di Fabio Ciabatti
[Il testo che segue è l’introduzione all’incontro sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” che si è svolto nell’ambito del Carmillafest, ospitato a Bologna dallo spazio libero autogestito Vag61.]
Nell’incontro di oggi parleremo del “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” con il gruppo di studio Antongiulio Penequo. Vorrei introdurre l’argomento ricordando brevemente le riflessioni di Ernst Bloch di fronte all’ascesa del nazismo in Germania. In Eredità di questo tempo il filosofo tedesco critica i marxisti volgari per il fatto di aver sottoalimentato la fantasia delle masse, di aver trascurato il mondo dell’immaginazione e di non aver montato “la guardia nelle regioni del primitivo e dell’utopia, proprio laddove i nazisti attingono il loro potere di seduzione”. Questo tipo di propaganda, imperniata in modo freddo e pedante solo sul momento economico, rincara la dose Bloch, è incapace di “contrapporre al mito… [una] contropartita che sappia trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari”.1
Seguendo la vena di Bloch, si parva licet, ci chiediamo se sia possibile rivendicare la figura dell’eroe a un immaginario antagonista, radicalmente alternativo allo stato di cose presenti. Perché tentare questa operazione? Perché quella dell’eroe è una figura potente, pervasiva che forse vale la pena di sottrarre ad un immaginario conservatore se non addirittura reazionario.
Per questo motivo presentiamo oggi, per la prima volta in forma collettiva, i risultati di una riflessione portata avanti dal gruppo di studio di cui faccio parte insieme a Luca Cangianti, Mazzino Montinari, Maurizio Marrone e Gabriele Guerra.
Prima di entrare nel merito, una breve presentazione del gruppo che si è formato nel 1990 quando era appena scoppiata la prima guerra del Golfo. Avevamo davanti un mondo in fiamme e il desiderio, certo un po’ naïf, di metterci insieme per spegnere quegli incendi e per appiccarne altri. All’epoca le nostre vicende personali ci hanno portato a separarci. Ci siamo però rimessi insieme a distanza di 27 anni, curiosamente lo stesso lasso di tempo che divide i due episodi narrati da Stephen King in IT. Come i protagonisti del romanzo, passati tanti anni facevamo ancora parte del “Club dei perdenti”, eravamo ancora dalla parte del “lato cattivo” della storia. A distanza di tanti anni il mondo è ancora in fiamme. Forse non sono le stesse di quel tempo, però bruciano e fanno male lo stesso.
Ci siamo messi alla ricerca di tracce e segnali che prefigurassero il possibile insorgere di forme antagoniste all’altezza dei nostri tempi e ci siamo ritrovati a ragionare sulla figura dell’eroe, declinato inizialmente secondo le funzioni simboliche analizzate da Campbell prima (L’eroe di mille volti) e da Vogler poi (Il viaggio dell’eroe). Per quale motivo?
Mettiamo un po’ di carne al fuoco per introdurre la discussione. Per quale motivo abbiamo ragionato di questa figura?
Perché il viaggio dell’eroe può essere interpretato come l’archetipo dell’agency, della soggettività politica. Tale archetipo non è solo alla base dell’agire, ma ha anche una forma che condivide con il narrare e il conoscere: l’eroe delle narrazioni moderne percorre un cammino simile a quello dello scienziato rivoluzionario kuhniano che viaggia tra paradigmi e a quello di chi prende coscienza di una situazione d’oppressione e decide di ribellarsi (vedi qui e qui).
Perché l’eroe è quella figura narrativa che racconta la missione (solitaria?) compiuta in nome di una comunità; in cui la narrazione, cioè, non è solo mero racconto di fatti avvenuti, ma costruzione epica (vedi qui e qui).
Perché l’errare iniziatico dell’eroe è scandito dal complicato rapporto che egli intrattiene con la coscienza di sé e con la conoscenza, ovvero con il compimento della propria soggettività (vedi qui, qui e qui).
Perché, in fondo, quella dell’eroe è una figura ambigua, come ambigue sono le nostre vite e il contemporaneo … tutti i contemporanei. L’eroe crea nuove regole? Le detta? Le infrange? Le fa rispettare? (vedi qui e qui)
Per ciò che mi riguarda, almeno all’inizio, ero quello più scettico riguardo a questo percorso di ricerca (vedi qui, qui e qui). E forse anche per questo posso moderare questo incontro facendo un po’ da avvocato del diavolo. O, se preferite, il rompiscatole. E proprio con questa funzione vorrei proporre alcune brevi considerazioni prendendo di nuovo spunto da Ernst Bloch che, scrivendo Il principio speranza, non mostra particolare simpatia per questa figura.
