di Cesare Battisti
Non passa giorno in cui qualcuno non mi chieda: “Ma perché non te ne sei stato tranquillo in Brasile, invece di andare allo sbando in Bolivia?” Domanda legittima, quando non si hanno le informazioni necessarie per farsi un’idea delle trasformazioni nel tessuto sociale del Brasile, delle manipolazioni politiche della class dirigente, da almeno tre anni a questa parte. La risposta implicherebbe un’analisi seria del periodo ante e post Bolsonaro. La quale non può trovare spazio, né dovuta competenza, in una lettera, dove appena pretendo spiegare le mie ragioni personali. Ma se situarmi nel contesto politico del Brasile può interessare qualche lettore di Carmilla, mi sia concesso di schizzare in questo senso una lista degli avvenimenti più rilevanti che mi hanno messo sul cammino della Bolivia.
I segnali che anche in Brasile fosse in atto il golpe judicial teleguidato dagli USA, già consumato nell’Honduras di Zelaya e nel Paraguay di Lugo, hanno trovato riscontro incontestabile nell’impeachment dell’ex presidente Dilma Rousseff.
Ex guerrigliera della VPR-ALN, economista e integerrima militante della sinistra storica, Dilma Rousseff sembra avere tutte le carte in regola per prendere il posto del decaduto Ze Dirceu Valdéz, che sarebbe stato il naturale successore di Lula. Alle presidenziali del 2009, con Ze Dirceu fuori gioco, nessuno sa chi sarà il candidato del PT. La destra non ha dubbi, ripesca il solito José Serra, Questa volta i falchi filo USA si sentono già insediati nel Palazzo. Il PT rivela il nome del suo candidato all’ultimo momento.
Ai primi sondaggi Dilma Rousseff, capo allora della Casa Civil e quasi sconosciuta al grande pubblico, riceve meno del 5% delle intenzioni di voto. La destra esulta, José Serra vincerà di sicuro. Gli USA appoggiano. Solo un grande trascinatore di masse come Lula poteva, in appena due mesi di campagna, ribaltare la tendenza, portando la sua candidata al 64% delle intenzioni di voto. La destra accusa il governo di manipolare i sondaggi. Nell’ottobre del 2009, Dilma Rousseff è eletta presidente.
Al confronto del suo padrino Lula, innegabile guida popolare e abile negoziatore politico, Dilma Rousseff è una tecnica. Abituata a risolvere le questioni dell’amministrazione pubblica al riparo del suo ufficio. Durante il suo primo mandato, ella rimane oscurata dalla figura imponente di Lula, il quale non sempre sarà al suo fianco per correggerne gli errori. L’economia però è ancora sotto la spinta ereditata, il PT ancora in sella, nonostante la sbandata. Gli attacchi della destra, ma anche un certo malcontento dei movimenti sociali, non riusciranno a disarcionarla. Gli USA intanto incalzano. La destra si riorganizza intorno al nuovo campione, il mediatico governatore dello Stato di Minas de Gerais, Decio Neves.
Sismo nel 2013, la crisi globale, ma anche qualche inabilità del governo, sta trascinando l’economia ai livelli preesistenti all’epoca del PT. Il malcontento popolare è visibile, soprattutto in seno alla classe media, sorta appunto sotto i governi Lula. Come ci hanno abituato i periodi di crisi, succede spesso che mentre conservatori e reazionari d’ogni risma si uniscano, le forze progressiste si frantumino.
Gli USA, non più disposti a ripetere gli errori del passato, si adoperano da un lato a minare subdolamente ancor più l’economia del Brasile, dall’altro organizzano e finanziano una rete di provocatori (talvolta adescati dalle università statunitensi per poi essere addestrati dai servizi speciali, come è il caso di qualche noto magistrato). Se a questo panorama aggiungiamo il lassismo del governo Dilma, che per resistere deve appoggiarsi ai partiti più fraudolenti del Paese, abbiamo tutti gli ingredienti per un sonoro ribaltamento politico alle prossime presidenziali. Anche questa volta, il candidato della destra, Decio Neves, è dato per vincente. Quando ormai a sinistra non ci crede più nessuno, accade l’inatteso: Lula scende in campo elettorale, Dilma Rousseff vince le elezioni per un paio di milioni di voti di differenza.
Apriti cielo.
