di Alberto Sebastiani (da Zona letteraria n.3, 2019)
Il ridicolo, insegna il Trattato dell’argomentazione di Perelman e Olbrechts-Tyteca, è di norma «legato al fatto che una regola è stata trasgredita o combattuta in modo incosciente, per ignoranza sia della regola stessa, sia delle disastrose conseguenze di una tesi o di un comportamento», ma è anche un’arma potente di cui dispone l’oratore, che può evidenziare il ridicolo. Se l’ironia è uno strumento senz’altro utile, con la satira non solo si indebolisce l’avversario, ma si intende modificare l’atteggiamento dell’uditorio, coinvolgendolo in un ragionamento che, proprio evidenziando il ridicolo, ne faccia prendere coscienza, ne mostri l’inaccettabilità e porti ad agire di conseguenza. Non si tratta solo di prendere in giro, ma di far riflettere per cambiare. E c’è un bersaglio: il potere, che sia il potente, un costume, la norma. Attaccare un ordine costituito, dimostrandone il ridicolo, individuando però la trasgressione di una regola che non ha a che fare necessariamente con la legge. Per intenderci: non è detto che quanto sia normale, o magari anche legale, sia giusto. Nella satira c’è quindi anche una tensione etica. In fondo, la satira è un modo di (ri)mettere in ordine le cose. Offre prospettive per leggere i fatti, uno sguardo diverso per far vedere altre verità. Per questo, qualunque forma abbia, la satira dovrebbe essere aggressiva e distruttiva, ma anche costruttiva, propositiva. Non basta dire che il re è brutto, e nemmeno urlare che è nudo. Oggi peraltro il potente dice alla luce del sole di essere nudo: ha distrutto la sua aura, è uno di noi, come noi, coi nostri difetti, in cui possiamo riconoscerci, o in cui ci rifiutiamo di farlo. Anche da qui deriva l’attuale polarizzazione politica rispetto ai leader, e viene in mente Douglas Adams, la Guida galattica per gli autostoppisti: ancora negli anni Settanta, immagina che il Presidente del Governo Galattico Imperiale sia in realtà un prestanome, e che venga scelto il più spregevole figuro possibile per ricoprire quel ruolo, perché la sua unica funzione è attirare su di sé l’attenzione, e lasciare a chi di dovere la gestione silenziosa del potere. Non è poi tanto distante da quanto Pasolini scriveva pochi anni prima negli articoli poi raccolti in Scritti corsari sulle «maschere funebri» o «teste di legno» democristiane di cui il «potere reale», altrove il Potere, ormai non aveva più bisogno.
In Italia, come in tanti altri paesi del mondo, grazie alla rete la satira sta vivendo grande successo. Tra i numerosi esempi possibili, forse uno dei più noti al momento è il sito Lercio.it. Nato nel 2012 come blog personale di Michele Incollu, diventa collettivo col gruppo satirico “Acido Lattico” e oggi fa satira su politica, sesso, società, religione, cattivo giornalismo. Produce “fictional news”, che non sono “fake news”, come spiega nel 2016 la redazione di Lercio sul sito di Parole O_Stili, nato per proporre forme di comunicazione non ostile sul web: «l’intenzione della bufala è proprio quella di essere creduta vera. Per questo viene presentata in modo più simile possibile alle notizie dei quotidiani. Nei nostri articoli invece cerchiamo di abbondare con i particolari iperbolici e inverosimili, facendo la parodia del giornalismo 2.0. Le bufale poi non hanno un bersaglio satirico, anche quando sono pubblicate “contro” qualcuno, spesso sono semplicemente diffamatorie». La differenza è fin dal titolo: una fake news dirà I vaccini pediatrici arricchiscono Big Pharma e provocano l’autismo, un titolo di Lercio: Big Pharma: “Pronto il vaccino contro i vaccini”. La forza e il successo sui social di Lercio è proprio nei titoli. Focalizzando la politica, nei giorni della crisi italiana di fine estate 2019 abbiamo ad esempio, tra gli “ultim’ora”: “È giallo-rosso!” “No, è rosso-giallo!”, Pd e M5S litigano sul colore del nuovo governo; Pensionato preme per sbaglio un banner sulla Piattaforma Rousseau e si ritrova Ministro dell’Economia; Luca Parmitano pubblica dallo spazio la foto dei coglioni di Mattarella; Troppi passi indietro: Matteo Salvini ritorna spermatozoo; Accordo di governo, Pd: “Dopo il vicepremier pronti a rinunciare anche agli elettori”. Sul profilo Facebook titoli come Di Maio presenta una lista di congiuntivi a lui sgraditi ottengono circa 2000 like in un’ora. Il successo è dettato dall’efficacia della brevitas, che come nella migliore tradizione satirica da giornale (cartaceo o online) ha come requisito fondamentale la conoscenza delle notizie reali da parte dell’uditorio. Su di esse, attraverso un titolo, viene costruito un discorso che mostra il ridicolo di una particolare situazione. Nei casi citati: la litigiosità tra Pd e M5S per la costruzione del governo Conte-bis, l’inaffidabilità della piattaforma Rousseau, la pazienza di Mattarella di fronte alle difficoltà per la formazione di un governo, i tentativi di Salvini per recuperare l’alleanza con il M5S, la costante disponibilità del Pd a trattare, le continue richieste di Di Maio. Lo schema è il medesimo dei titoli dei giornali comuni: divisi in due parti, una individua l’oggetto del discorso, l’altra offre l’elemento nuovo, nel nostro caso la seconda suscita il riso commentando l’oggetto, ovvero la notizia di riferimento. A ben vedere è una costruzione analoga a tutta la satira contemporanea che si muove sulla brevitas (comoda anche per la diffusione sui social, twitter in primis), il problema, però, è se il riso susciti nell’uditorio una riflessione. E se tale riflessione provochi un cambiamento.