Partiamo da una veloce premessa. Bloch sostiene che “L’uomo è ciò che ha ancora molte cose davanti a sé”.2 In altri termini di fronte all’uomo c’è la possibilità di un novum che riguarda sia sé stesso sia il suo mondo. Ma, in quanto non completamente condizionato, il possibile rimane in sospeso. E “di fronte a questo essere in sospeso reale, di primo acchitto è adeguata … sia la paura sia la speranza”. Soltanto quando ci si decide ad agire con “ardimento” può predominare la speranza.3
Veniamo dunque al punto che ci interessa riguardo alla tematica dell’eroe. L’ardimento può rappresentare “una contromossa” rispetto alla paura solo in quanto, a differenza “dell’azione eroica rapida e astratta”, media se stesso con la maturità delle condizioni date che si trovano “all’ordine del giorno sociale”.4 La mediazione con le condizioni date richiede una conoscenza che è rivolta “all’efficacia operativa” e non alla “quiete contemplativa”. Bloch ritorna sullo stesso concetto: quando Marx scrive Il capitale, non fornisce “una ricetta per una rapida azione eroica ante rem“,5 ma va alla ricerca dei nessi di cui è intessuta la più difficile realtà.
Dunque, come anticipavo, Bloch dà una connotazione sostanzialmente negativa dell’azione eroica. Ripetiamolo: l’azione eroica è caratterizzata come “rapida e astratta”, priva cioè delle necessarie mediazioni con le condizioni reali. Ma c’è una seconda faccia della medaglia che vale la pena considerare. La ricerca dell’efficacia operativa, il rifiuto della quiete contemplativa portano con sé alcuni significative conseguenze: niente si oppone alla coscienza utopica più “dell’utopia con un viaggio illimitato; l’infinità del tendere è vertigine, inferno”; l’utopia non vuole una “distanza eterna dall’oggetto” ma “coincidere con esso quale oggetto non più estraneo all’oggetto”; la speranza non vuole un “processo infinito” ma “un risultato coinciso”.6
A questo punto, con riferimento all’eroe, possiamo fare un’operazione simile a quella di Bloch nei confronti dell’happy end. Secondo Bloch l’arte che si presta ad essere mero divertimento, allegro imbroglio ci rappresenta “il lieto fine come fosse raggiungibile in un immutato oggi della società”, “senza che si sia dovuto cambiare nulla della realtà esistente”.7 Eppure l’happy end, per il filosofo tedesco, non va soltanto smascherato. L’happy end va anche rivendicato. Per quale motivo? Perché in esso possiamo riconoscere un impulso che non è limitato alla credulità. In esso infatti possiamo scorgere anche l’impulso umano alla felicità, impulso a cui si trova ancorata la speranza. La speranza diventa motore della storia nel suo attendere e suscitare una meta positivamente visibile. Lo spirito utopico autentico, quello che attraverso la conoscenza tende all’utopia concreta, “distrugge l’ottimismo putrido” ma non “l’urgente speranza di un buon esito”.8
E proprio in questa urgenza del buon esito, nella volontà del risultato coinciso, nel rifiuto del viaggio illimitato possiamo comprendere la pregnanza della figura dell’eroe. Perché, in effetti, l’eroe è proprio colui che consente di raggiungere con rapidità ciò che urge, anche se solo astrattamente, vale a dire quando le condizioni reali non sono ancora presenti o comunque non ancora riconosciute.
Occorre dunque smascherare l’eroe perché esso è ciò che riempie illusoriamente un vuoto, una mancanza di condizioni oggettive e di ardimento collettivo. Si può però allo stesso tempo rivendicare questa figura perché attraverso essa affiora l’impulso alla felicità e l’urgenza di una utopia realizzata.
Allora in consonanza con la corrente fredda del marxismo, possiamo rivendicare la famosa sentenza del Galileo di Brecht: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Spesso nella storia, infatti, questa figura si è trovata associata a dannosi patriottismi e sventurati proclami d’azione. Ma possiamo anche dire sventurata è quella terra che ha dimenticato la figura dell’eroe, perché essa è una metafora “calda”, potente che ci spinge a prendere coscienza dell’oppressione e a decidere di ribellarci.
In conclusione, chi non si emoziona di fronte alle gesta più o meno fantastiche di un eroe che sconfigge il male difficilmente sarà capace “di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”, come diceva Che Guevara. Ciò non toglie che chi pensa sia necessario un eroe per combattere l’oppressione difficilmente prenderà parte a una lotta contro quella stessa oppressione.