di Gioacchino Toni
In un’epoca in cui, ancora una volta, i detentori del potere, supportati dai media, giocano la carta della politica dell’emergenza, diffondendo paura ed instaurando uno stato di crisi e guerra globali e permanenti – approfittando di quell’atomizzazione sociale pianificata a tavolino dai sacerdoti del liberismo –, si «sente sempre più spesso ribadire la necessità di ricomporre un senso comune di umanità – per esempio nei discorsi e nelle pratiche umanitarie, o nell’ethos aziendale della globalizzazione responsabile – ma in realtà le fratture interne e i divari socio-economici – sia fra le/gli umane/i che tra le/gli umane/i e i non-umani – sono più profondi che mai. L’attentato inatteso, la crisi finanziaria, il bombardamento aereo o l’epidemia che colpiscono chiunque e dovunque, hanno la precipua funzione di indurre tutte/i a sentirsi immediatemente vulnerabili e in quanto tali bisognose/i di tutele. Si compie quindi la frettolosa creazione di un “noi” generico, un’umanità riunita nella paura e nella vulnerabilità» (Rosi Braidotti e Angela Balzan).
Così scrivono le due studiose/attiviste nell’Introduzione stesa a quattro mani per il volume di Rosi Braidotti, Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze (Meltemi 2019). Secondo Braidotti e Balzan, che definiscono l’economia globale come “postantropocentrica” per il suo raggruppare «tutte le specie sotto l’imperativo del mercato, minacciando con i suoi eccessi la sostenibilità dell’intero nostro pianeta»1, si sarebbe di fronte all’affermazione della “vulnerabilità” come categoria utile a modellare la nuova “panumanità”. «Le teorie femministe, postcoloniali e della razza hanno colto subito la necessità di denunciare la natura ipocrita di tale precipitosa ricomposizione di un legame pan-umano basato sul timore condiviso dell’estinzione. Esse hanno riportato le relazioni di potere alla crisi del cambiamento climatico e ambientale. Assumiamo qui la chiave di lettura delle filosofie dell’immanenza radicale, del materialismo vitalista e della politica femminista della collocazione: prendere il volo verso un’idea astratta di “umanità” risulterebbe del tutto inutile»2. A ciò è preferibile, sostengono Braidotti e Balzan, tentare di «redigere cartografie incarnate e incorporate, relazionali e affettive, dei rapporti di potere che informano l’attuale ordine geo-politico. Classe, razza, genere e orientamento sessuale, età e abilità fisica sono qualcosa di più di semplici “attributi” della “normalità”. Sono le chiavi per accedere a quella cosa che chiamiamo “umanità”»3.
Occorre pertanto, si sostiene nell’Introduzione al volume, riprendere l’abitudine a criticare i limiti della democrazia rappresentativa e, dopo il misero disfacimento del femminismo liberale in stile Hillary Clinton, si avverte la necessità di una ri-radicalizzazione. Decenni di dibattiti postcoloniali, sulla razza, femministi e di genere, hanno saputo mettere in discussione le gerarchie che definivano l’essenza di un “soggetto umano”. Si tratta pertanto di contestare le ricomposizioni di una nuova “umanità” unita sotto al segno della vulnerabilità e della paura. «Non possiamo dimenticare lo stretto legame esistente tra l’economia politica neoliberale, la moltitudine di discorsi e pratiche di esclusione, marginalizzazione ed eliminazione di strati interi della popolazione umana e la devastazione degli agenti non-umani e del pianeta nella sua sostenibilità stessa. La risposta e la reazione a questi fenomeni, passa attraverso la composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise, situate ed applicabili»4. All’avvelenamento dei legami sociali si intende dunque rispondere ricorrendo ad un’etica “affermativa”.
