di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un ritratto di Poe di Elisa Lo Presti, Red Right Hand workshop, 2017, coll. priv.]

 

3. Dopo The Pit and the Pendulum, 1842-43 si apre una terza fase, che arriva fino alla morte di Poe: una stagione produttiva che presenta caratteri abbastanza diversi – pur senza cesure assolute – e che potremmo definire dei capolavori del delirio. Il fantastico non viene abbandonato ma incanalato in specifici filoni oppure ricondotto a un tipo visionario di linguaggio più che di contenuto: le storie parlano ora di sperimentazioni mesmeriche, di ossessioni criminali, di pulsioni misteriose della realtà-uomo. Se un po’ sempre i personaggi di Poe hanno flirtato con lo squilibrio e con il delirio, ora questo aspetto è posto in primo piano. Emblematico un testo come The System of Doctor Tarr and Professor Fether, dove folli e sani di mente si sono scambiati i ruoli.

In chiave protothriller, questa è la stagione dei racconti sul genio della perversione (The Tell-Tale Heart, The Black Cat, The Imp of the Perverse) e sul nesso tra delitto & vendetta (The Cask of Amontillado, Hop-Frog). Continua anche la produzione poliziesca già avviata con un secondo sequel alle avventure di Dupin, The Purloined Letter, e un racconto che salda beffardamente gioco macabro e indagine di giustizia, Thou Art the Man; mentre il tema delle cifrature da sciogliere raggiunge la sua più trionfale espressione in chiave narrativa con The Gold-Bug. Per Poe, che conduce una sua guerra personale contro i romanticismi d’accatto, il richiamarsi ai fasti dell’intelletto e all’orgoglio della razionalità ha però anche sempre una dimensione di spettacolo: emblematico è l’istrionismo di Dupin nello snocciolare la ricostruzione della verità e le meraviglie del raziocinio.

Quale che sia il sapore del testo, il cadavere ne è spesso il focus: ora un cadavere in qualche modo “attivo” (Thou Art the Man, Some Words with a Mummy, The Facts in the Case of M. Valdemar), ora passivo ma dotato di un peso fatale (The Oblong Box), ora un cadavere – potremmo dire – solo virtuale (il tema del sepolto vivo, già documentato nel primo periodo con Loss of Breath e Berenice e nel secondo con House of Usher, torna ora in The Premature Burial).

Il fantastico è del resto ricondotto al nesso tra fisicità e mente, come nei racconti mesmerici (A Tale of the Ragged Mountains, Mesmeric Revelation, The Facts in the Case of M. Valdemar), che mostrano l’interesse almeno narrativo di Poe per filoni di speculazione in senso lato esoterici. Mentre il tema della donna che torna è elaborato ancora più alla lontana nel citato The Oblong Box e nel celeberrimo poema narrativo The Raven.

In vari casi, a essere pervertita, spingendo a una percezione falsata della realtà, è la visione oppure la conoscenza. Poe è sempre stato affascinato dal tema dello scarto tra realtà autentica e solo immaginata, scarto motivato da cause diverse (truffa, inganno per beffa, imperfetta percezione, svista…): e ciò emerge ora in una serie di racconti dal sapore comico o almeno ironico. Diddling riguarda appunto il tema della truffa, The Spectacles evoca i rischi di corteggiare una donna senza occhiali se non si vede bene, The Sphinx (che pur ripropone il tema dell’epidemia) spalanca visioni da incubo che si riveleranno alla fine tutt’altro. Sul tema dello scarto beffardo dalla conoscenza di un’epoca sono poi gli unici racconti esoticheggianti di questa fase, The Thousand-and-Second Tale of Scheherazade e Some Words with a Mummy. In chiave di beffa “scientifica” con toni da commedia troviamo poi Von Kempelen and His Discovery.

Va detto che, per quanto non manchino racconti umoristici piuttosto surreali (The Angel of the Odd, The Literary Life of Thingum Bob, Esq., X-ing a Paragrab e altri dei racconti già citati) l’autore ha in genere abbandonato le tipologie burattinesche dei periodi precedenti.

Per contro, rilevante è lo spazio offerto alla dimensione scientifica: abbandonate anche le saghe esplorative di terra e di mare, ad affascinare è ancora il cielo – sia pure in chiave di sberleffo – con The Balloon-Hoax e Mellonta tauta. E in quel testo particolarissimo che è Eureka: A Prose Poem, Poe sviluppa in chiave cosmologica spunti solo accennati nei periodi precedenti. Non manca un ultimo dialogo filosofico tra spiriti disincarnati, The Power of Words, che discute il tema della creazione dell’universo.