A partire da questo momento, tutti gli indugi sono rotti. La macchina da guerra capitanata da un settore della magistratura, ben oliato dagli USA, si mette in moto. La parola d’ordine è spazzare via il PT dal panorama politico nazionale, destituire Dilma Rousseff, creare le condizioni per installare un governo fedele agli Stati Uniti. Il 31 agosto 2016, il vicepresidente Michel Temer, affondato negli scandali di corruzione fino al collo, ma teleguidato dalle forze golpiste, sarà di fatto il nuovo presidente del Brasile. L’Italia passa all’incasso. Michel Temer promette immediatamente di riconsiderare la permanenza di Cesare Battisti sul territorio nazionale.
Nel momento in cui Michel Temer fa questa dichiarazione, la decisione sulla mia estradizione non gli appartiene. Egli potrebbe tentare di annullare il decreto di Lula, ma la decisione finale spetta ancora al Supremo Tribunale Federale (STF). Sempre che il ministro dell’STF (i membri dell’STF sono equiparati a ministri) relatore del mio processo, Louis Fux, deliberasse di rimettere in discussione la decisione anteriore. In questo caso, assai improbabile, scatterebbe però la prescrizione nel frattempo intervenuta per le leggi brasiliane, ma soprattutto l’impedimento dettato da un articolo della Costituzione, secondo cui non si annulla un decreto presidenziale trascorsi cinque anni dall’emanazione. Pur avendo dato spesso prova di ambiguità e di carrierismo, Louis Fux dimostra fermezza di fronte alla pressione del governo. Bolsonaro è ancora lontano dal potere, gli avvocati sono sereni.
La mia vita riprende il normale corso fino agli inizi del settembre 2017. Quando, da fonti attendibili, mi giunge notizia che il nuovo ministro della giustizia (certo De Morais, già segretario della Sicurezza Pubblica nello Stato di São Paulo, sospettato di avere coperto alcune carneficine delle forze dell’ordine) starebbe muovendo mari e monti per mettermi su un volo per l’Italia. Mi si consiglia di riparare al sicuro in un’ambasciata amica. Attraverso conoscenze in comune, mi reco invece a Montevideo, dove la senatrice Lucia, moglie di Pepe Mujica, starebbe trattando con il governo Tabaré Vargas per farmi avere il rifugio.
Sembrava tutto sistemato quando, verosimilmente in seguito a una fuga di notizie, il ministro degli esteri uruguayano riesce a convincere il presidente a fare marcia indietro. Io mi trovavo già in territorio uruguayano, ma arrestarmi per consegnarmi all’Italia sottobanco, come farà poi la Bolivia, sarebbe stato un oltraggio imperdonabile a chi mi aveva accolto nel Paese.
Il rifugio è stato rifiutato, però le autorità uruguayane non sono state così vigliacche e mi rimettono al sicuro oltre il confine brasiliano. In seguito a questo episodio, grazie a una sollecitazione fatta arrivare a José Serra, nel frattempo divenuto ministro degli esteri del Brasile, Michel Temer acconsente a sospendere ogni decisione sul mio caso.
La tregua fu di corta durata. Sommerso da uno scandalo di corruzione, José Serra si dimette. Il ministro della giustizia, solito De Morais (poi promosso membro del STF) torna all’attacco. Ma incappa ancora nella reticenza di Louis Fux.
La fermezza del STF, di fronte alle pressioni del governo, si riaffermerà in occasione del mio arresto alla frontiera con la Bolivia. Nel giugno 2018 – come già raccontato nella mia lettera Gli amici di Bolsonaro – dopo essere sfuggito, grazie all’intervento della magistratura, a una sporca trappola dell’ambasciata italiana, fu lo stesso Louis Fux a concedermi un Habeas Corpus preventivo, per garantirmi contro un altro possibile colpo di mano.
Le presidenziali di ottobre però sono prossime. La poderosa macchina di propaganda al servizio di Bolsonaro, sulla scia di Trump, da mesi bombarda il Brasile di notizie false. Settori scelti della magistratura e la quasi totalità dei media di grande impatto si ingaggiano in un’operazione su vasta scala per scatenare la furia reazionaria populista. Le aziende che sostengono Bolsonaro si moltiplicano, quelle italiane in prima fila. Gli arresti e omicidi negli ambienti di sinistra sono all’ordine del giorno. Militanti del PT e di altri partiti che lo appoggiano sono aggrediti quotidianamente nelle piazze. Gruppi di estrema destra, fiancheggiati dalla polizia militare, provocano incidenti nei raduni, impediscono i comizi. A Lula viene impedita la candidatura con un’azione giudiziaria promossa dallo stesso Louis Fux. Il candidato di riserva del PT, Adad, sconosciuto a livello nazionale, riesce malgrado tutto a ottenere un eroico 43% al secondo turno. Gli USA e i loro complici latinoamericani esultano, hanno preso anche il Brasile. Tra le prime dichiarazioni di Bolsonaro, presidente eletto, c’è quella famosa frase: “Ho fatto una promessa all’Italia, adesso il regalo sta arrivando”. Non è più il momento di indugiare.