La questione è tutt’altro che banale se considerata in relazione alla situazione attuale della satira in rete. Cristopher Cepernich ha infatti spiegato nel 2012 su “Comunicazione politica” come essa abbia successo nel web 2.0 (oggi anche nel 3.0) e nei social network, «ricollocando il registro satirico al centro del discorso pubblico sulla politica», usando, per riprendere Bourdieu, l’umorismo a fini di degradazione simbolica. Essa circuita soprattutto in ambienti social, all’interno di relazioni amicali e comunità virtuali, community, per natura omogenee e conformiste, cioè chiuse, in cui se si condivide ad esempio una vignetta satirica è perché si è già convinti di quanto dice. La rete darebbe dunque nuova linfa alla satira, ma – aggiungiamo noi – di fatto la depotenzierebbe. Non farebbe cambiare opinione all’uditorio generale, rafforzerebbe quella di una community. Paradossalmente, quindi, offrirebbe elementi di radicalizzazione, in chi ne condivide il discorso come in chi lo rifiuta. Neanche la satira, quindi, riuscirebbe a scalfire il buco nero della polarizzazione attuale, e anzi ne resterebbe vittima. È una situazione paradossale, e sta travolgendo tanti autori. A tanti vignettisti è infatti impedito di svolgere il proprio lavoro, anche nel liberale Occidente, proprio “grazie” alla rete. Pensiamo a quanto avvenuto a giugno 2019, con la decisione del “New York Times” di non pubblicare più vignette di satira politica nell’edizione internazionale. Motivo: le polemiche per la vignetta del disegnatore portoghese António Moreira Antunes, che raffigurava come un cane guida il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu al guinzaglio di un non vedente Donald Trump con la kippah in testa. Contro questo e altri casi analoghi è subito intervenuto dal suo blog un altro disegnatore, Patrick Chapatte, con The end of political cartoons at The New York Times, denunciando le difficoltà dei giornali a resistere alle bufere social, ma a luglio è stata la volta del canadese Michael De Adder, licenziato dal gruppo editoriale Brunswick News Inc. per – si suppone – una vignetta contro Donald Trump sulle morti di chi tenta di immigrare negli Usa dalla frontiera messicana. Sono solo alcuni dei numerosi esempi, a cui possiamo aggiungere quello significativo di Gianluca Costantini, che la CNN non ha più voluto come collaboratore dall’8 ottobre 2018, dopo che il profilo twitter “Partisangirl”, della commentatrice e youtuber siriana Maram Susli, sostenitrice del governo Assad, aveva ritwittato un disegno satirico del 2016 di Costantini in cui veniva ritratto un terrorista dell’Isis che si toglieva una maschera raffigurante il primo ministro israeliano Netanyahu. Tweet rilanciato da Arthur Schwartz, amico – come ricostruisce Costantini sul suo blog – di Steve Bannon e Milo Yiannopoulis, all’interno di un’operazione che aveva come obiettivo l’accusa di antisemitismo per la CNN, e che ha avuto come vittima il disegnatore italiano, peraltro premiato da Amnesty International nell’aprile 2019 per il suo contribuito a sensibilizzare e a mobilitare l’opinione pubblica in favore della difesa dei diritti umani.
L’esempio sembra confermare quanto detto da Chapatte. La rete radicalizza la polarizzazione, permette una manipolazione della comunicazione a cui è difficile reagire, di cui resta vittima anche la satira. L’impressione è che, colpendo figure della politica, non si provoca una riflessione, piuttosto si radicalizza una contrapposizione. Un’azione di questo tipo denuncia, certo, ma allo stesso tempo conferma e non fa cambiare prospettiva a nessuno. Non (ri)ordina, cioè non scardina le prospettive e non ne offre di nuove. I personaggi politici (e le situazioni da essi provocate) sono feticci per le community come i giocatori per le curve calcistiche: si amano i propri, si attaccano gli avversari. In effetti, se recuperiamo l’affermazione di Pasolini, non sono che simulacri, come il Presidente del Governo Galattico Imperiale di Adams, che ha il solo compito di distrarre l’opinione pubblica. Allora la vera domanda diventa: contro cosa può rivolgersi la satira per essere tale, cioè per modificare gli assetti, essere rivoluzionaria e non consolatoria o addirittura reazionaria? Insomma, chi è il Potere?