Anche il tema della bellezza è affrontato piuttosto in chiave filosofica o almeno riflessiva (The Domain of Arnheim, Landor’s Cottage, l’articolo Morning on the Wissahiccon).

Se poi Poe ha per tutta la vita riflettuto sulla scrittura, e osservazioni interessanti emergono nei testi più vari (si pensi a How to Write a Blackwood Article, beffardo ma rivelativo di meccanismi “a effetto” usati dallo stesso autore), di particolare rilievo sono in questo periodo The Rationale of Verse, The Poetic Principle e soprattutto quell’opera-chiave che è The Philosophy of Composition.

Resta misteriosissimo The Light-House, lasciato incompleto e di cui è impossibile capire come (e se) l’autore prevedesse di continuarlo. Ma più in generale, è impossibile immaginare dove Poe si sarebbe spinto con la sua fantasia se la salute l’avesse assistito. Personalmente tendo a credere che avrebbe fatto tesoro in chiave fantastica e magari di beffa del boom crescente dello spiritualismo, preludendo forse al tipo di storie poi prodotte da un altro americano dark, Ambrose Bierce (1842-1914?).

 

3. Ossessioni e strutture narrative

Quanto detto costituisce naturalmente solo un abbozzo di panoramica e in nessun modo può intendersi quale griglia analitica: i fili che collegano i singoli testi sono infiniti, e il singolo tema può passare dall’avventura al macabro alla commedia lieve in successive declinazioni. Non è insomma particolarmente utile “classificare” i racconti – le connessioni tra gruppi restano troppo strette, le partizioni troppo ampie – quanto piuttosto rimarcare richiami ricorrenti o grumi di suggestioni. Proprio la lettura in ordine cronologico permette di rilevare più agevolmente tali nessi: e il lettore attento può cogliere affinità tra racconti di tipo diverso.

Qualunque scrittore presenta temi forti, che tornano con frequenza significativa: in questo senso Poe non è certo il solo a rivisitare gli stessi motivi e provocazioni declinandoli in versioni svariate. Una certa maschera della vulgata, quella dell’Americano Maledetto vittima di demoni interiori e di vizi degradanti, conduce a considerare alcuni di questi soggetti continuamente richiamati come vere e proprie ossessioni: si pensi alla donna che torna o al seppellimento da vivo. È naturalmente possibile che dimensioni ossessive possano individuarsi, ma occorre sempre una certa cautela nell’interpretare testi letterari costruiti in realtà con lucida consapevolezza.

Certo, il discorso della donna che muore e che spesso torna (ma potremmo dire che torna sempre, sul piano letterario), e la stessa natura insistitamente passiva di buona parte delle figure femminili potrebbero collegarsi a un quadro di fantasmi interiori segnato dalla troppo precoce perdita della madre: qualcosa che conduce da un lato all’angelizzazione (le figure femminili di Poe non mostrano mai connotazioni erotiche) e dall’altro all’affiorare di tendenze sadiche/punitive verso la donna che lo abbandona. Anche se poi è vero che non si tratta di un mero teatro interiore, da esaurire a colpi di psicanalisi. È un dato di fatto, realistico e storico, che i suoi testi fotografino un mondo durissimo, quello americano ottocentesco, dove soggetti fragili come le dame soavi di racconti e poesie soccombono più facilmente e precocemente, falciate dalla consunzione. E d’altro canto si tratta anche (Poe stesso lo ammetterà) di figure del pathos letterario, di topoi del patetico che gli permettono di veicolare lucidamente una serie di effetti narrativi e di temi cari – identità & individuazione, eccetera.

Si pensi anche, per esempio, al tema del grande fuoco che emerge con maggiore o minor enfasi lungo tutto l’arco della sua produzione (idealmente dal primo racconto Metzengerstein del 1932 a uno degli ultimi, Hop-Frog del 1949). Un’immagine che certo potrebbe legarsi con potenza di simbolo al già citato rogo del teatro di Richmond associato – sia pure indirettamente – alla morte della madre, e dunque evocare qualcosa di più profondo di una mera invenzione narrativa ad effetto. Anche se (di nuovo) va detto che negli Stati Uniti del tempo, dove moltissimo è costruito in legno, quella degli incendi devastatori risulta una dimensione ben più quotidiana di quanto noi possiamo percepire… E così via.

