di Franco Pezzini
[La presente relazione è stata presentata sabato 28 settembre al convegno Incubi, crimini e antiche paure. Il mondo di Edgar Allan Poe (1809-1849) organizzato a Torino da Rue Morgue, neonato Centro Studi su arte e criminologia, per il 170° anno dalla morte dello scrittore americano.]
1. Premessa. Rileggere Poe
Tutti conoscono Edgar Allan Poe (1809-1849). E non solo in questa sede: l’Americano Maledetto – come qualcuno lo chiamerà con un’enfasi teatrale che non gli sarebbe spiaciuta – ha cambiato il nostro modo di sognare. Primo tra i gotici – o più o meno tali – ad aprirsi la strada persino tra le letture scolastiche della sospettosissima Italia (hai visto mai che gli autori gotici portino i ragazzi sulla brutta strada), Poe è un evergreen editoriale, continuamente ristampato. E, badiamo bene, non è banale che continui senza interruzioni a essere proposto ai lettori italiani – e in sostanza a vendere: possiamo persino prenderlo come un segno di speranza. La scrittura elegante di un autore (non dimentichiamolo) della prima metà dell’Ottocento non è avvertita come pregiudizialmente ostica, e permette per esempio l’adozione in scuole di vario livello tra i testi consigliati; le domande sulla Vita e le conturbanti epifanie della Morte presenti nelle sue pagine costringono a meditare sull’intensa verità interiore della letteratura (cosiddetta) fantastica; le sue intuizioni sull’inconscio e su un genio della perversione che interpella insieme san Paolo e Freud incalzano il lettore nelle più scomode zone d’ombra. Pare sia addirittura, tra gli scrittori moderni, quello più frequentemente illustrato. Insomma una celebrità. Eppure…
Eppure questa conoscenza sfuma nel luogo comune. Le raccolte di suoi testi sono in genere miscellanee non strutturate in ordine cronologico, ma con racconti dispersi in un unico minestrone secondo il gusto del curatore del momento: quasi impossibile per il lettore cogliere il senso di un’evoluzione nella scelta dei soggetti e nello stile, le fasi tematiche (pur senza pretese d’individuarvi rigide cesure), magari i percorsi carsici dello stesso tema tra novelle serissime o invece buffe, e per tutte le tinte intermedie. Le sue donne spettrali e il suo orizzonte dolente vengono spesso semplicisticamente ricondotti a struggimenti per la morte di tisi della moglie bambina, idea che un semplice controllo delle date basterebbe a confutare. La pubblicazione dei suoi racconti su riviste ha comportato una loro – a volte significativa – trasformazione dalle prime edizioni a quella “definitiva” che leggiamo noi, con connotati cangianti che talora ne vedono mutare addirittura il senso di fondo: e questo in genere resta ignoto al lettore.
Sì, è considerato un classico, viene tanto pubblicato ma in genere senza contestualizzare il suo mondo (la società americana cui il giornalista Poe rivolge graffianti osservazioni, la dimensione metropolitana in ridefinizione, l’orizzonte di una nazione che sta spregiudicatamente costruendo il proprio impero): e il lettore medio nostrano, che conosce poco di quell’America pure tanto presente sullo sfondo, non coglie i richiami. I testi vengono poi presentati in troppi casi con note insufficienti o nulle, rendendo incomprensibile la maggior parte di ammiccamenti e sottotesti (spesso riferiti ad autori al tempo di moda ma oggi e tanto più da noi ignorati, oppure all’attualità minuta del suo tempo), e a volte risulta criptico il significato stesso delle storie. Col risultato d’insistere sulla musicalità di Poe: vero, ma quella musica supporta significati precisi, e non si esaurisce nella bellezza dell’arabesco cui pure lui tanto tiene.
