di Franco Pezzini
Lorenza Ghinelli, Tracce dal silenzio, pp. 334, € 14, Marsilio, Venezia 2019
La piccola Nina ha perso l’udito per un incidente: come può dunque, a impianto cocleare spento, sentire nottetempo una musica? Peraltro una musica che lei, dieci anni, ben difficilmente potrebbe conoscere: “Quando noi vediamo una ragazza passeggiar, cosa facciam? Noi la seguiam…”. E quella musica come si lega a orribili delitti consumati nella zona ai danni di giovanissimi?
L’ultimo romanzo di Lorenza Ghinelli – autrice eclettica, che ha battuto più registri di scrittura – è un esempio paradigmatico, a confutazione esemplare di equivoci ormai rancidi, di come si possano scrivere testi di genere autenticamente letterari, per qualità narrativa, profondità e spessore. E anche in questo caso l’intensità e l’equilibrio sono quelli ai quali ha abituato i lettori, una sua cifra riconosciuta, per cui sul punto non mi soffermerò. Passerei invece ai contenuti di questo ritorno all’horror – o anche propriamente al (neo)gotico, come linguaggio del non-detto, della trasfigurazione e del mostruoso – idealmente sull’onda del primo, leggendario Il divoratore (Newton Compton 2011) che l’aveva fatta conoscere.
Sovente nei romanzi di Ghinelli i personaggi principali sono ragazzi. L’autrice è da sempre un’appassionata, simpatetica osservatrice del mondo dei giovanissimi e sa ricostruirne in modo estremamente felice dinamiche e impennate, sofferenze e insofferenze (basti ricordare lo straordinario La colpa, Newton Compton 2012, che l’aveva vista finalista allo Strega): con la marcia in più di una capacità introspettiva rara, legata a una personale sensibilità. Non stupisce che qui Nina e i suoi complici – il fratello sedicenne Alfredo, le compagne di lui Nur e Rasha venute da una guerra lontana, altri ragazzi – rappresentino il primo piano della vicenda e si scontrino in prima linea col Male. Ma due aspetti vanno rimarcati. Anzitutto che le dinamiche non devono nulla al politicamente corretto: tutto – l’handicap della piccola protagonista, lo status di migranti delle due ragazzine – è depurato da qualunque concessione a retorica del politicamente corretto e commozione facile per guardare al nocciolo della realtà evocata. E poi che il Male emerso non ha nulla di manicheo, anzi paradossalmente si compenetra (per evitare spoiler non è il caso di dire di più) con confusi conati di giustizia: anche se, di nuovo, il controllo assoluto sul piano della narrazione e una pietas genuina, profondamente empatica, impediscono paradossi interpretativi pelosi.
Ma se questa è la prima linea, ce n’è una seconda, una trincea dove troviamo gli adulti. Professori, educatori, terapeuti, ma soprattutto i genitori di Nina e Alfredo, Sara e Marco. Una coppia segnata in modo devastante dall’incidente che ha colpito la piccola – sensi di colpa di Marco e mancato perdono di Sara per la sua responsabilità nell’evento –, il cui slabbrarsi sembra però frutto di una crisi in sordina precedente, e con il cumulo da mille altre cause quotidiane che allontanano, portano alla deriva. In realtà, a ben vedere, problemi di ascolto si allargano a cerchio d’onda tutt’intorno a Nina, idealmente proprio a partire da quelli tra Sara e Marco, il cui amore sordo – nel senso di non riuscir più a percepire le ragioni reciproche, a sintonizzarsi nonostante la permanenza di un legame forte – vede un logorio di cattive comunicazioni. Ma come la sordità effettiva di Nina trova specchio in quella relazionale dei genitori, così la sua innaturale capacità di udire si rifrange in un altro ascolto di voci impossibili, da parte dell’anziana vicina Rebecca…
In una prova precedente dell’autrice, il bellissimo Con i tuoi occhi (Newton Compton, 2013) la co-protagonista Carla custodisce come segreto la propria acromatopsia – non riconosce i colori – che però non ne indebolisce la vivida qualità di visione della realtà fisica e d’interpretazione del mondo: e un po’ tutto il romanzo è la storia di un vedere con gli occhi degli altri, un cercare di comprendere la loro visione più o meno particolare – fino a farsi in fondo metafora della scrittura, dove autrice e personaggi si prestano rispettivamente lo sguardo. Dal tema del vedere si passa in Tracce dal silenzio a quello dell’udire: e in calce a questo nuovo romanzo Ghinelli tributa anzi “un ringraziamento speciale al mio orecchio destro, sordo”. Cioè non una mera presa d’atto della grinta necessaria nell’affrontare dimensioni limitanti (che, in modo diverso, tutti abbiamo, fisiche o interiori), ma una messa a frutto intelligente e sensibile delle medesime, e anzi un volgerle in punti di forza: in questo caso un sentire “altro”, sintonizzato su frequenze essenziali della vita, che per una narratrice si svela prezioso. E permette di dare concretezza alla speranza e tempo verbale affidabile a una categoria-futuro: i romanzi di Ghinelli, che parlano di passati terribili e catabasi infere del presente, ci dicono che un futuro è possibile. Nulla è scontato, occorre lottare, ma è possibile. Potrà recare nuove ombre? Certo, è inutile nascondercelo. Ma ci strappa avanti dal loop dell’oggi, e non è un caso che nei suoi testi a sbloccare la situazione siano spesso il popolo del futuro, i ragazzi.
In effetti, al di là della finzione narrativa, ciò che sempre si respira nella pagine di Lorenza Ghinelli è l’autenticità (grazie a diretta esperienza e studio serrato) delle situazioni psicologiche e sociali esplorate: sia che il passo sia quello della commedia, sia che tratti invece drammi umani, magari concatenati in filiere come purtroppo – lo sappiamo – la vita talora ammannisce. Un’autenticità retta da una qualità di scrittura che permette alle sue trame intense di passare illese oltre le Rupi Cozzanti di tanta narrativa italica di successo, le tentazioni da un lato del melodramma con le sue cartapeste e dall’altro dell’educata narrativa da salotto con trame esili e paturnie addomesticate: nulla di più lontano da lei. Certo, le situazioni che spesso offre (e anche in questo caso) sono estreme, ma proprio quelle, se ci pensiamo, vedono più realistica e ineludibile una reazione dei protagonisti; e proprio in questo scoperchiare meccanismi autentici le sue storie svelano in qualche modo un’esemplarità. È quella dimensione di mito – nel senso originario e alto di discorso importante (su di noi, sul nostro essere tra gli altri, sulle sfide della vita) – che ha la letteratura vera: storie esemplari, mai didattiche ma veridiche, che ricapitolano idealmente tutte le altre attorno a noi il cui teatro è più sfumato o elusivo. E la stessa scelta di genere cui l’autrice in Tracce dal silenzio ritorna, il linguaggio neogotico, ci indirizza a questa chiave: certi echi dal profondo li conoscono i ragazzi con il loro linguaggio ancora tanto tributario del mito, e gli anziani come Rebecca con il peso montante di voci sepolte e di ombre. Ma in fondo anche noi stessi possiamo riconoscerli, quale forma delle ferite e contraddizioni che abbiamo dentro, che ci fanno male e non basta un cambio d’alloggio per superarle: almeno se siamo capaci di prendere sul serio le piume di corvo che ci pare di riconoscere di sguincio in fondo allo sguardo. E di non nasconderle sotto il tappeto.