di Giovanni Iozzoli
Ho conosciuto l’odio di classe abbastanza presto, anche se ovviamente non ero consapevole di cosa fosse. Fu mio padre (buonanima) a fornirmene involontario esempio – anche lui in modo assolutamente inconsapevole. Impiegai un po’ di anni a darmi una spiegazione di certi suoi atteggiamenti e a capire come sono profonde le correnti sotterranee dei nostri moventi, dei nostri pensieri, delle nostre parole segrete.
Mio padre era un vecchio poliziotto degli anni 50 – quelli vagamente pasoliniani, che si vedono nei telegiornali d’epoca intabarrati dentro cappottoni che sembravano coperte di lana. Apparteneva a quella generazione di sottoproletari usciti dalla guerra, per i quali indossare la tuta d’officina o la divisa da caserma, era questione di casualità, più che di scelte di vita; mio padre prolungò la ferma di leva e si ritrovò abile e arruolato in PS, con un bel cappello blu e un’aquila dorata sul berretto. Negli anni successivi, avrei ironizzato su quel simbolo; mi dicevo: “ai tipi come lui, dopo la rivoluzione, basterà lasciargli lo stipendio, sostituire l’aquila con la stella rossa e avremo bella e pronta la milizia popolare”. Era un uomo mite, riservato, amante dei cardellini e della pittura a olio amatoriale; ogni tanto si chiudeva alla comunicazione col mondo per ritrovarsi in una sua dimensione speciale, inaccessibile anche a noi familiari. Immagino che non amasse la vita da caserma e siccome aveva una bella testa si mise a studiare da telegrafista e quello rimase per tutta la vita: il suo lavoro era stare appollaiato in una postazione semibuia, nello sforzo di decifrazione di punti-linea che costituivano il linguaggio burocratico della Repubblica, l’ordito della sua storia pubblica e segreta. Bip bip bip: ordini, disposizioni, avvisi, sciagure, dispacci, dichiarazioni, segnalazioni, allerte meteorologiche e sociali – passava tutto attraverso i polpastrelli di un esercito di comunicatori anonimi e silenziosi, ognuno ingobbito alla sua scrivania, nella penombra della concentrazione.
Torniamo all’odio. Mio padre, come dicevo, era buono come il pane, totalmente e convintamente apolitico e abbastanza disinteressato alle cose del mondo. Uno spirito leggero, che occupava poco spazio. La vita era una faccenda semplice, che non imponeva l’esibizione e i trionfi dell’ego a cui siamo incatenati noi moderni, terrorizzati dal fallimento, dall’anonimato. Ma c’erano delle occasioni misteriose in cui questa sua leggerezza si addensava, scendeva improvvisamente sulla terra e si materializzava nelle forme di un livore sordo, palpabile, inusuale. E succedeva sempre – sempre – quando sentiva parlare in tv, di rapimenti e rapitori.
Per i più giovani: fino alla prima metà degli anni 90 era abbastanza normale che due, tre o più ostaggi si trovassero reclusi in attesa di riscatto, generalmente in Aspromonte, in Gallura o in Barbagia.
Ogni telegiornale aveva la sua pagina dedicata ai sequestrati – gli appelli dei parenti, le notizie sulle indagini, l’aggiornamento sui mesi di prigionia, le foto tessera delle vittime e quelle dei ricercati. I sequestri rappresentarono nei primi anni 70, il meccanismo di accumulazione originale che permise poi alla ‘ndrangheta il grande salto al narcotraffico internazionale. Circa 400 persone finirono ostaggi nell’arco di un ventennio – non tutte tornarono a casa.
Ora uno può pensare: questo bravo servitore dello Stato, mite e innocuo, quando si parla di sequestri, si indignerà contro i criminali, no? Considererà un oltraggio estremo alla legge e alla convivenza, il fatto che un privato cittadino venga prelevato coattivamente e condotto in catene come una bestia, per estorcergli soldi in cambio della vita.
Invece no. Mio padre manifestava il sentimento opposto. Per ragioni che io, bambino, non riuscivo a cogliere o a spiegarmi, mio padre esprimeva una irrazionale solidarietà verso i banditi rapitori fino a mostrarsi cinicamente indifferente alla sorte degli ostaggi, alle loro condizioni, al pericolo mortale che correvano. Quelle reclusioni non lo commuovevano. Neanche (terribile a dirsi) quelle dei bambini. Neppure se si arrivava a tagliare qualche orecchio. “Devono caccia li sordi”! diceva impastando due o tre dialetti. “Ce ll’hanno? Allora li deveno caccià!”