Una domanda del genere non è infantile, è invece fondamentale per capire quanto la satira (e non solo) abbia un compito immane ma necessario. Deve riscoprire come far riflettere, come modificare comportamenti e letture dello stato di cose esistente. In alcuni recenti suoi libri (Dopo il futuro e Futurabilità), Franco “Bifo” Berardi, analizzando il problema della fine del futuro e della necessità di tornare a pensarlo e realizzarlo, ha definito il Potere come «il sistema di costrizione che mira a ridurre il reale entro il necessario e dunque eleminare possibilità per imporre virtualità. Utopia è la liberazione di un possibile che attualmente è impossibilitato a esprimersi dalla costituzione necessitante (ma non necessaria) del mondo». “Virtuale” è per Bifo «quel punto che pur non essendo presente nella nostra visione attuale si trova nel prolungamento dell’attuale parabola del presente», il che lo porta a differire dal “possibile”, che oggi è di fatto sottomesso al “potere”. Il possibile futuro è però inscritto nel presente, è un divenire altro che va scoperto, di cui bisogna prendere coscienza. Il cambiamento dipende quindi dal prendere coscienza, e sarebbe utile recuperare il concetto in termini marxiani, legato al concetto di “classe”. Significherebbe affrontare il discorso economico, le sue dinamiche, i suoi elementi costitutivi, perché si riacquisisca consapevolezza dei ruoli rivestiti all’interno del processo produttivo e delle funzioni storiche che essi comportano. Significa ripensare il possibile. Ecco, forse, la grande sfida della satira, per essere tale è abbandonare la politica e affrontare l’economia. Ridare coscienza. La lotta di classe l’hanno vinta i padroni, ed era rimasto solo l’odio di classe, ma devastata la classe è rimasto l’odio, su cui tanti oggi speculano. Questo deve essere tenuto presente, per invertirlo. Solo lavorando sull’economia e i suoi processi si può mostrare l’intercambiabilità di figure politiche anche di schieramenti avversi che però restano ancorati a un modello economico omologo. Solo così, forse, la satira può scalfire le community in rete, e avere presa anche all’esterno: mostrando la comune sottomissione ai modelli culturali e alle conseguenze deleterie del «realismo capitalista» analizzato da Mark Fisher . Lavorare sulla cronaca è lavorare su un inscalfibile presente. Nella follia di un mondo sull’orlo della catastrofe ecologica, in cui le baraccopoli si diffondono persino nelle ricchissime metropoli Usa, in cui i flussi migratori economici e ambientali si intensificano, in cui l’impotenza di organizzazioni politiche sovrannazionali (basti citare il G7) e dei governi è palese, attaccare figure politiche significa solo perpetrare il presente, non cercare il possibile. Il possibile può essere evocato solo se si torna a parlare dei processi di produzione. Anzi, come concludeva Bertolt Brecht il suo intervento del 1935 a Parigi al primo Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura: «Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!», per arrivare «là dove una piccola parte dell’umanità ha ancorato il suo spietato dominio». La questione riguarda tutti: al capitalismo (e alle sue derivazioni attuali e prossime) è sottomesso il possibile con le politiche neoliberiste che impongono il virtuale. Sono quindi il Potere. Il bersaglio della satira, che vuole essere distruttiva e propositiva, con una tensione etica, non può che essere lui. Sarebbe forse meglio allora abbandonare i simulacri della politica, legati alla cronaca, quindi all’inscalfibile presente e al suo virtuale, e andare alla sua sostanza (alla sua struttura?). Così la satira offrirebbe prospettive diverse per leggere i fatti, per far vedere altre verità, per (ri)mettere in ordine le cose. Altroché dire che il re è brutto, o nudo. Ignoriamo il re! Il re non conta niente! È il Presidente del Governo Galattico Imperiale! Non servono detournement ironici del presente rivolti a lui, serve un’aggressione alla struttura che ne sveli la trappola. Tutto ciò che attacca il contingente non può altro che rafforzare lo status quo. La satira in quanto tale deve volere davvero un cambiamento, quindi non può che essere rivoluzionaria e deve riuscire ad affrontare la «distopia capitalista» per riprendere un’altra espressione usata da Fisher. Parlare dell’economia, dei processi produttivi, dei rapporti di proprietà, ridare coscienza per bloccare il futuro virtuale e lottare per quello possibile. E c’è ben poco da ridere.