di Gioacchino Toni
Ad un decennio di distanza dalla sua prima uscita nel 2009, torna in libreria, in un’edizione rivista e soprattutto aggiornata, il libro di Christian Elia Oltre i muri. Storie di comunità divise (Milieu, 2019). La pubblicazione esce nel pieno della retorica politico-mediatica – più o meno miope, più o meno di comodo – che celebra l’anniversario della caduta del muro di Berlino, presentando materiale e testimonianze che l’autore ha raccolto in anni di reportage in giro per il mondo, soprattutto nell’Europa dell’Est ed in Medio Oriente, al fine di raccontare “storie di confine”.
L’autore presenta tanto racconti riferiti ai muri più conosciuti – Cipro, Belfast, Israele, Palestina, Sahara Occidentale, Ceuta, Melilla, Iraq –, quanto alle barriere più recenti proprie delle aree più calde delle rotte migratorie tra Serbia-Ungheria, Bulgaria-Turchia e Grecia-Turchia. Nell’introdurre la nuova edizione, Elia spiega come il libro sia nato dall’urgenza di raccontare e dalla necessità di spiegare la situazione vissuta da chi si trova a fare i conti quotidianamente con quelle barriere artificiali poste tra esseri umani.
Se di per sé già lo scrivere dei muri risulta importante, sostiene l’autore, ancora di più lo è raccontare del “filo rosso” che li collega tutti. «Un filo rosso che unisce vicende differenti, che intreccia periodi storici lontani tra loro, che si arrotola su problematiche molto disomogenee. In ogni occasione, però, finivo sempre per incappare in fattori costanti, che si ripetevano, come in una roulette truccata. Sequenze. Fatte non di numeri, ma di storie. Vite di persone che, all’improvviso, hanno trovato un muro sul loro cammino». E ciò, continua Elia, accade quando «l’animale sociale diffida a tal punto del suo vicino da ritenere il muro, la barriera, la divisione l’estrema ratio. Non c’è più tempo per dialogare, litigare e dialogare ancora. Non c’è più fiducia. Meglio chiudere fuori l’altro, senza rendersi conto che allo stesso tempo finisci per chiuderti dentro anche tu». Ed a quel punto le motivazioni storiche, religiose, politiche dei diversi casi diventano del tutto relative e le storie finiscono con l’assomigliarsi tutte.
Se, rispetto alla prima edizione del libro, oggi i muri si sono di gran lunga moltiplicati, il filo rosso che legava le storie di allora è però tutto sommato il medesimo che lega anche le attuali e quel filo rosso è fatto di storie di persone comuni, di esseri umani che vivono all’ombra dei muri senza che nessuno abbia mai chiesto loro un parere prima di chiuderli dentro. A dieci anni dalla prima edizione tante cose sono cambiate ed ora il «muro più grande di tutti» sembra essere divenuto il Mediterraneo. «La strage di questi dieci anni», continua Elia, «ne ha fatto per me, il muro più alto di tutti». Nel solo 2016, secondo la ricercatrice Reece Jones, hanno perso la vita a causa di un muro o di una barriera ben settemiladuecento esseri umani. Da quando è caduto il muro di Berlino «sono stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di chilometri. Cambiano i materiali, il livello di militarizzazione, gli itinerari, le motivazioni politiche, ma non sono mai stati così tanti».
Metà delle barriere costruite dopo il Secondo conflitto mondiale, racconta Elia, sono sorte dopo il 2000, con buona pace della retorica che vuole che con la caduta del muro berlinese nel mondo gli esseri umani si siano liberati dello spettro dei muri divisori. E proprio a proposito della caduta di quella barriera divisoria tedesca, Nicola Sessa, nella postfazione al volume, racconta la frustrazione provata del regista Andreas Dresen e dello scrittore Ingo Schulze di Berlino Est, poco meno che trentenni nel 1989, attraverso le loro parole: «I tedeschi dell’est hanno dovuto accettare le regole della Germania Federale, fare presa di coscienza che tutto ciò in cui avevano creduto, l’eguaglianza, la solidarietà e il rispetto reciproco fossero tutte cose da mandare al macero. Non è bello dirlo, ma è come se fossimo stati invasi dall’altra Germania che ci ha imposto il loro sistema senza salvare ciò che di buono noi avevamo». Non è passato molto tempo, chiosa Sessa, prima che «le politiche sociali venissero immolate sull’altare del capitalismo rompendo quel delicato equilibrio su cui muovevano in perfetto sincrono le fabbriche, l’istruzione, la sanità e una certa qualità di vita che, a detta di molti, era superiore a quella di oggi. Certo, si dirà, quando su un piatto della bilancia c’è la libertà, nessun altro valore messo sull’altro piatto avrà lo stesso peso. Ma molti tedeschi, dell’est si chiedono oggi se siano davvero liberi: sognavano di viaggiare, ma le condizioni economiche e la disoccupazione non lo permettono a tutti; sognavano di dire liberamente la loro, ma chi li ascolta?».
Se però esiste un luogo ove la caduta del muro di Berlino svela tutta la sua ipocrisia, afferma Elia, questo è l’Europa orientale. «Proprio quell’Europa che, per anni, ha celebrato l’idea stessa di una libertà negata per anni dai regimi del blocco orientale. Una retorica uguale e contraria a quella dell’Europa, che nel 1989 festeggiava la caduta dei muri che tenevano prigionieri milioni di persone. La grammatica era quella dell’accoglienza, l’alfabeto quello del diritto a essere liberi. Cercare una vita diversa era un’aspirazione umana degna del massimo rispetto. Fuggire da una dittatura era un dovere morale, almeno quanto quello di accogliere. Perché oggi tutto questo non vale per siriani, afgani, iracheni, curdi?».
Negli ultimi anni, parallelamente allo sbiadire della retorica europeista ed alla montante disillusione presto trasformatasi in rabbioso malcontento di qui settori sociali che hanno pagato i costi dell’ennesima giravolta politico-economica, ha finito con l’avere buon gioco una montante ondata di demagogia fascistoide che ha fatto dell’edificazione delle barriere “protettive” il proprio cavallo di battaglia. Dal governatore del Friuli Venezia Giulia che promette la costruzione di una barriera al confine con la Slovenia, all’edificazione promossa da Orban di barriere in filo spinato e lamette anti-immigrati sia lungo i confini con con la Serbia che con quelli con la Croazia, o al muro che il Montenegro intende edificare lungo il confine con l’Albania, passando per il Kosovo, fino alla Macedonia del Nord e alla Bulgaria, che a sua volta si è adoperata per costruire una barriera al confine con la Turchia, che si tiene ben separata dalla Grecia sfruttando il fiume Evros. Ed è a questo nuovo scenario europeo che è dedicata l’ultima parte del volume in cui Elia, attraverso una serie di reportage, racconta cosa è accaduto in questi dieci anni che separano le due edizioni del libro, con storie di persone che «hanno perso la vita i questi luoghi di negazione. Negazione dei diritti, delle promesse del 1989, in buona sostanza, di noi stessi».