Per me erano un mistero questi sbotti improvvisi e cattivi che lo amareggiavano come se si stesse parlando di vicende a lui vicine. Non aveva mai conosciuto un sequestratore, ne’ un sequestrato. Cosa potevano avergli fatto quei poveri rapiti, dal profondo di anfratti, buche, botoli e nascondigli, per evocare sdegno e rancore in un uomo semplice, tollerante, nemico di ogni eccesso, solitamente ultralegalitario?
Io, tra l’altro, provavo sempre un po’ di invidia per i ragazzini rapiti e riscattati: negli anni ’70, quando i sequestri finivano bene, queste povere creature frastornate e scarmigliate, venivano festeggiate come eroi, sotto i fari delle telecamere, davanti a delle tavole apparecchiate di ogni ben di Dio e di tutti i giocattoli possibili (si vede che all’epoca era una terapia consigliata, consolare i rapiti minorenni a colpi di torte e balocchi).
Poi, un po’ più grandicello, cominciai a capire il misterioso astio che ballava in corpo a mio padre, quella specie di pus che ogni tanto secerneva, interrompendo la sua noncuranza serafica verso il mondo degli uomini. Era una forma – una delle tante – che può assumere l’odio di classe.
Si trattava di un residuo tossico del senso di inferiorità e di ingiustizia che covava nel suo passato di ragazzino povero e di adulto dedito a una vita normalmente sacrificata. Gli mancava la grammatica per articolare un ragionamento, su tali gerarchie e sui destini del mondo: sentiva solo il malessere oscuro, che sbottava fuori come una bestemmia al vento, un inutile ululato alla luna. Evidentemente, dentro di sé sentiva che i rapitori, con le loro gesta, stavano sanando, in qualche modo oscuro e arcaico, il torto antico della diseguaglianza. E il fatto che le vittime fossero minori non cambiava il senso della faccenda: la ricchezza era genetica, si trasmetteva di padre in figlio e quindi era giusto che l’ombra della vendetta sociale calasse anche sui ricchi futuri.
La sua rabbia era amplificata dalla divisa che teneva nell’armadio: quelli come lui erano i difensori dell’ordine sociale, quindi i custodi degli altrui patrimoni e del diritto che li tutelava. Denigrava (e probabilmente invidiava) i ricchi e i potenti, ma il suo ruolo sociale era di montare la guardia su quelle ricchezze, mentre dentro il palazzo i signori se le godevano (immagine non solo simbolica, se pensiamo al peso delle scorte pubbliche e private, abnormemente aumentato a partire dagli anni 70).
Naturalmente non razionalizzò mai queste pulsioni in forma compiuta, non ne aveva alcun bisogno – la sua irreprensibilità pubblica autorizzava ogni sfogo privato, si sapeva che era così; i colleghi di mio padre, che io bambino ascoltavo, dicevano normalmente cose terribili circa le “classi dirigenti” su cui dovevano vigilare, tutti, senza eccezione, rosi dal medesimo odio, dallo stesso rancore sociale. Davano l’idea di disprezzare se stessi e i potenti in egual misura.
Aprile 2007, nel corso di una conferenza stampa a Genova, convocata in occasione della sua candidatura a sindaco, Edoardo Sanguineti provoca scandalo perché invoca pubblicamente la “restaurazione” dell’odio di classe. Usa questa curiosa espressione storico-burocratica: come se fosse stato abolito per legge e andasse ripristinato. Quello di Sanguineti (a differenza degli umori sotterranei) è un discorso consapevolissimo, lucido, provocatorio, l’eco scandaloso del poeta che riversa l’indicibile nell’agone sonnacchioso della politica. Ce l’ha, il poeta, non tanto con i ricchi (che fanno il loro mestiere) quanto con i riformisti, i predicatori della collaborazione di classe, quelli che dietro le apologie del nuovo liberalismo fin de siècle, si lasciano alle spalle infinite macerie – e non metaforiche, si vedano le infami guerre umanitarie da Belgrado in poi. Dietro alle parole ardite del poeta non c’è solo il gusto della provocazione, c’è tutto il 900, la storia corale di milioni di uomini e donne altrettanto consapevoli, altrettanto convinti della nemicità di classe come necessità storica, come motore di ogni progresso umano.