E ancora: un certo tipo di caricatura appioppatagli insiste sul Poe alcolista, magari drogato, magari dedito compulsivamente al gioco, le cui opere sarebbero frutto diretto delle sue infinite trasgressioni. Questa è un’altra delle sgangherate fantasie su di lui, in parte già circolante per i livorosi commenti di alcuni contemporanei. A periodi Poe è stato effettivamente vittima dell’alcool – etilismo e consunzione sono del resto i due grandi e diffusissimi mali dell’America dell’Ottocento – ma non è questa una situazione continuativa che l’abbia afflitto negli anni; non risulta aver fatto uso di droghe, salvo le dosi d’oppio contenute in farmaci d’epoca; non era, a dispetto di quanto ogni tanto si senta dire, un cultore dell’assenzio; e le esperienze di gioco d’azzardo, se ci sono state, si sono esaurite tra le ragazzate degli anni universitari. Molto di tutto questo si trova invece nei suoi personaggi, che troppo spesso vengono confusi con lui. Quanto ai suoi testi formalmente levigatissimi, non si tratta di opere compatibili con la perdita di controllo tipica dell’assunzione di alcolici o droghe, e presuppongono un’attività letteraria rigorosamente sobria. Non dimentichiamo mai, piuttosto, la sua teatralità – istrionismo, gigioneria – che lo fa giocare con certe maschere: ma in modo lucido, consapevole. Sfuggente, certo: basta leggere il suo epistolario e ci rendiamo conto della quantità di menzogne o piuttosto fantasie da autofiction che imbandisce agli interlocutori. Un ignoto a se stesso che ha comunque estrema consapevolezza del suo ruolo autorale e del tipo di controllo richiesto dalla buona letteratura.
La stessa nomea di scrittore dannato, maestro del macabro e del mistero lo confina a monumento e padre remoto dei generi “a effetto” ancora vivissimi oggi – in particolare horror, fantascienza e poliziesco: ma l’immagine pur fondamentale del Poe maestro d’orrori deve fare i conti col fatto che una parte molto importante della sua produzione è in realtà di carattere ironico, satirico o decisamente comico.
Si direbbe persino che non possano sorgere novità su di lui, tanto la critica ha lavorato sui suoi testi quando ancora eredi e predecessori “neri”, gotici e affini, restavano fuori dalle accademie. Una presunzione di conoscenza che invece continua a confrontarsi con sorprese: per esempio gli studi qualche anno fa dello scrittore nostrano Gianfranco Manfredi su giornali statunitensi dell’Ottocento evidenziano quanto nell’immaginario locale la consunzione, diffusissima e letale – una costellazione vaga e ampia di malattie polmonari, dalla TBC alle affezioni dei lavoratori dei mulini –, nutrisse una mitologia del vampiro. Qualcosa che permette di interpretare Ligeia & sorelle (compresa la dentata Berenice) come assai più radicate nel filone dei succhia-vita di quanto in genere si sia concesso. Per non parlare di quel vampirismo che in The Man of the Crowd, sorta di Ebreo Errante della modernità urbana, ha ormai valore metaforico di un’osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa.
Insomma, studiare Poe ci provoca a scoprire che si tratta di un bacino di fantasie assai meno scontate di quanto spesso si consideri: e iniziative di rilettura della sua opera permettono veri e propri colpi di scena. Di qui anche l’importanza di un lavoro sul tessuto dei testi come via via prodotti negli anni – a cogliere fili che si dipanano tra un titolo e l’altro – e via via oltretutto trasformati nel tempo, soprattutto quelli della prima produzione: basti dire che il primo racconto di Poe, Metzengerstein, nato con abbondanti dosi d’ironia macabra e di paradosso fiabesco, diventerà, di taglio in taglio, un racconto nero in perfetto stile gotico.
2. Stagioni, variabili e costanti
Si è accennato al problema della difficoltà per i lettori delle raccolte circolanti – in sé anche ottime, la mia non è una polemica – di sfuggire a un pregiudizio fondamentale, che cioè Poe abbia per tutta la vita battuto un po’ sempre gli stessi pochi temi. Chi invece si sforzi di seguire un ordine cronologico dei testi si accorge di un’evoluzione della sua opera, in rapporto sia ai suoi interessi artistici e speculativi sia – non dimentichiamo questo aspetto – alla pragmatiche possibilità di collocazione editoriale. Qualcosa che conduce a riconoscere varie fasi creative, certo non chiuse e prive di rigide cesure (i temi transitano spesso da una fase all’altra, ma magari con equilibri interni sensibilmente mutati); e tuttavia connotate da un diverso sapore generale. In questi termini forzatamente elastici la produzione di Poe può ripartirsi – alla grossa – in tre grandi stagioni.
