Abdullah Öcalan, Pace e guerra in Kurdistan, pp. 40; Confederalismo democratico, pp. 40; Liberare la vita – La rivoluzione delle donne, pp. 56; La nazione democratica, pp. 64. Ristampa, riveduta e corretta, a cura delle Edizioni Tabor e di UIKI Onlus. Ogni pamphlet è in vendita al prezzo di 2 euro e si può richiedere presso le Edizioni TABOR – www.edizionitabor.it – tabor@autistici.org oppure presso l’Ufficio Informazioni Kurdistan Italia – info.uikionlus@gmail.com
[Domani 1° novembre si terrà a Roma una manifestazione nazionale in difesa e appoggio della lotta e dell’esperimento politico di confederalismo democratico che le donne e gli uomini del Rojava stanno portando avanti da anni e, in particolare, in questi giorni nel tentativo di contrastare l’azione militare e diplomatica turca e internazionale tesa ad annientare tale importantissima esperienza di auto-organizzazione, pratica militante e di parità di genere.
In tale contesto, però, occorrerebbe evitare il rischio, a livello di informazione di massa, di far passare in secondo piano la figura del leader politico che è stato alla base della revisione di un pensiero e di una pratica politica, quella del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan – Partito dei Lavoratori del Kurdistan) che, nato originariamente sulle basi teoriche del marxismo-leninismo, si è andato progressivamente liberando dai cascami nazionalistici e del centralismo partitico di ispirazione stalinista che lo avevano precedentemente caratterizzato.
Abdullah Öcalan, ormai da più di vent’anni detenuto nella prigione di Imrali, aveva già iniziato fin dagli anni Novanta del secolo scorso un percorso di riflessione teorica che lo aveva portato a prevedere il declino storico del sistema degli Stati-nazione imposto al Medio Oriente dall’eredità coloniale. Nella sua analisi il crollo di tale sistema avrebbe prodotto uno scenario di guerre e di crisi: un caos gravido di potenzialità di liberazione se le forze democratiche e rivoluzionarie fossero state in grado di scendere in campo per costruire un’alternativa. Esattamente quello che sta accadendo oggi in Medio Oriente. La ricchezza del pensiero di Öcalan, oltre che nella lucidità delle previsioni, sta proprio nel fatto che il suo pensiero non è mai stato disgiunto dagli sforzi politici e militari per metterlo in pratica, tanto che il movimento da lui fondato ha costituito e costituisce il retroterra (teorico, organizzativo, militare) su cui ha potuto edificarsi il percorso rivoluzionario oggi in atto in Rojava.
I quattro opuscoli appena ripubblicati, in occasione della Conferenza internazionale tenutasi a Roma il 4, 5 e 6 ottobre di quest’anno, permetteranno a tutti i lettori non solo di scoprire o riscoprire, ma anche di confrontarsi con un pensiero ed una proposta politica estremamente stimolante e destinata ad influire in maniera determinante anche sul pensiero e sull’azione di chi si trova oggi ad agire contro il modo di produzione capitalistico e l’imperialismo militare, estrattivista e finanziario in ogni altro angolo del mondo, Occidente compreso.
Ancor più quindi che per la pratica militante e la coraggiosa resistenza alla detenzione che Abdullah Öcalan ha opposto ad un sistema che intendeva e intende annientarlo e destinarlo, insieme alla lotta del popolo curdo, all’oblio, il militante e leader del PKK è diventato un eroe contemporaneo proprio per la volontà, la capacità e il coraggio di rimettere in discussione quei presupposti teorici su cui ancora troppi movimenti sembrano voler riposare, condannandosi così, questi ultimi, all’impossibilità di interagire in maniera propositiva e vincente con le contraddizioni del presente.
Qui di seguito si pubblica un estratto da uno dei quattro pamphlet, proprio a testimonianza della novità propositiva delle riflessioni del militante curdo, non dimentichiamolo mai, catturato ed imprigionato grazie anche al tradimento nel 1999 del governo italiano, retto all’epoca da Massimo D’Alema. S.M.]
Il mio rapimento fu sicuramente un duro colpo per il PKK, tuttavia non fu la causa del suo cambiamento ideologico e politico. Il PKK era stato concepito come un partito con una struttura gerarchica di tipo statale, simile a quella di altri partiti. Una struttura che era, pero, in contraddizione dialettica con i principi di democrazia, libertà e uguaglianza, una contraddizione di principio per ogni partito, quale che sia la sua filosofia. Sebbene il PKK avesse una visione orientata verso la liberta, non eravamo stati capaci di liberare il nostro pensiero dalle strutture gerarchiche.
Un’altra delle contraddizioni principali stava nella ricerca, da parte del PKK, del potere politico istituzionale, sul quale il partito si era formato e allineato. Una struttura volta al potere istituzionale era pero in conflitto con quella democratizzazione della società alla quale il PKK dichiarava apertamente di aspirare. Gli attivisti di un qualsiasi partito di questo genere tendono a farsi dirigere dai loro superiori piuttosto che dalla società, oppure a scalare la gerarchia per salire di posizione.
Tutte e tre le grandi correnti ideologiche fondate su una concezione emancipatrice della società si trovarono di fronte a questa contraddizione. Quando il socialismo reale e la democrazia sociale, come pure i movimenti di liberazione nazionale, cercarono di formulare concetti di società che andassero oltre il capitalismo, non riuscirono a liberarsi dai legami ideologici del sistema capitalista. Presto divennero loro stessi pilastri del sistema capitalista, per il semplice fatto che cercarono il potere politico istituzionale, piuttosto che focalizzare la loro attenzione sulla democratizzazione della società.
Un’altra grande contraddizione fu il valore dato alla guerra nel pensiero ideologico e politico del PKK. Guerra intesa come continuazione della politica, pur con mezzi diversi, e come strumento strategico.
Ciò era apertamente in contraddizione con la percezione di noi stessi come movimento che combatte per la liberazione della società, in base alla quale l’uso della forza armata e giustificabile solo ai fini dell’autodifesa. Tutto quanto va oltre e in aperto contrasto con l’approccio sociale di tipo emancipatore professato dal PKK, dato che tutti i regimi oppressivi della storia erano stati fondati sulla guerra o avevano strutturato le loro istituzioni secondo una logica bellica.
Il PKK credeva che la lotta armata fosse sufficiente per conquistare quei diritti che erano stati negati ai curdi. Una tale concezione deterministica della guerra non e ne socialista, ne democratica, anche se il PKK si considerava un partito democratico. Un partito veramente socialista non si ispira a strutture o gerarchie di tipo statale, ne aspira al potere politico istituzionale, il quale si fonda sulla protezione dei propri interessi e del proprio potere tramite il ricorso alla guerra.
La presunta sconfitta del PKK, che le autorità turche credevano di aver ottenuto con la mia deportazione in Turchia, divenne piuttosto l’occasione per riesaminare in modo critico e aperto le ragioni che avevano impedito al nostro movimento di liberazione di fare ulteriori progressi. La frattura ideologica e politica vissuta dal PKK trasformò la presunta sconfitta in un punto di passaggio verso nuovi orizzonti.1
A. Öcalan, Pace e guerra in Kurdistan, pp. 25-27 ↩