Niente a che vedere con mio padre, personalità antiteleologica per eccellenza. In lui, l’idea della violenza contro i ricchi, esprimeva solo il ristoro atavico alle sofferenze del suo ceto d’origine, l’ombra della jacquerie che proveniva da epoche lontane: sapere che anche “loro” potevano piangere, potevano pagare un prezzo al destino. Magra soddisfazione. Quando il padrone di casa, immobiliarista ing. Santillo Pasquale, gli aumentava l’affitto, non poteva mica consolarsi pensando all’improbabile rapimento del suo figliolo, ing. Santillo Guido.
Nel momento in cui, inconsciamente, ti auguravi di essere vendicato socialmente da una paranza di rapitori, stavi ammettendo la tua sconfitta, la tua impotenza definitiva, stavi solo ripercorrendo i luoghi comuni della sottomissione di classe: “che voi fa? Ce sò sempre stati ricchi e poveri”. E allora l’unica forma di ribellione diventa quella del servo che bacia la mano del padrone e poi, in cucina, gli sputa nel piatto prima di servirlo (pratica molto in uso nelle moderne aziende 4.0).
L’odio di classe può essere un vino rosso e purissimo. Ma può anche facilmente andare a male, diventare aceto, cominciare a puzzare. Tutto dipende dal contesto in cui lo conservi, quel liquido: se è custodito dentro la dimensione collettiva, dentro pratiche comunitarie, dentro la relazione, la vicinanza, le braccia che si intrecciano nei cordoni, la tutela reciproca nei picchetti, lo studio cooperante dei problemi, l’imparare insieme, l’affrontare insieme, l’edificare insieme, allora cominci a sentire che la tua sofferenza non è questione personale – di incompiutezza o invidia sociale: avverti l’eco dei passi che ovunque nel mondo, percorrono la medesima strada. L’odio si sublima, diventa altro – amore di classe? – e questo non c’entra con le chiacchiere pelose anni 90 sulla “non violenza”; è piuttosto il rifiuto della razionalità capitalistica, del suo sguardo sul mondo e sulla storia, della sua nozione di individuo: proprio quando cerchi di superare il punto di vista individuale, scopri l’importanza della persona, anche della sua irriducibile singolarità. L’individuo è il figlio prediletto del capitalismo, la persona un suo potenziale nemico.
Mio padre fu sfortunato, in questo. Non conobbe né educazione né autoeducazione politica. Il suo ambiente meschino non permetteva niente se non l’ubbidienza malmostosa. Non ebbe modo di conoscere il linguaggio – o anche solo la suggestione – dell’emancipazione. Se non quella fatta di lavoro, risparmio frenetico, etica della famiglia.
Di solito l’individuo – la forma standard del piccolo borghese perverso, nevrotizzato, invidioso, gretto e pericoloso che alberga nel nostro cuore ipermoderno – non è portatore di alcun valore generale, non può raggiungere altro che la condizione di “pubblica opinione”, di pubblico televisivo o, oggi, di navigatore maldestro nello spazio privatizzato delle reti social – anche se i più fighi si sentono figli di Rousseau.
La cuoca evocata da Lenin, può al massimo cucinare, se non si decide a uscire dai vapori della cucina, se non si sottopone ad un processo di trasformazione che la strappi dalla limitatezza del suo punto di vista individuale, dalle correnti mutevoli del retrobottega, dalle influenze dello chef e del padrone – cioè da tutte le condizioni che normalmente sviano o coprono i nostri interessi collettivi e ci riconducono alla nostra povera individualità, all’inseguimento dei miti meritocratici, all’accettazione delle gerarchie e delle scandalose diseguaglianze che ottundono l’ontologica eguaglianza, che è la creta da cui siamo stati tutti impastati. La scoperta dell’amore di classe può cambiare una vita.
Negli ultimi anni mio padre non mi sorprendeva più con opinioni politicamente scorrette contro i ricchi. L’astio era sfumato tra i guai familiari, gli acciacchi, l’inesorabilità della vecchiaia. Di rapimenti non se ne sentivano più al telegiornale. Altri tempi. Ultimamente, ogni tanto mormorava contro gli stranieri (naturalmente non aveva mai conosciuto un extracomunitario, più o meno come non aveva mai avuto a che fare con i ricchi di cui anni prima auspicava le orecchie mozzate). Ogni livore si era stemperato. Era rimasto solo il fondo malinconico e deluso dalla vita, del brav’uomo qual era.