Allo stesso modo, il suo istrionismo – palese nei modi teatrali delle voci narranti, ma in fondo anche nei toni di altri tipi di testi – potrebbe rivelare tratti isterici; e almeno sembra di ravvisarvi un desiderio spasmodico dell’attenzione altrui. Forse di essere amato? Ma se è vero che su Poe abbiamo una ricchissima documentazione, a indagini puntuali sulla sua interiorità osta il mistero riguardante alcune dimensioni fondamentali, in particolare i rapporti concreti con figure basilari della sua vita: si pensi solo alla relazione misteriosa e molto discussa tra Edgar e sua moglie Virginia Eliza Clemm (1822-1847), sua cugina prima, sposata tredicenne quando Edgar ha già ventisette anni. Cosciente su quanto i testi di Poe abbiano rappresentato un intrigante terreno d’indagine sia per riflessioni psicanalitiche serie – a partire in fondo da quelle datate ma affascinanti di Marie Bonaparte – sia per intere palestre di psicologismi da rotocalco, lascio volontariamente questo fronte a lettori con competenze specifiche.

Dove invece ci si può muovere in modo un po’ più agevole è sul piano delle strutture narrative: ed è forse possibile distinguere tre tipologie.

a) Anzitutto, a fronte del panorama generale dell’opera di Poe, non sembra scorretto parlare di vere e proprie strutture mitiche e di mitopoiesi nell’indicare quelle costellazioni forti – pensiamo appunto alla donna che torna, al Doppio, al palazzo in rovina, al Grande Contagio, al seppellimento da vivi, alla reincarnazione, ai misteri mesmerici – che Poe consegna come un lascito perenne all’immaginario. Interessante è vedere per esempio l’uso che ne farà il cinema, con caratteri che richiamano proprio alla plasticità del mito. Lo stesso tema vampirico, in Poe sviluppato in forme liberissime dai tradizionali canoni del gotico, emerge come chiave mitica generale: le giovani morte de The Oval Portrait e The Oblong Box subiscono o esercitano vampirismi passivi piuttosto simili a quello delle non-morte Berenice, Ligeia, Morella e una sorta di vampirismo – come detto – è anche quello di The Man of the Crowd.

Tali strutture si agganciano e si innervano una con l’altra. Si pensi alle dinamiche tra personaggi, come nel continuo riproporre tre figure-base: anzitutto la donna del rimpianto/ritorno, sorella di sangue o di adozione, unita in sponsali castissimi e privi di eros; e due figure maschili, a loro volta in rapporto di doppio/rifrazione – come eminentemente espresso in William Wilson, dove la scissione si consuma a partire da una scuola labirintica a immagine di una tortuosa interiorità affondata nell’infanzia. Ma si pensi anche a The Man of the Crowd con il rapporto tra narrante e inseguito, entrambi alla deriva della propria eccitazione; o a The Tell-Tale Heart, dove all’occhio velato della vittima corrisponde la lanterna cieca dell’assassino, e i rispettivi battiti cardiaci si echeggiano l’un l’altro. Emblematico è poi The Sphinx, sorta di Decameron liofilizzato in una novella, dove sullo sfondo dell’epidemia a New York i due uomini che dividono il rifugio sono a ben vedere due volti dello stesso Poe – e se a narrare è quello più tormentato, la chiave beffarda e la dissoluzione dell’incubo sono fornite dall’altro, il razionalista. Anche in The Gold-Bug, il Legrand sospettato di sragione dall’amico narratore, e in effetti invaso da una qualche febbre interiore, è in realtà il fine analista: e su questa linea troviamo in Dupin il protomodello dell’investigatore seriale bizzarro, avo di infiniti cultori di cocaina e orchidee alle prese con una “spalla”, suo doppio opaco. Se poi le figure-base appaiono solitamente a due a due, in un caso eclatante, The Fall of the House of Usher, le troviamo in scena tutte e tre: e come al ritmo di quei carillon con figurine che la rotazione tende a fondere e confondere – magari in uno dei tanti orologi dei racconti di Poe –, ecco che in fondo riecheggiano sempre lo stesso dramma.

b) Altri temi ritornano invece in forme più frantumate, e possiamo parlare semplicemente di topoi. Pensiamo a tutti i racconti giocati sul tema dell’imperfetta percezione della realtà, ma in realtà per motivi diversi, dalla truffa alla svista all’equivoco alla sostituzione alla superstizione: casi troppo vari per permettere di ricondurli a un’unica struttura mitica, anche se si colgono forti affinità. Ma pensiamo anche, in termini più contenuti, a certe singole provocazioni tematiche. La scimmia può essere proiezione umana in chiave di teatrale orrore: si pensi alla Rue Morgue col suo finto uomo e a Hop-Frog coi suoi finti oranghi, quasi scaturiti da un incubo di Dupin. Il tema dell’idillio appartato svela ora natura d’incanto ora dimensioni asfittiche. Mentre un’intera serie di testi evoca la costellazione tempo/orologi/pendolo conducendo in direzioni piuttosto varie.