Già all’epoca del mio tentativo in Uruguay, il governo di Evo Morales aveva accettato di accogliermi in Bolivia. Adesso si trattava solo di verificare se quella disponibilità dichiarata fosse ancora valida. Approfittando di un incontro a La Paz con il presidente Evo e altre autorità, un esponente di spicco della politica brasiliana si incaricò di ristabilire il contatto e organizzare una rete d’appoggio in quel Paese. In questa occasione, fu lo stesso Evo che si impegnò a ricevermi, garantendo le misure di sicurezza e la concessione dell’asilo politico.
Cosciente dell’impatto internazionale che avrebbe provocato il mio asilo, presi tutte le precauzioni. Ricordo che aspettai con ansia il ritorno del “politico brasiliano” per essere sicuro circa la disposizione di Evo Morales nei miei confronti. La risposta da La Paz fu ferma e confortante.
Ciononostante furono indette alcune riunioni di verifica e di ordine organizzativo, a cui parteciparono alcuni legali di movimento. Verso la metà di novembre 2018 i preparativi per la partenza erano ultimati. I compagni brasiliani si sarebbero occupati della logistica fino oltre la frontiera con la Bolivia. Di qui, sarei stato sotto la responsabilità del MAS, il partito di Evo Morales. Un’autorità del governo boliviano si sarebbe in seguito responsabilizzata per il mio soggiorno provvisorio a Santa Cruz de la Sierra.
Le cose andarono esattamente come previsto. Dopo tre giorni di viaggio, passando da un gruppo all’altro, approdai a Santa Cruz. Ci fu un contrattempo quanto al luogo dove sarei rimasto ospite. Poi si decise che sarei restato qualche giorno in una pensione “amica”, in attesa di trovare una sistemazione ufficiale. Così fu. Non ricordo quanti giorni passai in quella posada, avevo con me un libro da correggere, tre persone si alternarono per accudire alle necessità di base. Come stabilito, fui in seguito trasferito in un edificio appartenente al Ministero degli interni, così mi fu detto. Si trattava di una casa anonima di un quartiere borghese che, però, ospitava un centro di monitoraggio segreto. Vale a dire, un laboratorio di informatica destinato a spiare ogni mossa dell’opposizione al governo.
Qui mi era stata adibita una stanzetta con cucinino. Un tale, che mi disse rispondere direttamente al cancelliere, dispose la logistica e mi condusse personalmente a tutti gli incontri con le autorità competenti per avviare la procedura di rifugio. Il clima era di rispetto e solidarietà. Alcuni di loro venivano da antiche esperienze di guerriglia, sia in Bolivia come in Cile e in Perù, riciclati nel governo boliviano di Evo.
Intanto, in Brasile, il ministro del STF Louis Fux, ormai passato nelle falangi di Bolsonaro, aveva revocato la mia residenza e concesso l’estradizione. Senza sottomettere la decisione al plenario della Corte o a una sezione, come avrebbe invece dovuto fare, evitando in questo modo l’applicazione della prescrizione e anche dell’articolo della Costituzione che impediva la revoca del decreto Lula,
Certo che tutti questi movimenti non fossero passati inosservati agli spioni delle ambasciate brasiliana e italiana, non fui sorpreso di scoprire un’accresciuta sorveglianza al mio intorno; vedi pedinamenti, appostamenti ogni volta che uscivo dal centro di monitoraggio. Ne parlai al responsabile, il quale disse che non c’era da preoccuparsi, io mi trovavo sotto la protezione del governo. Da parte mia, male che vada, mi dicevo, mi arresteranno e ci sarà un normale processo di estradizione, che sarebbe stata negata per intervenuta prescrizione, secondo le leggi della Bolivia, e anche perché non è prevista nel trattato stipulato con l’Italia in caso di reati politici.
È con queste certezze che quel pomeriggio del 12 gennaio 2019 mi lasciai ammanettare dall’Interpol boliviana, contando che la mia richiesta di asilo fosse in corso. Questo mi metteva in salvo da misure restrittive. Purtroppo le cose non sarebbero andate così. Oggi sappiamo come Evo Morales, tradendo la fiducia dei partners politici latinoamericani, negoziò con l’Italia il mio sequestro, grossolanamente coperto da un’espulsione legalmente impossibile.
