale che collettiva, in Catalogna ci troviamo di fronte a un fenomeno opposto, nel quale proprio i giovani hanno assunto un ruolo di enorme protagonismo, sia all’interno dei tradizionali contesti dove essi si sono sempre espressi, a scuola, all’università, sia nelle forme diffuse che non rimandano direttamente a una appartenenza politica specifica ma che li vedono impegnati da prospettive diverse e attivi nel dare il loro contributo al percorso intrapreso dalle organizzazioni indipendentiste. I militanti dell’organizzazione indipendentista Arran lo chiamano capitalismofobia, un malessere ormai dilagante dovuto al rapido deteriorarsi delle condizioni economiche dei più giovani.
Senza voler risalire indietro la corrente della storia e menzionare le esperienze che proprio in Catalogna aprirono la strada a forme di profonda contestazione, di radicale contrapposizione tra la società civile, i partiti, le organizzazione sindacali e studentesche e quelle forme di governo che non le tenessero sufficientemente in conto, ci troviamo ormai da alcuni anni di fronte a forme di resistenza molto più radicate e determinate che altrove in Europa e lo scenario, quotidianamente, ci permette di apprezzare iniziative massive che altrove sarebbero impensabili.
Non sono certo la Semana Tragica del 1909, o gli scioperi come quello alla Canadiense del ’19, l’eredità di personaggi come Salvador Seguí, Francesc Masia o Lluís Companys, il boicottaggio alle Olimpiadi di Berlino del ’36, la resistenza al franchismo, a determinare il livello della partecipazione al quale assistiamo, ma probabilmente senza questa profonda e radicata cultura cooperativistica, mutuale, solidale, in buona parte libertaria, che ha attraversato la storia della Catalogna e da un passato molto lontano continua a caratterizzarla, non avremmo assistito alla reazione popolare, alla determinata convinzione di una parte molto ampia della popolazione catalana che con lo Stato spagnolo non ci sia più nulla da fare, che esso non sia riformabile e che abbandonarlo significherebbe sferrare un colpo durissimo non solo alla Spagna ma a quello che le democrazie liberali sono diventate in questa fase storica, smascherandone la dimensione reazionaria e autoritaria.
Oggetto di equivoci, di malintesi, di interpretazioni poco disposte a riconsiderare assunti di partenza dati per buoni una volta per tutte, il variegato e diverso movimento indipendentista catalano costituisce una delle esperienze più radicate di contestazione del rapporto tra stato e società civile in un’ottica progressista che ci sia in questo momento in Europa.
Analizzarne i contenuti e mostrarne limiti e le virtù al di fuori da facili riduzionismi e semplificazioni, verificandone nella concretezza dell’azione politica la capacità di dare risposte a chi vuole trasformare il presente e costruire un futuro di emancipazione dovrebbe essere almeno da parte di chi sente di collocare il proprio orizzonte esistenziale in una prospettiva critica, l’atteggiamento prevalente. Perché quello che avviene in Spagna non venga ridotto a una vicenda di politica interna e si colga invece il rapporto che ha questioni molto urgenti del nostro presente.
Nel frattempo che questa sensibilità, interesse, curiosità, maturi, vale la pena interrogarsi sugli scenari ai quali potremmo assistere da qui ai prossimi mesi. Dovesse lo Stato spagnolo proseguire nel suo ottuso e controproducente atteggiamento repressivo, dovesse continuare a ignorare le istanze che la società catalana continua a proporsi di raggiungere, la strada della disobbedienza sarà ancora quella prevalente? Dovessero proseguire i processi, gli arresti, i pestaggi da parte della polizia, dovessero essere lacrimogeni e pallottole di gomma la moneta con la quale la Spagna si presenta per negoziare una soluzione politica al cospetto della società catalana siamo così sicuri che altre forme di conflitto, altre strade non cominceranno a farsi largo soprattutto tra i più giovani, e che un senso di esasperazione e frustrazione non determinino una svolta verso un confronto i cui binari possano essere diversi? Il conto alla rovescia sembra essere iniziato. Tic tac. Tic tac.