Un discorso a parte può valere poi sul tema ricorrente delle confessioni di omicidi, alcuni impuniti (The Cask of Amontillado, Hop-Frog) e altri smascherati e in attesa della morte (The Black Cat, The Imp of the Perverse, Thou Art the Man): un itinerario che sembra rigirare come un guanto le diffusissime gazzette popolari d’epoca, concentrate sul dato molto esteriore della truculenza dei crimini. Mentre è dai bassifondi dell’anima che, interpellando filosofi e frenologi ma non fermandosi ai loro assunti, Poe offre i suoi reportage: e se a volte il movente è la vendetta (circonfusa magari di mitologica potenza ma insieme – ecco il giornalista – raccordata al meschino orizzonte delle infezioni dello spirito), a trascinare sono altrove altre cause. Tra le quali quel citato genio della perversione che induce al precipizio interiore, facendo compiere il male per la coscienza che è tale, e per contro inseguendo i rei a vomitare confessioni non volute. Certo in questi abissi c’è l’America puritana, che irrompe inesorabile attraverso le violazioni delle sue leggi morali; ma la denuncia prefreudiana di una vertigine di colpa connessa a qualche forma di degradata ribellione alla legge dei Patriarchi, e tale da mischiare cause ed effetti in un’unica tortura dell’anima, scardina nell’onirico le tradizionali categorie di peccato e gli stessi timori di un inferno oltremondano. Basta in fondo, sembra dire Poe, quello che abbiamo dentro.

E connessioni e continui ritorni investono i personaggi. Molti dei quali conoscono stati di coscienza alterati, eccitazioni più o meno morbose, derive dei nervi o vere patologie mentali: condizioni frutto di peculiarità ereditarie (il legato familiare di sensibilità e fantasia febbrile che torna in parecchi racconti), contingenze metaboliche (l’eccitazione da convalescenza del narratore di The Man of the Crowd) o speciali situazioni emotive (L’ombra), ma altrove causate o almeno agevolate dal ricorso a oppio o sostanze eccitanti. Come l’abuso di tè verde (ben prima di Le Fanu: The Oblong Box); e soprattutto di quel vino che porta alla degradazione (The Black Cat), permette la vendetta (The Cask of Amontillado) o la suscita (Hop-Frog), oppure conduce alla nemesi (Thou Art the Man). Con l’esito più eclatante in King Pest, trasfigurazione alcoolica, grottesca e onirica, dell’incalzare di un Contagio assurto a topos e categoria interiore: dove il narratore è fin dall’inizio partecipe della deformazione visiva che l’etile reca ai protagonisti, descritti in termini non meno paradossali dei mascheroni della corte di Re Peste.

Ma il reticolo di connessioni è strettissimo: e rammentando Hop-Frog, è curioso notare che in Thou Art the Man, tra i presunti mittenti della fatale cassa di vino c’è un Frogs, e che il cadavere accusatore “salta” (to hop) fuori inatteso. Tutto un tessuto insomma di connessioni talora evidenti, ma altrove più sotterranee e giocate in chiave di sghemba allusione.

c) Però c’è un’altra tipologia che mi pare interessante, quella che potremmo chiamare delle forme. Alcune strutture visive, vorrei dire geometriche, evocate nei racconti tendono infatti a proporsi in declinazioni diverse di testo in testo. Per esempio la cassa è una struttura chiusa dal contenuto misterioso che può anche essere un corpo: appare in opere diverse, ha una funzione molto materiale e di servizio, difficile parlare di un topos, eppure la sua forma squadrata torna di frequente. Ma c’è un altro caso, anche più eclatante: la costellazione pozzi/fori circolari/gorghi i cui esempi emergono in testi importanti a suggerire i temi dell’abisso, del vortice, della voragine agli estremi polari del mondo… e così via.

 

4. Tra cortine e sipario

Si è citato il gotico, ed è affascinante notare come Poi lo reinventi radicalmente in un mix originalissimo con il fantastico grottesco alla Hoffmann, con il lascito degli autori neri americani (Brockden Brown, certo Washington Irving) e gli sviluppi neri del romanticismo coevo inglese (Bulwer-Lytton). Finisce così col porsi quale essenziale trait d’union tra l’epoca del primo gotico (quello che corre da The Castle of Otranto di Horace Walpole, 1764, a Melmoth the Wanderer di Charles Maturin, 1820 e alla versione definitiva del Frankenstein di Mary Shelley, 1831: Metzengerstein è del 1832) e la seconda ondata del genere. Cioè l’ondata che parte a metà anni Quaranta, e riceverà spinta da vari fattori, dal successo inglese dei penny dreadful grazie alle nuove rotative a vapore, al botto della nascita dello spiritismo “classico” col caso americanissimo delle sorelle Fox, 1848 (poco più di un anno prima della morte di Poe), a vari altri: e proprio la produzione del Nostro avrà un peso determinante nell’innescarla.

