di Gioacchino Toni
La rapida trasformazione del cellulare utilizzato esclusivamente per telefonare e inviare brevi messaggi, diffusosi sul finire degli anni Novanta, nello smartphone, introdotto circa un decennio dopo, ha rimodellato l’esperienza sociale degli individui che ne fanno uso, contribuendo, inoltre, a concretizzare l’idea dei media come estensioni del corpo umano, espressa verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso da Marshall McLuhan.
Attorno allo smartphone si sono inevitabilmente sviluppate discussioni oscillanti tra la fascinazione per le potenzialità offerte dal nuovo dispositivo e i timori di chi ne denuncia gli effetti nefasti sulle relazioni e sull’equilibrio psicologico degli utenti. Sin dalla metà degli anni Novanta vi sono studiosi che hanno insistito su come i media digitali producano una diminuzione della capacità di conversare e interagire in maniera piena con gli altri; la tendenziale sostituzione dell’interazione parlata in presenza con il ricorso a una mediata da messaggi determinerebbe una comunicazione decisamente più superficiale, controllata e costruita in base a come il soggetto desidera essere. Su questa linea, ad esempio, si è pionieristicamente espressa la studiosa Sherry Turkle.1
Più recentemente, a proposito dello smartphone, studiosi come Marsha Barry e Max Schleser2 si sono focalizzati sulla sua capacità di espandere la condizione di co-presenza oltre la tradizionale interazione faccia-a-faccia, sottolineando come ciò produca nuove forme di socialità e di relazioni e incida sulle modalità con cui ci si rapporta con lo spazio e i luoghi. Jaine Vincent e Leslie Haddon,3 nell’analizzare le esperienze vissute dagli utilizzatori di smartphone, hanno messo in luce la particolare versatilità di questo dispositivo, mentre Nick Couldry e Andreas Hepp4 si sono soffermati sul passaggio da un consumo mediale basato su una comunicazione intermittente, che distingue nettamente tra mass media e media interpersonali, a una tendenziale disponibilità online continuativa.
Nonostante il corposo dibattito circa le conseguenze che l’uso dello smartphone comporta sulla vita delle nuove generazioni cresciute con esso, esistono poche mappature del come gli individui utilizzino concretamente tali dispositivi e sul tipo di immaginario che vi gravita attorno. Un contributo volto a colmare tale lacuna è dato dal lavoro di Michela Drusian, Paolo Magaudda e Cosimo Marco Scarcelli, Vite interconnesse. Pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online (Meltemi 2019). La ricerca empirica alla base del libro è stata condotta tra il 2016 e il 2018, con approccio socio-antropologico, su un campione di giovani ragazzi e ragazze di età compresa tra i 18 e i 30 anni. L’obiettivo principale è stato quello di «interpretare come cambia il rapporto tra giovani, relazioni sociali e contenuti mediali attraverso le applicazioni utilizzabili in mobilità e, dunque, rispetto alle nuove possibilità e i vincoli di gestione del tempo, dello spazio e relazioni offerto da queste tecnologie» e, più in generale, di «mappare le forme di uso delle applicazioni degli smartphone per costruire una panoramica in relazione a tre differenti questioni: la rappresentazione del sé e la costruzione dell’identità online; le relazioni attraverso le app, con particolare riferimento alla capacità delle piattaforme di incorniciare le pratiche dei giovani; l’articolazione delle forme di consumo, sia per quanto riguarda la messa in mostra e condivisione delle scelte e i gusti, sia rispetto alle pratiche di fruizione e di acquisto di beni di consumo» (p. 13).
Gli autori sottolineano come l’analisi degli usi dello smartphone contribuisca a cogliere il ruolo sempre più importante assunto dalle diverse piattaforme social nell’ambito dei servizi del capitalismo digitale indagato da studiosi come Nick Srnicek5. Studiosi come José van Dijck, Thomas Poell e Martijn de Waal parlano di platform society per evidenziare come si sia avviati verso «una società “in cui i flussi sociali ed economici sono crescentemente incanalati in un ecosistema di piattaforme online globali (per la stragrande maggioranza private) guidato da algoritmi e alimentato da dati” e in cui “le piattaforme non sono né neutrali né imparziali, ma emergono con norme e valori specifici inscritti nelle loro architetture”»6.