1. C’è anzitutto una stagione che potremmo chiamare delle sperimentazioni, e che corre dalle prime prove poetiche (1824) e narrative (appunto Metzengerstein, 1832) a Ligeia, il primo dei capolavori riconosciuti (1838). Una fase cioè in cui il giovane autore sta cercando di trovare espressioni congrue al suo lussureggiante mondo interiore, a partire dal suo primo amore, la poesia; e dove però si trova indotto a misurarsi con forme via via diverse di scrittura – dai racconti al suo unico romanzo compiuto Gordon Pym (1837-38), dalla saggistica a tagli diversi di articoli e recensioni –, in parte proprio per star dietro alle proprie fantasie e in parte per motivi pragmatici, economici di collocabilità dei pezzi. Certo continua a produrre poesia, una forma di scrittura che frequenterà tutta la vita, sia con testi nuovi, sia tornando indefinitamente a modificare i vecchi. E certo riconosce una propria vocazione idealmente teatrale: è figlio d’attori, ha il teatro nel sangue e una certa teatralità nel rapportarsi al mondo; così tenta anche un’opera teatrale che però non lo convince e abbandona, il Politian (1835-1836). Ma abbastanza presto deve rendersi conto che entrambe, la cifra poetica e quella teatrale, possono trovare trasfusioni artisticamente adeguate e pragmaticamente vendibili nella prosa breve: quella in fondo che lo renderà più famoso.
Così da un lato, sull’onda delle fantasie visionarie, esoticheggianti e oniriche presenti nella sua produzione lirica (per due esempi emblematici della primissima produzione, si pensi solo a Tamerlane o Al Aaraaf) vediamo apparire in prose brevi una serie di racconti su fantastici scorci esotici, incredibili città di mondi remoti, orienti favolosi e ambigui (A Tale of Jerusalem, Shadow—A Parable, Four Beasts in One—The Homo-Cameleopard, Silence—A Fable). Dall’altro vediamo trasferire in forma di racconti tutto un teatro di febbrili monologhi dove sembra di vedere Poe gigioneggiare su un palcoscenico.
Questo secondo aspetto è particolarmente evidente nei testi sulle donne che tornano, caratteristici di questa prima stagione (Berenice, Morella e appunto Ligeia): un tema che incalza Poe un po’ per tutta la vita, ma in seguito declinerà quale elemento di contesti più complessi mentre qui emerge per così dire puro, in primissimo piano. Si è visto in questi racconti il contributo di Poe al nascere della ghost story e può essere senz’altro corretto: ma la natura di queste ritornanti va rettamente intesa, e in primo piano spicca anzitutto l’interesse per i doppi e le ossessioni e crisi legate all’identità. Ciò che non stupisce, visto che il tema identitario – sia nell’accezione individuale (personale, psicologica) che collettiva (sociale, politica) – è uno dei più forti e connotanti del fantastico moderno, e corre nella tradizione gotica fin dai suoi esordi: e del resto in questa fase Poe pratica con larghezza le forme del gotico.
Ma pensiamo a un altro topos gotico, la casa-palazzo che crolla o comunque va in desolazione, e che lo accompagnerà anche nelle fasi successive. Che possiamo idealmente scomporre in due costituenti, la casa-palazzo (enorme, labirintica erede dei castelli gotici) e il grande incendio, legati a stretto filo alla mitologia personale del bambino e poi uomo Edgar: la prima nella memoria della grande magione Moldavia – si noti il nome evocante fantastiche Europe orientali – del patrigno John Allan archetipo del tiranno; e il secondo dell’apocalittico rogo del 26 dicembre 1811 al teatro di Richmond associato alla memoria della morte (poco prima, 8 dicembre) di sua madre. Il fatto che il primo racconto, appunto Metzengerstein con il crollo del palazzo in fiamme, già metta in scena tale combinazione può dir qualcosa della loro forza immaginale.
Ma Poe inizia a rileggere in questa fase anche altri temi romantici neri – dal suicidio degli amanti (The Assignation) alla contrattazione col diavolo, reinventato in chiave ironica (The Duc de L’Omelette, Loss of Breath, The Bargain Lost/Bon-Bon) – o comunque macabri/grotteschi come l’esordio del motivo dell’uomo che perde pezzi in chiave burattinesca (ancora Loss of Breath): questi motivi emergeranno ancora per qualche tempo nella seconda stagione per poi sparire. Appare già anche, non casualmente date la contingenza della grande epidemia colerica, il tema del contagio (King Pest, Shadow—A Parable).
D’altra parte, come detto, Poe attraversa disinvoltamente ogni barriera dei generi letterari che compilatori successivi hanno cercato di recintare. Così se in questa prima fase troviamo per esempio le prime prove di una satira di costume ancora surrealmente burattinesca (Lionizing, Mystification), eccolo dare voce ad altri due filoni eccellenti. Cioè da un lato le grandi storie di mare – spesso estreme, tra oceani onirici e terre cave, suggestioni simboliche e misticheggianti (MS. Found in a Bottle, appunto il Gordon Pym) – che guardano insieme ai filoni avventuroso, dei drammi di navigazione e dei viaggi d’esplorazione. E dall’altro inizia a profilarsi una protofantascienza dai connotati satirici – come spesso nei prodromi del filone, tra Sette e Ottocento –, ma non priva di genuine provocazioni scientifiche sul tema del volo mirabolante (The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall).