Tuttavia, come detto, soffermarsi troppo sul taglio al nero avalla l’equivoco di esaurirvi un autore ben più ricco. Se è vero che i suoi racconti macabri ne restituiscono la voce più nota e amata dal pubblico, e insieme forse più rispondente a certe crisi interiori, il rischio è di confondere Poe coi suoi personaggi: di dimenticare cioè lo scarto lucidamente corteggiato da uno scrittore smaliziatissimo tra vita interiore e produzione letteraria. Emblematico è il saggio The Philosophy of Composition sulla genesi di The Raven: opera che certo denuncia per l’ennesima volta un rimpianto-vampiro dalle emersioni perturbanti e psichicamente devastatrici, ma anche l’uso che egli sa trarne razionalmente, inseguendo i lettori nelle loro emozioni e malinconie.

Significativo del resto il richiamo alla cifra del grottesco e arabesco da Poe stesso richiamata nel noto titolo della prima raccolta: quel lavoro di cesello da artista controllatissimo, profondamente letterario, che non si esaurisce nel travaso di angosce, e insieme un senso di spiazzamento che corteggia insieme macabro e ironia. A rammentare tra l’altro come pochi altri autori “neri” offrano un corpo tanto significativo di racconti ironici, sarcastici o decisamente comici – a volte macabri, a volte no.

Figlio di attori (è questa la fantasia ereditaria indicata in varie opere come matrice di irrequieta e febbrile visionarietà?), Poe offre nei racconti ideali monologhi teatrali: e se l’attenzione che il cinema gli tributerà guarda ovviamente, in prima battuta, al contenuto fantastico e nero, è pur vero che sceneggiature in sé non troppo fedeli possono ricondurre alla fonte attraverso lo stile d’interpretazione – capace di proclamare le ragioni della Notte con l’elegante teatralità dei soliloqui di Poe. Le cupe cortine dei suoi letti a baldacchino tirate a svelare epifanie della morte, le tappezzerie illusionisticamente arabescate mosse da fremiti spettrali e gli arazzi da cui si staccano figure allarmanti svelano tutti, in qualche modo, i caratteri del sipario. E insomma la contestazione da “puristi” sul frequente, presunto tradimento di Poe su grande schermo – si pensi alle libere versioni di Roger Corman con l’immenso Vincent Price – può essere confutata alla luce di questa vocazione degli scritti virtualmente teatrale, spesso istrionica, gigionesca, tale da far riconoscere a certe pellicole popolari una maliziosa fedeltà allo spirito se non alla lettera di Poe.

Certo, la scrittura può essere quella con cui l’invitato di The Fall of the House of Usher tenta vanamente d’intrattenere l’ospite Roderick nella notte della tragedia: un placebo – ci provoca Poe – non molto diverso dagli oppiacei o dall’etile. In The Oval Portrait l’arte svela addirittura una dimensione vampirizzante. La scrittura può essere tante cose, e nelle pagine di Poe troviamo libere fantasie e polemiche puntuali, provocazioni e pose, ansie di gloria letteraria e genuini rovelli interiori – e poco importa che siano portati in scena dall’attore Edgar che cambia continuamente maschera e non ci permette realmente di vederlo dietro. Da qualche parte di queste confessioni avvertiamo una verità profonda, legata a un vissuto pesante e agli abissi di un inconscio con cui certe epopee di nicchie sotterranee e sepolti vivi potrebbero avere a che fare: qualcosa che ci sfida a capire ma cogliamo solo e sempre in modo incompleto, venato di dubbi. Come i suoi successori (si pensi a Lovecraft, cui viene spesso paragonato) e predecessori nel linguaggio fantastico, Poe non può essere confinato nel caso clinico, nel limbo di uno strano e neppure nelle logiche di immediata appetibilità dell’odierno pubblico pop – non sempre intenzionato a lasciarsi sfidare dalla complessità. Se l’uomo è un libro maledetto che non si lascia leggere, la condivisione donata di sofferenze e glorie attraverso il tempo ha piuttosto il nome di letteratura.