Dunque, sostengono gli autori di Vite interconnesse, «puntare l’attenzione sulla costruzione dell’esperienza incentrata sullo smartphone ci permette di indagare in dettaglio alcune delle sfaccettature di come i media digitali siano diventati estremamente pervasivi nella vita contemporanea, una condizione che i sociologi Nick Couldry e Andreas Hepp hanno recentemente definito come una “mediatizzazione profonda”, in cui “gli stessi elementi e blocchi fondativi a partire da cui costruiamo il nostro senso del sociale diventano essi stessi parte di un processo di mediazione basato sulle tecnologie”.7 In questa rinnovata condizione di “mediatizzazione profonda”, in cui lo smartphone è divenuto una protesi tecnologica centrale nella costruzione della nostra realtà quotidiana, sono diventati crescenti anche gli allarmi legati a come queste nuove tecnologie stiano incidendo sulla personalità e le identità delle nuove generazioni» (p. 9).
Al fine di realizzare una mappatura degli usi e delle pratiche che le giovani generazioni italiane hanno sviluppato attorno a queste nuove tecnologie, gli autori si sono concentrati su sei questioni, affrontate in altrettanti capitoli: il ruolo dello smartphone come tecnologia; il suo uso nelle relazioni interpersonali; le pratiche fotografiche; l’ascolto della musica; il mondo dei consumi; i discorsi dei giovani attorno alla “dipendenza” dallo smartphone.
A partire dalla disamina delle retoriche legate alle forme di dipendenza da smartphone, l’ultima parte del volume «mette in evidenza le difficoltà di definizione dei comportamenti “dipendenti”, ma anche il rilievo che questa idea ha assunto nei discorsi sull’uso dello smartphone. Quello che emerge è che i soggetti intervistati sono consapevoli della complessità del fenomeno, conoscono il senso comune collegato ai vari pericoli della dipendenza ed esprimono opinioni in linea con una visione apocalittica della pervasività delle tecnologie nella vita quotidiana» (p. 17).
Oltre alla molteplicità delle esperienze quotidiane dei giovani interconnessi, la ricerca di Michela Drusian, Paolo Magaudda e Cosimo Marco Scarcelli ha il merito di evidenziare come «le pratiche tecnologiche incentrate sullo smartphone costituiscono un terreno di costante ridefinizione di queste stesse esperienze: un terreno in cui vincoli tecnologici, bisogni e interessi, cornici culturali condivise e forme di appropriazione creativa interagiscono costantemente nella costruzione di nuove modalità relazionali nel mondo profondamente mediatizzato in cui viviamo» (p. 18).
I giovani creano un legame affettivo con lo smartphone e ciò che può veicolare e conservare, un legame che essi stessi spesso leggono come forma di dipendenza ma la ricerca dimostra come, prima di elaborare granitiche sentenze su questo dispositivo, ci sia «molto di più da capire e comprendere oltre la retorica della dipendenza tecnologica» (p. 157).
S. Turkle, La vita sullo schermo, Apogeo, 1997. ↩
M. Barry, M. Schleser (a cura di), Mobile media making in an age of smartphones, Palgrave Macmillan, 2014. ↩
J. Vincent, L. Haddon (a cura di) Smartphone cultures, Routledge, 2018. ↩
N. Couldry, A. Hepp, The mediated construction of reality, Polity Press, 2017. ↩
N. Srnicek, Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web, Luiss University Press, 2017. ↩
J. van Dijck, T. Poell, M, de Waal, The Platform Society, Oxford University Press, 2018, p. 3 ↩
N. Couldry, A. Hepp, The mediated construction of reality, Polity Press, 2017, p. 7. ↩