Un discorso a parte potrebbe riguardare un testo particolare come l’articolo Maelzel’s Chess Player, dove lo sforzo di decostruire un meccanismo da spettacolo – il famoso Turco giocatore di scacchi portato in giro dall’impresario Johann Nepomuk Mälzel – prefigura già in fondo i meccanismi del poliziesco.
2. Come detto, non è tanto un discorso di cesure tematiche quanto di tipo d’approccio e status autoriale quello che permette di individuare dopo Ligeia una seconda stagione, indicativamente fino a The Pit and the Pendulum, 1842-43: è l’epoca – potremmo così chiamarla – dei grandi affreschi fantastici. Poe si è ormai affermato, sa come muoversi ed è interessante vedere che i testi cambiano assai meno dalla prima all’ultima redazione. E dove cambiano, talora è anche nel continuo dialogo tra poesia e prosa: nei racconti inserisce componimenti lirici tematicamente adeguati (per esempio The Conqueror Worm, 1843, in Ligeia) o invece li scorpora dal testo (Inno, sfilato nel 1840 da Morella).
I singoli temi gotici (la casa-palazzo che va in desolazione, l’identità e il doppio, l’epidemia) vengono ampliati in grandi affreschi, articolando maggiormente le trame e le costruzioni d’ambiente: si pensi a The Fall of the House of Usher, William Wilson, The Masque of the Red Death, ma anche a The Man of the Crowd e The Pit and the Pendulum. Il tema della donna che torna, in particolare, trova ora riproposizioni in storie che ampliano la visuale (appunto The Fall of the House of Usher) o viene radicalmente reinventato (Eleonora, The Oval Portrait), forse anche in rapporto con l’inizio nel 1842 della malattia della moglie.
Certo Poe continua a sperimentare (lo farà, del resto, tutta la vita) ma su una base ormai sicura quanto a tecnica e apprezzamento dei lettori. Proprio dalla fusione tra elementi del gotico e storie di ragionamento/indagine/deduzione (basti citare lo Zadig di Voltaire) costruisce ora per esempio qualcosa di radicalmente nuovo, dando origine al romanzo poliziesco con The Murders in the Rue Morgue; e una novità è anche di attribuire a quel testo un sequel nel senso moderno, The Mystery of Marie Rogêt – nasce insomma il detective seriale. Alla categoria degli enigmi da risolvere si può peraltro accorpare anche l’articolo A Few Words on Secret Writing sul tema della crittografia, che darà frutti narrativi più avanti.
Sempre mixando suggestioni macabre e speculazione filosofica vara poi una piccola serie di dialoghi tra soggetti defunti che ragionano sulle misteriose realtà oltremondane e sulla distruzione del pianeta per il passaggio di una cometa, quasi in termini di fantascienza apocalittica (The Conversation of Eiros and Charmion, The Colloquy of Monos and Una). Per contro va chiudendo in questi anni il tema delle avventure di mare (sia pure con un gioiello come A Descent into the Maelström) e di terra (l’avvio di The Journal of Julius Rodman, nuovo romanzo lasciato però incompleto).
Torna anche il tema del diavolo, sempre in chiave grottesca alla Hoffmann (The Devil in the Belfry e Never Bet the Devil Your Head). Del resto i racconti in chiave di satira di costume mostrano ancora in genere caratteri burattineschi (How to Write a Blackwood Article, The Business Man, A Predicament, The Man That Was Used Up, Why the Little Frenchman Wears His Hand in a Sling); con la curiosa eccezione di Three Sundays in a Week che già preannuncia i testi più tardi di pura commedia e mostra il caso eccezionale di un’eroina femminile non passiva, e che vince grazie a competenze scientifiche. Ma spesso la satira, il grottesco, la comicità, appaiono connotati da elementi macabri: trova massimo sviluppo in questo periodo il citato tema dell’uomo – o della donna – che perde pezzi, cioè la testa o altro (A Predicament, The Man That Was Used Up, Never Bet the Devil Your Head).
Abbandonati in generale gli esotismi della prima stagione, i testi estetizzanti acquisiscono risonanze filosofiche di più ampio respiro (The Island of the Fay, The Landscape Garden) o sviluppano riflessioni sul richiamo al Bello anche nella vita corrente (l’articolo The Philosophy of Furniture).
(1 – continua)