di Sandro Moiso
Julien Temple nel 1980, con il film The Great Rock’n’Roll Swindle, ci aveva informati, in maniera irriverente e trascinante, del fatto che non solo la musica pop con tutto il suo circo mediatico e mercantile, ma anche il fenomeno punk, apparentemente così trasgressivo e diverso come nel caso degli iconici Sex Pistols, altro non fosse che una ben congegnata truffa ai danni dei giovani consumatori. Anche di quelli più radicali nei gusti e nei comportamenti.
Oggi la grande truffa è diventata green, verde come quel capitalismo che in nome della propria sopravvivenza finge di rinnovarsi affinché nulla realmente cambi, sia nel suo devastante rapporto con l’ambiente che nei rapporti di classe, dominio e sottomissione che le sue regole economiche da sempre sottendono.
Greta Thunberg è sicuramente un personaggio ispiratore di grande simpatia e i giovani che si sono mossi dietro di lei e con lei sicuramente hanno molto a cuore il destino di questo pianeta e della nostra specie. Ma il discorso sulla casa comune, come ho già affermato la settimana scorsa proprio su Carmilla (qui), rimane profondamente inficiato dal fatto che in una società divisa in classi c’è ben poco in comune tra chi sta in alto (pochi) e chi sta in basso (la maggioranza, soprattutto nelle aree esterne all’Occidente o ai paesi del G dai vari numeri che lo accompagnano a seconda delle occasioni). Molto spesso, infatti, mentre le case di molti bruciano o vengono travolte dal fango o da altri disastri naturali (dall’Amazzonia a New Orleans fino ai nostri Appennini), in altre case si festeggia: non lo scampato pericolo come sarebbe lecito supporre, ma il guadagno che tali disgrazie altrui possono portare nelle tasche di pochi fortunati.
Pochi fortunati che dalla loro hanno a disposizione capitali, media, stati con i loro apparati repressivi e di intervento. Strumenti che di volta in volta vengono utilizzati per investimenti e ricostruzioni, per propagare l’idea di un futuro di sviluppo sostenibile oppure reprimere, con vari gradi di interdizione, tutti coloro o i movimenti che a queste situazioni di disagio e disuguaglianza economica e sociale cercano di opporsi con la controinformazione e con i fatti (là dove ciò è possibile).
Stati che almeno in una parte del mondo si dichiarano oggi preoccupati dall’attuale situazione di emergenza ambientale e/o climatica, proponendo di fatto soluzioni che più che provvedere a tirare immediatamente il freno a mano dell’inversione di tendenza immediata sul piano della produzione e dei consumi, oltre che della proprietà dei mezzi di produzione (uno dei più importanti dei quali è rappresentato proprio dalla terra e dalle risorse naturali contenute sopra e sotto di essa), propendono nel trovare nuovi territori di investimento proficuo e di rinnovamento economico e tecnologico per la macchina capitalistica e il modo di produzione che l’ha generata, e che ne consegue allo stesso tempo, affinché la stessa non si fermi. Sia nella produzione che nell’accumulo di profitti che ne derivano.
In numerosi scritti degli anni Cinquanta, sia in occasione delle alluvioni del Polesine che di fronte al rapporto che lega lo sfruttamento intensivo dei suoli alla rendita fondiaria, Amadeo Bordiga aveva già affrontato il problema. Fu forse l’unico comunista novecentesco a non avere paura di affrontare la fasulla realtà dello sviluppo proposto dal capitalismo e dai suoi funzionari, denunciandone l’avidità tutta tesa a lucrare sui cosiddetti “disastri ambientali” e, allo stesso tempo, senza ritenere, però, che il discorso sull’ambiente fosse soltanto un espediente per fermare lo sviluppo della classe operaia e delle sue forze organizzate (come taluni “estremisti” odierni sostengono, appellandosi truffaldinamente a Marx e al Manifesto del Partito comunista e alle vestigia di un’analisi imbastardita dal marxismo-leninismo staliniano che dello sviluppo industriale aveva fatto il nerbo del proprio discorso, sia in Unione Sovietica che in tutte quelle aree in cui fosse rappresentato dai cosiddetti partiti comunisti del Novecento).1
Tale necessità di introdurre il discorso di una critica del capitalismo, e dei disastri ambientali che ne conseguono inesorabilmente, fondata su reali istanze di classe resta tutt’ora valida e urgente. Valida perché anche se le teorizzazioni del comunismo novecentesco ispirato dall’esperienza sovietica si sono rivelate insufficienti e dannose nel concepire un società diversamente organizzata, in cui troppo spesso la visione del progresso ha finito col coincidere in tutto e per tutto con quella ispirata dallo sviluppo economico di stampo capitalistico, la società è rimasta ferreamente divisa in classi e il numero degli espropriati e dei diseredati è aumentato in maniera esponenziale, man mano che si riduceva vistosamente il numero di coloro che da tale espropriazione economica, politica e culturale traevano beneficio e profitto. Urgente perché effettivamente la situazione attuale del pianeta non farà ulteriori sconti alla nostra specie, in un contesto in cui i processi devastanti indotti dal mutamento climatico saranno probabilmente ancora più rapidi del timing che la scienza ha già previsto (qui).
Urgenza cui gli Stati e i grandi interessi finanziari ed imprenditoriali internazionali fingono soltanto di rispondere con opzioni (tasse destinate a colpire indistintamente i consumi popolari, fasulli tagli alle emissioni, promozione di grandi opere destinate a “migliorare i trasporti”, provvedimenti contro l’uso della plastica e dei carburanti fossili che richiedono tempi lunghissimi e che sono destinati a rivelarsi come inutili e, quasi sicuramente, dannosi sul lungo periodo) che sono autentica sabbia gettata negli occhi di chi si sforza di comprendere ciò che succede o che si illude di poter salvare la società senza modificarla radicalmente.