Nei locali dell’Interpol fui trattato bene. Gli stessi agenti non risparmiavano le critiche ai “politici venduti” del loro Paese. “Ti hanno scambiato con una fornitura di spaghetti” ebbe a dire una graziosa poliziotta. Intanto, in attesa dell’intervento del ministro che arrivava da La Paz, Italia e Brasile già cominciavano a disputarsi il bottino!
Ancora oggi, non so cosa disse il ministro traditore alla stampa. So che nei giorni successivi il governo boliviano fu investito da critiche e proteste, provenienti da settori sociali e dallo stesso partito governativo. Dopo la conferenza stampa del ministro, venne da me un funzionario della dogana a notificarmi un ordine di espulsione:
“Lei è entrato illegalmente nel Paese (a un richiedente asilo non sono mai contestati reati concernenti la sua entrata nel Paese richiesto). La sua domanda d’asilo è stata respinta. Poiché non le è stato ancora notificato il rigetto, lei ha diritto a tre giorni di tempo per fare ricorso. La risposta le sarà data al massimo cinque giorni dopo. Se fosse negativa, lei ha undici giorni per uscire dal Paese attraverso la stessa frontiera da cui è entrato.”
Mi venne spontaneo chiedere se si riferisse al Brasile. La risposta fu affermativa e categorica. In ogni caso, questo è pressappoco ciò che figurava nel documento da me firmato davanti all’autorità di Migración. Mi cadeva il cuore. Ma, avendo una ventina di giorni a disposizione, in quel momento speravo ancora di poter ribaltare la situazione, o, al limite, consegnarmi alla magistratura per subire un regolare processo di estradizione.
Non appena uscito il funzionario della dogana, la sequenza degli avvenimenti si fece frenetica. Un gruppo di poliziotti in assetto bellicoso mi prelevò, asserendo che saremmo andati a firmare altri documenti negli uffici di Migración. Non ci credetti un istante, ma non ebbi il tempo di obiettare. Fui portato di peso in un mezzo blindato e tradotto a tutta velocità all’aeroporto internazionale di Santa Cruz de la Sierra. Accedemmo a una sala la cui vetrata dava direttamente sulla pista. Vidi subito il turboelica della Policia Federal do Brasil che, a un cento metri sulla pista, si preparava al decollo. All’interno della sala un gruppo di agenti brasiliani, guidati da un delegato (commissario) col cartellino appeso al collo, sbrigava con gli ufficiali dell’aeronautica boliviana le pratiche d’imbarco.
Quando fu tutto pronto, a un cenno del delegato gli agenti brasiliani, dopo essersi assicurati che non avrei reagito, mi fecero cerchio intorno e ci dirigemmo all’uscita. Pioveva, mi spinsero correndo verso l’aereo, dai motori accesi. Alcuni agenti mi precedettero a bordo, mentre altri aspettavano con me a mezza scaletta.
In quell’istante venne correndo nella nostra direzione un ufficiale dell’aeronautica. Questi si appartò con il delegato di polizia brasiliano. Quando riapparve, ordinò a tutti di tornare nella sala. Si erano fatte le tre del pomeriggio. Iniziò una discussione tra boliviani e brasiliani, anche a colpi di telefonate che ognuna delle parti faceva, interpellando a distanza i rispettivi superiori. In quel momento sperai, chissà, in un contrordine da La Paz, la mia salvezza. La discussione si protrasse per quasi un’ora, Quando il delegato uscì con i suoi, salì sull’aereo, decollarono, credetti veramente che Evo Morales avesse mantenuto la sua promessa. Mi rilassai, gli energumeni di scorta mi guardarono sospettosi.
Trascorsi così un’altra ora, cercando di captare il minimo segnale che mi aiutasse a capire cosa stava succedendo. Alle 16h50, una decina di persone con i colori della bandiera italiana cuciti al collo, entrarono nella sala. Consegnarono una busta a un colonnello dell’aeronautica, mi spinsero in un minibus. In fondo a una pista ci attendeva il jet di Stato italiano. Fu tanto e improvviso il peso del tradimento del governo boliviano che non mi restò più un filo d’energia per dire una parola.
La Storia corre sempre avanti ai governi, ai faccendieri e al popolo ingannato. Oggi Evo Morales è esiliato in Messico, peccato che non sia stata una rivoluzione popolare a rovesciarlo, ma il solito colpo di Stato voluto dal nord del pianeta. Lula è tornato libero a lottare. Mezza Italia si trascina dietro all’ “uomo forte”, l’altra metà si muove in banchi come pesci nel mare. Io sono ancora in isolamento a Oristano. La Cassazione si è appena resa complice di un sequestro in Bolivia. Fate largo, non c’è niente da vedere.