«Se seguiamo ancora i suggerimenti del Foucault di Bisogna difedere la società, il razzismo rimane l’unica via di accesso al potere sovrano di uccidere, punto di partenza per l’articolazione di ogni dispositivo o discorso necropolitico. Grazie al razzismo è stato possibile introdurre una separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire. La prima funzione del razzismo è frammentare, istituire delle censure all’interno di quel continuum biologico che il biopotere investe. Per Foucault, la seconda funzione del razzismo è evidente nel nazismo e nel fascismo: “Se vuoi vivere occorre che tu uccida”. La morte delle razze inferiori è ciò che rende la vita più sana. Le attuali politiche e le retoriche dell’esclusione, dei respingimenti e dei campi di identificazione e espulsione di migranti e richiedenti asilo ci ricordano, purtroppo, che la posta in gioco non è solo militare, ma anche biologica. Il razzismo è quindi legato al funzionamento di una governamentalità che è obbligata a servirsi della razza per esercitare il suo potere sovrano. Per continuare a esercitarsi il vecchio potere sovrano del diritto di morte si serve dell’attivazione di ogni tipo di discorso e dispositivo razzista, senza per questo entrare in contraddizione con il reciproco svilupparsi della razionalità neoliberista e delle tecnologie del biopotere»5.
«Grazie al contributo delle epistemologie femministe e materialiste possiamo oggi serenamente affermare che i tradizionali concetti di natura e cultura non si trovano più impegnati in una dialettica costante, ma si sviluppano reciprocamente. [Un] apporto fondamentale in questa direzione è stato quello di Donna Haraway, la quale abilmente sintetizza nei concetti di tecnoscienza e naturacultura questa rottura epocale. Haraway, nel ricordarci che l’accesso al progresso scientifico non è garantito a tutte/i a livello globale, ci esorta a non accettare con rassegnazione il fatto che solo ad alcuni soggetti sia riservato l’esercizio pieno dei propri diritti, mentre altre/i vengono discriminate/i. La presenza di così elevati livelli di mediazione bio-info-tecnologica, non garantisce, in sé, più autonomia e più libertà. Vi sono ancora ampi ambiti delle nostre vite che potrebbero trarre beneficio dalle nuove tecnologie ma che rimangono bloccati tra frontiere, normative proibitive e mercati dai prezzi spropositati. Per sbloccarli, occorre innescare percorsi collettivi e condivisi di riappropriazione della scienza. Questa consapevolezza accompagna pratiche e teorie femministe attraverso le generazioni»6.
Le riflessioni di Rosi Braidotti sono mosse dall’urgenza «di tornare a pensare il corpo nella sua radicale materialità, nella sua immanenza, nella sua sostenibilità e complicità con i regimi tecnologici», nella consapevolezza che «le modalità di resistenza alle violenze e alle contraddizioni del presente viaggiano di pari passo alla creazione di stili di vita in grado di sostenere i desideri di giustizia sociale e trasformazione»7.
Nella prima parte del volume ci si chiede se sia ancora possibile immaginare oggi pratiche e teorie politiche “affermative” in grado di diffondere alternative sostenibili e nuovi orizzonti sociali, se si possa sfuggire al nichilismo e all’individualismo che conducono al rifiuto dell’altra/o. Inoltre, ci si interroga circa le potenzilaità del corpo umano in un’epoca caratterizzata dall’alleanza tra neoliberismo e nuove tecnologie. Nella seconda parte del volume si tenta invece di individuare le modalità con cui elaborare «una politica affermativa che sia anche una politica dell’affinità e della relazione con l’alterità macchinica e non-umana»8 e di stabilire in che misura sia possibile «pensare e agire un’etica materialista che esalti le soggettività nomadi e libere, dunque le loro differenze, in quanto capaci di sostenere nuovi modelli di partecipazione e azione politica condivisa e situata»9.
Il capitalismo, sostiene Braidotti, «è un sistema tendente all’auto-implosione che non si ferma davanti a nulla pur di realizzare il suo obiettivo: il profitto. Questo sistema intrinsecamente auto-distruttivo nutre, per poi distruggere, le condizioni stesse della sua sopravvivenza: è onnivoro e in ultima analisi ciò che mangia è il futuro in sé. […] Se l’assiomatica del capitalismo distrugge i futuri sostenibili, resistergli vuol dire tentare di costruire collettivamente orizzonti sociali capaci di durata, ovvero di speranza e sostenibilità. Si tratta di una pratica politica di resistenza al presente che mobilita il passato per produrre speranze di cambiamento ed energie di attualizzazione»10.