Illusione che anima, non per cattiva fede, un movimento come Friday for Future e i giovani che in maggioranza lo compongono, anche se la fiducia che alcuni di loro dimostrano ancora nei confronti dei concetti di sviluppo e progresso potrebbe portarli ad essere involontari portavoce non dell’interesse della maggioranza, ma di un ulteriore rafforzamento della profittevole bestia dello sfruttamento della Natura e dell’Uomo come specie.
Va qui poi notato come la stessa definizione di antropocene, adottata per definire le modificazioni che la nostra specie avrebbe indotto sul clima e sull’ambiente, tanto da diventare il fattore che maggiormente li influenza, è riduttiva e troppo generalizzante allo stesso tempo.
E’ un modo di produzione preciso quello che, a partire dal 1500 e dall’espansione del capitalismo mercantile, e poi estrattivista, europeo2 ha iniziato a modificare pesantemente il clima e l’ambiente su scala planetaria, motivo per cui il termine capitalocene è di gran lunga preferibile al primo. Non generalizza la colpa, ma indica precise e perseguibili responsabilità storiche e socio-politiche. Lasciamo perder il primo e usiamo il secondo, ogni discorso ne guadagnerà in chiarezza.3
C’è stato un gran can can mediatico in questi giorni sulla presenza di Greta alle Nazioni Unite, sulle grandi manifestazioni che hanno preceduto nei giorni scorsi l’apertura dei lavori del Youth Climate Summit all’ONU dal 21 settembre e, soprattutto, sul Climate Action Summit che è iniziato il 23 settembre presso lo stesso palazzo di vetro. Vetro che non ha però permesso di nasconder come dei 193 paesi che compongono l’assemblea generale, soltanto 66 di essi abbiano preso parte all’iniziativa, con la significativa auto-esclusione degli Stati Uniti (con una fugace e insignificante comparsata di Donal Trump e del suo vice), del Brasile e del Giappone (solo per citare alcuni dei più importanti assenti).
Mentre nuove e più devastanti guerre si delineano all’orizzonte per il controllo delle energie fossili, questa è la misura reale dell’interesse che il capitalismo e i suoi servi nutrono davvero nei confronti del cambiamento climatico, della salvaguardia dell’ambiente e degli esseri umani, soprattutto dei meno abbienti.
No future recitava uno degli slogan tipici del punk, molto prima che Greta lo denunciasse alle Nazioni Unite. Parole, quelle di Greta, che hanno allarmato il Presidente francese Macron tanto da fargliele subito denunciare come troppo radicali e destinate ad antagonizzare la società (qui). Ma, effettivamente, non ci sarà futuro per i giovani e per l’intera nostra specie se il modo di produzione capitalistico non sarà rovesciato a partire dal basso. Non esiste un modello di sviluppo sostenibile in ambito capitalistico. In tale contesto infatti lo sviluppo, inteso nei termini economici attuali, è sempre di più insostenibile, mentre il cosiddetto sviluppo sostenibile non può costituire altro che un fuorviante ossimoro.
Quasi quanto la protesta autorizzata dal Ministro della Pubblica Istruzione Fioramonti in occasione di venerdì prossimo 27 settembre, poiché, sempre secondo il ministro, tale protesta non può avere una controparte o qualcuno cui opporsi politicamente. Ovverosia una protesta disarmata in partenza, privata di qualsiasi capacità di individuare gli avversari reali.
Un’aprioristica depoliticizzazione e sterilizzazione della protesta giovanile che non impedisce allo stesso ministero di far sì che le scolaresche siano invitate ed accompagnate a visitare autentiche cattedrali della devastazione ambientale, come nel caso dei maxi-cementificio oppure degli impianti di rigassificazione, che con uno stile comunicativo greenwashing cercano di presentarsi come amici dei territori che contribuiscono a devastare.
Uno stile greenwashing che sembra accompagnare le promessi del capitalismo verde sia a livello nazionale che planetario, quando ad esempio si ripromette di eliminare le emissioni dannose entro il 2050 (come è stato fatto in questi giorni all’ONU), fingendo di ignorare che gli scienziati ci concedono ancora undici anni al massimo per agire nei confronti dell’emergenza climatica.
Una comunicazione che più che rivelare un nuova sensibilità delle imprese e dei capi di governo nei confronti dell’attuale devastazione ambientale, rivela il tentativo di rendere più sensibili i giovani e i lavoratori nei confronti dell’utilità e insormontabilità del modo di produzione capitalistico e dei suoi interessi, eternizzandone il modello di sviluppo e lo stile di vita.
Depoliticizzazione, sterilizzazione del conflitto e difesa di un ben preciso modello di distruzione della specie e dell’ambiente che i giovani che hanno preso la testa del corteo per il clima di Parigi di sabato 21 settembre hanno saputo concretamente rifiutare e rovesciare nel loro contrario. Così come d’altra parte il movimento NoTav continua a fare ormai da trent’anni.
Di Amadeo Bordiga si vedano almeno gli assunti del Programma immediato della rivoluzione, meglio noto come Tesi di Forlì, del 1951; Mai la merce sfamerà l’uomo, oggi riproposto dalle edizioni Odradek di Roma e poi i testi (fili del tempo) contenuti in Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, http://www.fondazionebordiga.org/Drammi-1.pdf ↩
Andrebbe approfondita, in altra sede, l’origine della credenza popolare diffusa in varie aree del mondo secondo la quale si crede che colui che scopre una miniera, è destinato a morire in breve tempo. Si confronti: Mircea Eliade, I riti del costruire, Jaca Book 1990-2017, p.53 ↩
Si veda Jason W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre corte, Verona 2017 ↩